Umberto Brunetti, nell’introduzione, va subito al cuore, al quid. Ecco: “La figura poliedrica di Angelo Maria Ripellino, saggista, poeta, grande studioso di letteratura slave e critico teatrale, ha subito un destino beffardo nella nostra letteratura. Sebbene egli concepisse la slavistica come ‘evasione…’… il suo indiscusso valore accademico finì per offuscare, danneggiandola, proprio la sua statura letteraria”. Va detto che la prosa ‘accademica’ di Ripellino è ipnotica, porosa, onniveggente: tra l’autore de Il trucco e l’anima e quello di Storie del bosco boemo, si avverte la stessa attitudine, l’altitudine, a dire che una trasversale verità valica l’opera di AMR. Per lo più poeta fu, Ripellino – animato, fin nel viso, direi, di caucasica profondità, da una poetica –, fuori dai canoni (come Tommaso Landolfi, per altro), accanito. Esordì nel 1960 con Non un giorno ma adesso, fu edito da Rizzoli (La fortezza d’Alvernia e altre poesie), da Einaudi, da Guanda. Per fortuna, un gruppo di studiosi – Alessandro Fo, Antonio Pane, Claudio Vela, Federico Lenzi –, negli anni, ha fatto ristampare le poesie (per Aragno ed Einaudi), poi gli scritti, le lettere, le “recensioni letterarie” (come Iridescenze, ancora per Aragno, nel 2020). Tra questi studiosi va esaltato, ora, proprio Brunetti, che per Artemide ha pubblicato l’edizione annotata de Lo splendido violino verde (con scritti di Corrado Bologna e Alessandro Fo), libro lirico edito in origine nella ‘bianca’ Einaudi, era il 1976.
Le poesie sono un carnevale di impunita fantasia (“Come un angelo di Klee dagli occhi cavi/ mi corre dietro la consorte del Becchino,/ in una lunga pelliccia lugubre e gravida…”): da una di queste, dall’esordio buffo (“Una farfalla svitata da aneddoti Zen”), estraggo, va da sé, una manciata di versi emblematici: “Il tempo in cui Pasternàk nella dacia/ mi venne incontro e mi tese la mano,/ vestito di tela bianca, con un sorriso chiedendomi:/ ‘Siete un poeta georgiano?’”. Già, a Ripellino – che sapeva che la poesia è nell’alas del linguaggio, in un surplace del verbo, dove tutto è qualcos’altro – dobbiamo Pasternak, il poeta dei boschi e delle evanescenze, dei baci arzigogolati, il poeta decisivo. Lo diceva Cesare G. De Michelis – mica io, lettore a casaccio – che “nella cultura italiana Pasternak continua a parlare essenzialmente con il timbro di voce che gli ha conferito Angelo Maria Ripellino”. Dal testo con cui Ripellino spiega il ‘suo’ Pasternak ritaglio questo brano, che fa da regola, da regolamento di conti con le false velleità: “Gli oggetti consueti della sua stanza diventano, non solo condensatori di emozioni poetiche, ma anche termini di paragone con le arcane vicende dell’universo. Questa tendenza a racchiudere il mondo fra le pareti d’una stanza, d’un solaio corrisponde del resto al riserbo, alla timidezza sognante, alla modestia della sua figura di poeta. Confrontata alla biografia turbolenta d’un Esenin, d’un Majakovskij, d’un Chlebnikov, la vita di Pasternak apparirà senza dubbio uniforme e povera di avvenimenti. Negli anni in cui Majakovskij sfoggiava la sua pittoresca ‘blusa galla’ e tutti i futuristi posavano a gente chiassosa e bisbetica, portando nella vita quotidiana le stranezze dei versi, Pasternak fu contrario a esaltare se stesso, non recitò mai la parte del creatore congeniale e scapigliato, respinse la concezione romantica del poeta che trasforma la propria esistenza in una curiosità letteraria, in un continuo spettacolo”. Forse qui, setacciando tra gli aggettivi, giace il ritratto allo specchio di Ripellino. Mi domando, allora – per l’ennesima volta – perché non si rimetta in circolo la Poesia russa del 900 di Ripellino, un viaggio fenomenale, un confortante (ma non comodo) caleidoscopio lirico, da brandire come amuleto nella brutalità dei giorni, una gita australe tra Innokentij Annenskij e Anna Achmatova, Andrèj Belyj e Nikolàj Tìchonov e flotte d’altri… Malsopportava la poesia assopita ai doveri della storia, le ispirazioni placide, paghe, amava le estasi, i fautori di epopee o di barbariche fughe, Ripellino.
Nel 1914 – Ripellino lo ricorda in uno studio miliare, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia – il virile e viscerale Vladimir Majakovskij scopre il circo. “Majakovskij desiderava recitare i suoi versi in groppa a un elefante”, scrive Vasilij Kaménskij. Che scalmanata bellezza: il poeta che gioisce del circo, un po’ clown un po’ diseducato domatore, e vuole leggere i suoi poemi su un elefante. Quasi che la bestia fosse un leggio e il poeta la leggiadria in urla. C’è qualcosa di folle, di meridiano, di incongruo, di incosciente e di incandescente in questa scena. C’è una cauta gioia nei versi di Ripellino, un ermellino di nonsense. In effetti, Ripellino faceva il circo con i versi.
***
Una farfalla svitata da aneddoti Zen
si posa sulle paffute
parrucche delle ortensie.
È agosto: il prato scintilla di stelle cadute
e di verdi sfrangiate gonnelle
di nocciòle.
Ma io ho paura dell’aria, del sole.
Com’è lontano il tempo in cui bussavo
nella luce di Kampa verdognola e viola
alla porta serrata con cinque mandate tenaci
di Holan.
Il tempo in cui Pasternàk nella dacia
mi venne incontro e mi tese la mano,
vestito di tela bianca, con un sorriso chiedendomi:
“Siete un poeta georgiano?”
*
Il mondo è un cristallo in frantumi
e omini in bombetta balbettano
un delirante linguaggio contorto,
residui di ciarle di numi.
Sono cotogne, attori di un’eclisse,
sussiegosi guitti che si affrettano
con sotterfugi e con risse
a trafugare il salario del mare,
a spogliare ogni pòlipo morto.
*
Quante cose scompaiono, Ripellino. E quanto fracasso si fa nel nascondere le posate in credenza dopo il festino. Ricordi in Illiria l’allegra villa sperduta, gli sgonfiotti turcheschi delle onde, le passeggiate notturne sull’orlo del mare, le lacrimucce delle candeline, l’arguta Amaranta che non potrà mai tornare? L’acqua plasmava una guizzante famiglia di manichini d’argento sotto i balconi. Luccicavano i rami di canutiglia. Eravamo splendenti e ben saldi bottoni sulla buffa marsina del mondo. Ora siamo canuti groppi di steli che hanno perduto la bussola, cascami di polka in una bettola mesta, reliquie di una cenciosa ritirata di Russia. Di quella gotica fiaba non resta che un burelòm, un viluppo di tronchi caduti.