“Io eterno bambino, eterno sognatore”. Erotismo e santità nella poesia di Egon Schiele
Poesia
Giulio Solzi Gaboardi
Forse è tutto lì, il destino, in quella didascalia – a mano, incisa con sicurezza burocratica –, deposta nei registri dell’ufficio civico di Narbonne. Il 13 settembre del 1889 Pierre Reverdy è catalogato come né da père et de mère inconnus. In realtà, nato in una famiglia di scultori, nato due giorni prima di quanto asserisce il genio comunale, Reverdy sa chi sono i genitori – ostia di indecise identità. Il padre è un viticoltore, emigrato in Argentina senza successo; la madre, in disastro, preferisce lasciarlo a cure altrui: il bimbo, fin da subito, frequenta l’inconnu. Scagliato nell’ignoto, ignoto a se stesso, senza porzione di parentela da spartire sul desco del tempo. L’inconnu è la cifra incantatoria di Pierre Reverdy: scalfire lo sconosciuto, disconoscerlo, disfarsene – incitare le sconfitte.
Mollò presto gli studi, da adolescente capisce che deve donarsi alla letteratura, fino all’ultima stilla verbale; nel 1910 è a Parigi, a Montmartre, sodale di Apollinaire, Aragon, Tristan Tzara. Il ragazzo, di avveniristica precocità, è la dinamite delle avanguardie: intuisce il cubismo, lavora con Picasso, Amedeo Modigliani ne fa l’oggetto di un suo ritratto, si appassiona all’opera di Georges Braque. Durante la Prima guerra, debilitato dagli stenti, è costretto a vendere “un piccolo Braque, che per lui era molto più di un quadro: prima di abbandonarla all’acquirente, pari al gesto che precede l’esecuzione, afferrò la tela con ferocia per baciarla”, ricorda Aragon.
I dada lo adoravano; “nel Manifeste du surréalisme del 1924 André Breton lo esalta come precursore e profeta della nuova poesia” (François Livi). Nel 1917 fondò la rivista “Nord-Sud”: i fascicoli, per lo più mensili, durarono sedici numeri: tra i collaboratori, figura la ‘crema’ avanguardista, puro banditismo artistico; Breton, Max Jacob, Apollinaire e Tristan Tzara, Vicente Huidobro, Philippe Soupault e Alberto Savinio fanno la parte dei leoni a tre teste. Per tutti, Reverdy – che per un po’ va dietro a Coco Chanel, sua amante, muso da musa – è il cardinale della nuova lirica, il papa-re, il poeta più grande di Francia, “uno dei quattro o cinque, in Francia e fuori di Francia, meritevoli di onori”, precisa Giuseppe Ungaretti, un fan. I suoi libri – Les Ardoises du toit, Les Jockeys camouflés, La Guitare endormie – sono realizzati con gli amici artisti, Matisse, Juan Gris, Braque. Nel 1921, per le Éditions du Sagittaire di Simon Kra – che pubblicano, tra i tanti, Thomas Mann e Pirandello, D’Annunzio e Scott Fitzgerald – scrive Étoiles peintes, con un’opera di André Derain (da lì, abbiamo tratto i testi che leggete in calce all’articolo); nel 1924 Gallimard si aggiudica Les Épaves du ciel.
Ma l’inconnu azzanna Reverdy ovunque, ancora, sempre, non gli dà pace. L’arte, in sé, è una gabbia che il fedele crede un castello, una voliera di uccelli esotici che soltanto l’egotista scambia per il mare aperto. In una delle sue riflessioni più potenti, Reverdy scrive:
“Il mistico si dà a Dio senza riserva e acquista così una libertà incomparabile. L’artista si dà all’arte e vi si trova come invischiato. Lo vedrebbe meglio se potesse, di tanto in tanto, sciogliersene. Il legame con Dio libera perché stacca dalle cose del mondo e perché è l’unico a dare uno spirito veramente disinteressato. L’artista è incatenato al mondo da un doppio interesse. Quello di attingervi la materia della sua arte e quello di creare al di sopra del mondo qualcosa di più elevato. Ma l’artista ricade sempre e più pesantemente sul mondo poiché l’opera da lui realizzata è un nuovo legame che egli stesso si è forgiato”.
