Caro Daniele,
ti scrivo perché l’esercizio della recensione, lo schema del giornalismo, la messa in scena di un giudizio, l’andate in pace la messa è finita, non bastano. Sarebbero un tradimento. Questa, in effetti, non è una lettera – è un allarme. Comincio con una metafora, mi viene meglio, a me che per non deludere guarisco con una capriola. Il tuo primo romanzo, La casa degli sguardi (Mondadori, 2018) mi sembrava una lice. Qualcosa di estinto e improvvisamente risorto dai nostri sogni residui. Qualcosa di pericoloso, ma da accarezzare: una implorazione a esistere. Ne ho scritto ovunque – ricorderai – come di un antidoto alla narrativa recente e vincente, vincolata da una estetica sociologica, ornamentale, ombelicale. Finalmente una scheggia di vetro nella melma – finalmente, il morso della lince. Scrivevo: “Mencarelli ci insegna, come può fare solo chi è stato preso a pugni dal vivere, quanto è difficile – e necessario – scrivere la gioia, descrivere la rinascita. Troppo facile fare i piagnoni nel fango intellettuale”. L’ultimo romanzo che hai scritto, Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020), mi sembra un cobra. Mi attrae il suo sibilo, che galleggia nel vuoto, che assapora l’odore della vita, ne ammiro i denti – ma devo estrarre il veleno.
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Il cuore del libro credo sia qui: “Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza… Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?”. Nel libro racconti la tua esperienza in Trattamento Sanitario Obbligatorio accaduta nel giugno del 1994, l’anno dei Mondiali americani – che vediamo di sguincio, la partita contro l’Irlanda. Sei un uomo che non si rassegna al dolore, alla morte. Come Giobbe. Solo che al posto di Giobbe, tu non ragioni, non prevedi speculazioni, non dai di matto col cervello. Soccombi. Il dolore ti sfascia, ne avverti l’inaccettabile spina. Ti capisco. Noi dobbiamo incaricarci del dolore altrui, non c’è scampo – per questo, molti anni fa, sono letteralmente scappato dalla gogna di una metropoli. I palazzi, sorretti dal cemento del dolore, mi pesavano sulla testa, mi spaccavano il cranio, sentivo i molteplici pilastri della sofferenza che s’irradiavano lungo le scale, gli infissi, gli ascensori. Vedevo il retroscena di una parentela avvitata nel dolore, dietro i sorrisi dei vicini, che respingono annuendo. Ciò che è normale per molti, per me è follia. Il tuo romanzo ha un titolo più bello del precedente, Daniele, un titolo meraviglioso. Anche la copertina è più bella. Il libro, però, no.
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C’è un pezzo straordinario in questo tuo ultimo libro, che voglio ricalcare: “Questo contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima, ha partorito un figlio… Un figlio nato da madre instabile e padre suicida viaggia per il mondo. Un principe. Un messia. Un futuro uomo capace di tutto. Perché è troppo facile, perché non me lo posso permettere, qui, ora, di immaginarmelo disadattato, emarginato, fedele al sangue che lo ha generato. No. In lui la somma dei mali si è trasformata in bene supremo, in bellezza, equilibrio, futuro degno di questo nome”. Ecco. Questa è la pagina degna di un grande scrittore, dove idea e scrittura, tenebra e forma si temperano con sferica esattezza. Pretendevo, perdonami, un libro intero, così.
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Se ti scrivo, Daniele è per dirti: fuggi. Fuggi dall’opalescenza della fama. Fuggi da chi vuole inscatolarti in un editto: “lo scrittore dei reietti”. Fuggi dagli epicentri del noto. Fuggi da chi ti relega a esegeta dei “pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”. L’esaltazione del pazzo, su cui apri (il libro è dedicato “Ai lottatori, ai pazzi”) e chiudi il romanzo, dopo aver raccontato, con dedizione affettuosa, gli ‘strani’ con cui hai abitato per una settimana, nel sottosuolo della sanità, è dote comune, è detto corretto, non più disadatto. La ‘stranezza’ convince perché siamo tutti strani, stravolti. Non basta cogliere la dolcezza negli occhi del matto, ma la malattia dietro gli sguardi razionali del normale. Questo fa lo scrittore. Va oltre se stesso, penzolando tra grido e ghigno. In tutti cerca la domanda di salvezza, soprattutto quando essa è assente, sfinita, satura. Quando mi sono trovato – il caso ha natura di pitone – a dirigere un liceo linguistico grasso di ‘figli di papà’ implorai di lavorare in una missione nel luogo più infame della Terra. Un frate, antico compagno di David Maria Turoldo, replicò, “guarda che è qui la missione, nel terzo mondo dello spirito”. Aveva ragione. Dell’uomo non puoi abolire nulla, il ghetto del giudizio non ci riguarda.
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Provo a spiegarmi maneggiando i Vangeli. “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 13) va letto insieme all’episodio dell’adultera, quando Gesù dice, “Chi è senza peccato getti contro di lei la pietra, per primo” (Gv 8, 7). In entrambi i casi c’è la ‘chiamata’ di un ipotetico peccatore: da una parte Matteo, un esattore delle imposte, uno che traffica coi soldi, che trama coi faccendieri, dall’altra un’adultera. Gesù ci dice: bisogna andare nei luoghi oscuri, nei luoghi ignobili della terra, tra le ombre dell’uomo, dove cala lo scandalo. Ma allo stesso tempo dice: chi non è peccatore, chi non ha bisogno, chi non è ignobile? Non c’è uomo che non sia degno di racconto, non c’è uomo che non abbia la nobiltà di una storia – e noi dobbiamo essere lì, nel momento più scomodo, pronti all’irriconoscenza, irriconoscibili.
