31 Agosto 2024

Le sette ultime parole di Gesù sulla croce: un’eredità verticale

Il dolore è sempre degno, materia candida. Castità ultima di tutti i corpi: proni alla pena, alla piaga, alla sete. Ma le zone d’ombra di ciò che si è patito, dove si ferma il cuore – che weilianamente duole, perché attendeva il bene – vanno taciute. Il male si estingue nell’inazione che potenzia l’interiorità, aggrappati ai propri frammenti d’innocenza.

Questo non ha a che vedere con le opere nel mondo, che vanno tenute deste, e buone. È qualcosa che accade nell’intimo, in assordante silenzio: un gesto inavvertibile che lavora in coordinata altra, in territori non graduabili, non normati né agiti da legge di necessità.

Nell’attuale continuo, reciproco violarsi dell’umano con atti e parole, siamo alle cose ultime: la civiltà boccheggia, i rapporti interpersonali sono pantomime tra maschere assurde. E alle cose ultime, basilari e caparbie, occorre volgere lo sguardo, per ritrovare il centro. Credere ancora è l’azzardo del volo: eleggere la dimensione ulteriore, che in fede tutto esige, e nell’inconcepibile tutto rifonda.

In quest’ambito, le sette ultime parole di Gesù sulla croce sono un’eredità miliare del Figlio dell’Uomo, perché stillate nella prova, senza intento, verticali al Padre.

Qualunque umana creatura può scegliere di non rinnegarsi nella propria vocazione all’altezza. Platone, nel Timeo:

“Per quanto concerne la parte dell’anima alla quale spetta la sovranità in noi, bisogna concepire che Dio l’ha donata a ciascuno come un essere divino. Io affermo che questo essere abita al sommo del nostro corpo, e che per la sua parentela col cielo ci solleva al di sopra della terra, perché noi siamo una pianta non già terrestre ma celeste […] questo essere divino tien sospesa la nostra testa, che è la nostra radice, e così mantiene diritto tutto il corpo”.

L’asse verticale è quello della croce: con braccia aperte all’altro, il singolo può accogliere in silenzio il male che lo investe, assorbendolo in sé senza darvi risonanza. Interrompendo la catena del torto.

Fare del cuore un sepolcro del mancato, dove il dolore è lasciato libero di scavare, finché non sia terminato il tripudio del crollo in ogni sua gloria: quello è il punto geometrico, puramente spirituale, che dell’umana bassezza fa dimora inerte, in contemplazione immobile. Senza volere, senza sapere, l’anima arresa, contrita di sé, che non biasima, ma si lascia divaricare dalla sofferenza avuta in sorte, non nutrendo rabbia, non desiderando reciprocità di abuso, in minima parte redime e svincola chiunque altro.

Pater, dimitte illis quia nesciunt quid faciunt (Lc 23, 34): il perno, il punto fermo su cui la macina della miseria attorno può ancora ruotare: perché ciascun evento possa proseguire, esprimendo il suo enigma. Padre, perdona loro, Gesù chiede remissione per i propri carnefici, vedendone la paura, l’opacità, l’asservimento. Si fa pertugio di luce per chi, accanto, è nell’angoscia, portandolo a sé, con sé: Hodie mecum eris (Lc 23, 43). Oggi stesso sarai con me in paradiso, queste le parole al corrotto, al perduto, che nello strazio conserva la gemma: il cuore che ha bisogno, e che ancora crede.

Ha cura degli altri Gesù: se porta il ladrone con sé, oltre l’intima e sottilissima soglia azzurra, così dispone per chi rimane, ma con infinita dolcezza: che ci sia tutela, e compagnia buona, nel percorrere il cammino dell’esistenza (Gv 19, 26-27). Mulier, ecce filius tuus, ecco tuo figlio, ecco tua madre. Affidare, commettere alla fede dell’altro: ciò che rende possibile il protrarsi dell’amore.

Antonello da Messina, Crocefissione, 1475 ca.

E non rinnega il suo sgomento Gesù, nell’abbandono (Mt 27, 46; Mar 15, 34): dichiara il bisogno. Sitio, ho sete. Continuare a chiedere il bene, senza timore di essere inesauditi, derisi, umiliati. Di fronte al male del mondo: presenza ridanciana, acefala, che strattona i viventi gli uni contro gli altri nel moto meccanico, nella cosa grezza. Chiunque dia la propria materia nobile in pasto alla pochezza, o pratichi la prevaricazione, l’umiliazione: chiunque in tal modo degradi sé stesso degrada ogni suo simile, inchiodando Cristo sulla croce, incessantemente.