Secondo la leggenda, “l’evento decisivo” accade quando Max Jacob interpreta la Passione di Cristo per Reverdy, per gioco. Il poeta, affine, semmai, a una ‘religiosità dell’arte’, non ha mai affrontato il Vangelo, è, per quel che ne sa, ateo. Cristo gli appare pura avanguardia – purificata dal livore dell’utopia, dalla patetica ipotesi dell’uomo-creatore. Il 2 maggio del 1921, nella basilica del Sacro Cuore, Pierre Reverdy viene battezzato; Max Jacob gli fa da padrino. “Conversione immediata, folgorante per un uomo di trentadue anni educato nella più completa ignoranza della religione cristiana… Conversione che non tollera dilazioni e che spinge prepotentemente Reverdy alla ricerca della santità” (Livi).
Scoscendere in Cristo chiede dedizione totale, animalesca: Reverdy, spirito irto, ipersensibile, si chiude a Solesmes, l’abbazia benedettina rifondata da Prosper Guéranger, dal 1926. Con lui, la moglie Henriette, che lo ha seguito nel percorso di conversione. Primo esito della vita reclusa è Il guanto di crine, edito da Plon nel 1927, quaderno di “Appunti scritti per sbarazzare lo spirito privo della facoltà di ragionare dalle idee che lo ossessionano, come gli insetti notturni inquietano le splendide penne del lofoforo. Queste idee sono infilzate sulla pagina come la farfalla sulla panoplia”, scrive il poeta. Gli appunti – stillicidio di parole-stilita – precisano lo stile di Reverdy, cristallino fino alle porte d’avorio del sogno, che procede per scintille. Alcuni di questi appunti – genere letterario da affiancare agli scolii, escolios, di Nicolás Gómez Dávila – sono micidiali:
“Il mio desiderio di bellezza era troppo al di sopra delle mie forze”
“Il poeta è un palombaro che va a cercare nelle più intime profondità della sua coscienza i materiali sublimi che si cristallizzeranno quando la sua mano li avrà portato alla luce”
“La mano di Dio ci sembra sovente ruvida perché tratta i suoi amici deboli con un guanto di crine”
“In arte i grandi spesso divorano i piccoli. Da soli non creiamo nulla: assorbiamo e assimiliamo. I piccoli forniscono spesso ai grandi buona parte della materia che questi ultimi consumano. E i piccoli, troppo deboli, non sanno nutrirsi a loro volta degli esempi che i grandi danno loro”.
Il guanto di crine, per altro, è uno dei rarissimi libri ancora reperibili in Italia di Pierre Reverdy, poeta tradotto troppo poco (nel 1966 Guanda pubblica La maggior parte del tempo, a cura di Franco Cavallo; nel 1972 Antonio Porta traduce, per Einaudi, Il ladro di talento) rispetto all’immensità del valore lirico. Il guanto di crine, per la cura di François Livi, è edito da Ares nel 1993, nella collana ‘Ossidiana’. Me ne donò copia, molti anni fa, Cesare Cavalleri: lo diceva necessario alla mia formazione, “uno dei libri più importanti del secolo, scritto da uno dei poeti più grandi di sempre”. Non era ostile il suo dire, non osteggiava la mia ignoranza – ero un ragazzo, stupefatto come tanti – parlava come se stesse parlando a un’ombra, a un consesso di anime simili. All’epoca capii poco Reverdy – mi colpì moltissimo, invece, Saint-John Perse – ma l’asserzione di C.C., così perentoria, spadaccina, mi costrinse, negli anni, a tornare a quel libro, un breviario spirituale che non consola, intimorisce.
D’altronde, l’inconnu, lo sconosciuto, trafigge proprio quando credi di averne circoscritto l’infinito mistero. Ti getta fuori di casa quando credi di abitarne la stanza regale, o di averne intuito il sottoscala, le vie di fuga. Ti toglie la sedia da sotto, ecco.