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Fuggi, Daniele, scappa dai normalizzatori, dai moralizzatori del linguaggio, da chi cerca consenso e conferma, perché noi – e scusa se mi affratello a te – siamo sentinelle senza città, uomini senza appigli, propensi al cadere, che da un urlo traggono endecasillabi, che dall’orrore cagliano una epopea. Tutto chiede salvezza – lo ripeto e ridico: che titolo magnifico, potente come una legge – è scritto peggio de La casa degli sguardi. È come se per depurare di liricità la prosa, per renderla più veloce, pronta alle prestazioni del lettore d’oggi, tu abbia voluto sacrificare la presenza, la prestanza linguistica. Certo, ci sono parti bianche nel libro, di nevosa meraviglia, rivelazioni – come questa: “Io so compiere gesti che fanno del male. Gesti che nella mia vita hanno transitato anonimi, indegni di entrare nella memoria, ma che hanno prodotto dolore in quella degli altri. Gesti che ancora vengono scontati”. Ma sono troppo poche, queste pozze di grandezza, in un romanzo altrimenti nervoso, nevrotico, ‘in presa diretta’. Tu dirai: è così che va narrato quel gorgo. Io ti ricordo la prosa adatta, rabdomantica di Varlam Salamov per raccontare i Gulag, le grida e i denti spappolati resi clamorosi con una scrittura scavata nel bronzo. (E continuamente, lì, dove l’uomo è niente, il poeta torna alla ragione e all’origine della scrittura: come posso dirlo, perché? “Tutte le cose che nascono in modo non disinteressato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, e solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient’altro, è la prova che una poesia è stata creata, che il bello è stato creato”). Il compito dello scrittore, il nostro compito non è rappresentare, ma adempiere alla forma. Ogni rappresentazione è sacrilega – dissacra i fatti – se non esprime una forma peculiare, una icona. La letteratura non deve essere sincera, ma autentica.
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Ma forse, dirai, Daniele, qui ho voluto dire l’inferno, l’immersione nell’amniotico dell’uomo, l’anormale – che è la legge dell’essere né bestia né angelo, amico mio, di tutti, anche dei crudeli che dobbiamo confondere con una pietà ben più cruda. La casa degli sguardi è stato il tuo Purgatorio, la storia sacra della passione nell’ospedale Bambino Gesù. Questo, al TSO, è l’Inferno, dove Tutto chiede salvezza. Se continuo il gioco, potrei dire che il Paradiso era il romanzo per poesie Storia d’amore, che hai pubblicato cinque anni fa, con quei versi nudi, come un salmo:
L’intero verso del futuro
si consumerà senza fuochi dal cielo,
ai tuoi piedi mai poggerò la preda
la prova che alla fine resisteremo,
ma tolta l’impazienza che mi smania
altro atto vuole la mia fede,
dare rinascita ogni giorno
al clamore che sei per i miei occhi,
poi con ogni fibra di esistenza
amare e ringraziare, questo mi basta.
Ma forse, nel nostro esistere a testa sotto, paradiso è inferno e viceversa, tutti saremo perdonati e perduti, la gloria dei pochi sarà scissa per amore dei molti, di ogni spietatezza capiremo l’incantesimo, dello strazio raschieremo il quarzo, rischiando, sempre, la lapidazione da parte dei tiepidi. Forse saprai sorprendermi con un Paradiso spiazzante, con un romanzo che di ogni uomo raccolga l’insistente speranza, il destino ineguagliabile, la luce oltre la lussuria dell’indifferenza, del gemito di giudizio che ghettizza i sani dagli insani. Restiamo inconsapevoli, Daniele, pieni della nostra stupefacente arroganza di amare perfino le pietre.
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Un amico è stato costretto al TSO. Lo ha denunciato la madre. Ha ucciso uno in macchina, ha tentato di ammazzarsi, a casa, sfasciando tutto, la propria vita e quella degli altri. Per sette giorni sono andato a trovarlo. Lui non voleva nessuno. Andavo a comprargli le sigarette. Stavo con lui durante quegli acquatici pomeriggi, in apnea dal mondo. Niente lacci alle scarpe, inferriate alle finestre per evitare che alcuni volassero, altri scappassero. C’era una nudità oscena e ostile, un’alba violenta, ovunque. Qualche settimana dopo essere uscito dall’ospedale, quell’amico mi sveglia di notte, vuole menarmi – non tentai di chiedergli riconoscenza né di capirlo. Per anni, ho portato i nonni, falciati da demenza senile grave, in luoghi dove tra ospitalità e prigionia lo spazio di luce è molto sottile. Di notte, quando la nonna, rabbiosa, si strappava le flebo e se ne andava per i corridoi, redigendo in improperi l’attività delle infermiere, mi telefonavano. Alcuni anziani urlavano, dando altra consistenza alle pareti. Frequentavo i luoghi dove l’uomo è disossato di sé con fasciata eleganza, per raccogliere materiale buono per i prossimi libri. No, non ho avuto il tuo coraggio e la lucidità non snatura il corrotto in grazia. Ma questo è un altro discorso.
Ti abbraccio,
Davide