Fin dagli albori il libro della vita sa dell’Agnello immolato (Ap 13, 8). Così eterna è l’icona di Giobbe: la creatura su cui il male testa il suo nerbo; il vivente che, piegato, non cede al nubifragio, ma rimane operoso, immobile nella propria essenza.

“Prima Cristo, che è la primizia” scrive San Paolo (1Cor 15, 23), poi coloro che gli appartengono, cioè chiunque lo voglia.

Amore è scegliere di appartenere, di essere fedeli. “A cosa serve in questo mondo il nostro / amore, la fedeltà” si chiede Novalis. L’amore terreno è specchio dell’eterno, l’eros è un esempio chiassoso, giovanissimo del bene del Padre. “Chi ama – scrive Massimo Morasso in risposta a Novalis – non giura sulla propria fedeltà nella carne, ma fa qualcosa di più bello. Fa una promessa all’amato sulla propria fede” (Massimo Morasso, L’amore, il silenzio, la bellezza, Anima Mundi 2020).

Pure, è vero il contrario. Il desiderio mistico è intimamente erotico, radicato nel sentire del corpo: esperienza tenera del reciproco cercarsi e dell’avvertire su di sé un tepore di cura. Anche questo sentimento principe conosce commozione e rapimento profondo, persino nell’ustione dell’abbandono.

Il libro di Giobbe è un’intensa notizia d’amore e di supplica: il cuore bistrattato, ripudiato che si eleva nella carenza. L’innamorato non vuole cose, cerca il contatto, una rassicurazione sulla propria opportunità d’esserci, il permesso di esistere. Cerca il tocco, abbandonando ogni esigenza materiale, e dilatandosi interiormente.

La sofferenza del vedersi tolto tutto per Giobbe è occasione di desiderio e grido, bramando la parola, l’incontro. Esige di proseguire e di conoscersi, di trasmodare ogni collaudata soglia, spingendosi oltre il concepibile, assottigliandosi verso l’infinito. Chi perde la propria vita la salva (Lc 17, 33), inceppa il meccanismo di Caino, il primo fratello: colui che perdura e domina, edifica e possiede, nelle orizzontalità del mondo. Mentre il sangue di Abele è l’istanza eterna, il filo interiore della storia, seme che muore nel suo frutto (Gv 12, 24). In André Neher, come Cacciari preziosamente riporta, siamo tutti figli non nati di Abele, siamo ciò che non ha vinto, che ha scelto il dono di sé in luogo del conseguimento. Ridicolo ai più, chi ama resta senza chiedere, e nel dissiparsi fino a svanire si riconosce, finalmente, in essenza. Creatura compiuta, che si discosta dalla vanità della buona riuscita, e lascia notizia filiforme e nitidissima di sé.

Amore, mortificato dolore, fedeltà. Gesù abbraccia la croce, si dilapida nell’umiliazione, ed è lì che pienamente si riconosce: immenso di lealtà, nei millenni ne rimbomba l’incanto. Giobbe è, come ogni essere umano, figlio non nato di Abele: “Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con il secondo figlio” (Qoèlet, 4,15). Il secondo figlio ha perduto per rinascere in ciascuno, e risorge di continuo nell’innocenza che non tradisce, verticale sull’axis mundi.

“Se l’uomo muore, può egli tornare in vita? Aspetterei fiducioso tutti i giorni della mia sofferenza, finché cambiasse la mia condizione: tu mi chiameresti e io risponderei, tu vorresti rivedere l’opera delle tue mani”.

(Gb 14, 14-15)

Il libro di Giobbe è il grande libro dell’amore che resta, devozione rivolta all’assente, ardore gettato al silenzio: fermo nel più intimo riguardo e affetto, tra cattivi consiglieri: i consolatores onerosi, dalla fede labile, tronfi di “sentenze di cenere” (Gb 13, 12). Ma lo sguardo del vero amante non demorde: “E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio (Gb 19, 26-27). Così Gesù attraversa la porta del corpo, fino a che tutto è compiuto (Consummatum est, Gv 19, 30) e tornare a casa è corona dai teneri raggi, un ricentrarsi dell’universo. In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum, nelle tue mani.