Secondo la critica, Reverdy scrive i libri più belli in quella solitudine: Le Chant des morts, ad esempio, uscito nel 1948 con venticinque litografie di Picasso. A volte tornava a Parigi – già fuori dal tempo, senza bordeggiare le fiumane della malinconia. Secondo alcuni, Reverdy fu così a lungo al cospetto dell’inconnu da perdere la fede, da non sapere più cosa fosse. Morì a Solesmes il 17 giugno del 1960, “dopo trentaquattro anni di una caparbia ricerca e di una solitudine che adombra non pochi drammi” (Livi). Dei postumi proclami, delle liturgie in onore, se ne sarebbe fatto poco – una vita è a sua volta una nota, una falena verbale, qualcuno che si inchina, prende l’acqua e te la offre.
**
Pierre Reverdy, Étoiles peintes
La meccanica verbale e il dono di sé
Nessuna parola potrebbe esprimere meglio, è indubbio, la sua gioia.
Lo disse e quelli che attendevano, contro il muro, tremarono.
Al centro: una grande nuvola – una testa enorme e gli altri che fissano i miseri passi sul sentiero.
Non c’è niente e nel silenzio gli atti si fanno difficili. Un treno passa dietro le barriere e fa brillare nell’oblio le linee che serrano il paesaggio.
Poi tutto scompare, mescolato all’ininterrotto brusio della pioggia, del sangue perduto, del tuono e delle parole meccaniche pronunciate dal più importante dei personaggi.
*
L’ombra e l’immagine
Se rido non è per il mondo luminoso e gioioso che mi passa davanti.
Le teste che pendono come quelle diritte mi fanno paura e la mia risata risorge in una smorfia.
Le gambe che corrono tremano e i piedi, troppo pesanti, mancano il passo.
Non rido del mondo che mi passa davanti – ma sono solo, più tardi, nei campi, davanti all’enorme foresta placata e ci sono voci che, nell’aria che dorme, si rincorrono.
*
Movimenti all’orizzonte
I cavalieri tengono la strada, di profilo. Non sappiamo quanti siano. Contro la notte che blocca il sentiero, tra il fiume e il ponte una sorgente che piange – un albero che ti segue.
Se guardassi la folla che passa, non ti vedrebbero. È una vera armata in marcia oppure un sogno – sullo sfondo, una nuvola.
Il bambino piange o dorme. Ci guarda o sogna.
Il cielo è affollato da tutte queste armate. La terra trema. I cavalli scivolano nell’acqua.
Anche i cortigiani in processione scivolano dentro quest’acqua che cancella tutti i colori, tutte le lacrime.
*
Memoria dell’uomo
Ha le spalle larghe contro l’ombra che danza sul muto, occupa il posto dove potrebbero passare altre teste.
Lo strumento è una chitarra le cui note non sono abbastanza alte.
Nessuno sente la musica, eppure le dita pizzicano sulle corde; sta giocando e i piedi battono incessantemente il ritmo.
Un occhio chiuso, l’altro perso dietro il sipario plissettato, quando l’aria si dilata e la folla balla, tutto il mondo balla, tutti gridano e infine due braccia bianche emergono dal fumo della sua pipa e gli cingono il collo.
Sullo sfondo, i ballerini non guardano più il tappeto.
*
Tra due crepuscoli
È in questo cubo di cielo, più chiaro, che si accenderanno le stelle per i fuochi d’artificio.
Sopra il profilo degli alberi – moti del vento, brusii di temporali – appelli minacciosi. Qui è dove si spalanca il cancello.
Raggi si staccano dal muro: un’ombra obliqua sulla strada – corre troppo veloce.
Aspettiamo. Presso il bosco, dove sorge il padiglione, un rumore – certamente di passi tranquilli – nello stesso tempo in cui si alza una preghiera e, più in là, una canzoncina gioiosa.
Poi il giorno entra tra noi del tutto, e i cuori si ristabiliscono.
Dopo tutto, tutto è ancora rimandato.
Pierre Reverdy