Pierre Paul Prud’hon, Crocefissione, s.d.

Meditare questi misteri ascoltando Haydn – Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce, Hob:XX:1, 1787 – significa sentire in musica l’intero dramma dell’esistenza sublimato in esatto splendore: la desolazione lirica delle tonalità minori, nei maestosi adagi, negli archi declinanti; nelle sequenze interrotte che evocano i singhiozzi, nei cromatismi drammatici delle quinte ripetute, nei nodali punti agogici; nelle progressioni discendenti e ascendenti della melodia, spesso ad andamento circolare, nei pizzicati degli archi come gocce d’acqua o come lacrime di sangue del Sitio, nel divaricarsi delle linee melodiche del Consummatum est, a evocare il congedo tra corpo e spirito, tra uomo e Dio; nelle trombe e nei timpani, negli archi e nei legni incalzanti del Terremoto. Tutto questo può dare un tale sgomento di bellezza da sentirsi particella senza appiglio in troppe ampiezze; oppure può riconciliare con l’idea che sinfonia dei sensi e coscienza di sé si sovrappongano, in certi istanti benedetti, a ricordarci la natura sublime dell’esistenza umana, anche corporea. Nella musica, con le sue combinazioni numeriche fatate, intrinseche al cosmo, Dio vive chiamando a sé la nostra sostanza armonica, quell’originaria potenza del suono primo che in noi seguita a operare: continuamente riplasmandoci alla misteriosa melodia dell’Uno. La grande Mente effonde la sua realtà suprema, la primigenia perfezione di numeri e geometrie costitutive all’essere, nei rapporti numerici tra i suoni, fino a ricapitolare l’assoluto nella nota singola. Dopo aver esemplificato nella natura qualunque melodia possibile, tutto è unanime, compendiato nel suono portante della tonica, l’esattezza cui l’insieme della creazione tende, con fedeltà. Un solo suono, un singolo colore, diceva Plotino, può essere dimora dell’assoluta bellezza: quell’intero caduto nella pluralità del sensibile ma pienamente presente in ogni particola del cosmo. Katharsis è risalirne o discenderne l’essenza, fino alla scaturigine prima, limpidissima.

Nel canto gregoriano, salmodia dai gradi e modi antichi, la preghiera è scandita dal neuma, unità fondamentale del discorso musicale, trave piana su cui posano le sillabe del salmodiare. Culmine dell’atteggiamento monodico, omofono è il recto tono, la nota tenuta che favorisce l’interiorizzazione della preghiera. Questo rimanere intonati, con fatica e precisione, su un singolo suono, è il rimanere, fermi e indenni, nell’amare.

Sitio, ho sete. L’amore inarreso che continua a chiedere il proprio bisogno è la nota costante che fa uscire il profilo umano dalla pietra grezza. Il terremoto è tutto fuori, nel silenzio che segue, quando l’innocente martoriato tace, e continua nel dono che nulla reclama: minimo soffio di presenza, assorto nello Spirito. Di fronte alla verticalità indenne di ogni agnello l’intero universo vibra di enormità, del fulgore del suo gesto umile e abbandonato.

Lo scandalo che inceppa il gioco del mondo sono gli occhi di Gesù nel perdono, è il sangue del secondo figlio che ancora vive, l’amore vessato di Giobbe che non cede.

Dopo questa mia pelle: volto al cielo, nel basso continuo, scalzo sui vetri, dell’io-ti-amo.

Isabella Bignozzi

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Riferimenti:

Franz Joseph Haydn, Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce, composto su richiesta di don José Sáenz de Santa Marta per la celebrazione del Venerdì Santo nella chiesa della Santa Cueva di Cadice, con particolare riferimento all’esecuzione diretta dal maestro Riccardo Muti al Ravenna Festival 2009

Riccardo Muti, Le sette parole di Cristo, dialogo con Massimo Cacciari, il Mulino 2020

Massimo Morasso, L’amore, il silenzio e la bellezza, AnimaMundi 2020, postfazione di Daniela Bisagno

Massimo Cacciari, Il dolore dell’altro, introduzione di Luigi Nunziante, Post-scriptum di Raffaele Nogaro, Edizioni Saletta dell’Uva 2010

André Neher, Qohelet, Gribaudi 2006

*In copertina: Zurbarán, Cristo in croce, 1630 ca., Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid

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