Due episodi mi hanno riportato ad allora. Il primo è il dialogo con Benjamin Balint, autore di Kafka’s Last Trial, il libro che racconta il processo intentato ai veri o presunti proprietari dell’eredità manoscritta di Kafka. Parlando con Balint capisco che l’opera di Kafka è infinita, come la gola di Giobbe, un vortice. Capisco, anche, che un autore si interpreta tradendo, sempre. Le sue parole devono essere succhiate nel tradire.
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Con avida generosità, invece (secondo episodio), Gabriele Galloni mi riporta a un libro del passato, come sempre pubblicato ‘a salve’, perché si ha vergogna di alfabeti vergati in clandestinità, su obici di bronzo. Il romanzo s’intitola Ingmar Bergman: La vita sessuale di Franz Kafka e lo ha pubblicato, nel 2015, il nobile editore ravennate Il Girasole. Per l’occasione – e ne fui oltremodo fiero – l’editore s’inventò una collana ‘Gli Illeggibili’, dedita a “ospita[re] testi narrativi caratterizzati dalla singolarità dello stile e della personalità della scrittura”. Quel libro mi sembra di una furia spesso inaccettabile e inaccessibili.
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La finzione è questa: Ingmar Bergman redige il soggetto di un film sulla ‘Vita sessuale di Franz Kafka’. Il testo viene scoperto dalla figlia di Ingmar, che lo pubblica insieme al diario che il regista ha scritto intorno a quel testo. La verità è questa: Bergman ha pensato più volte di fare un film sull’opera e sulla vita di Kafka – desiderio restato nell’alveo dei sogni; Kafka ha avuto una vita artistica e sessuale conturbante, inaudita, poco studiata.
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Fui folgorato dal desiderio di amare di Kafka – e da quanto sia stato amato, con irriflessa radiosità. In particolare, mi affascina una fotografia di Minze Eisner, ennesima amante, pubblicata nel volume, davvero necessario, di Klaus Wagenbach, Franz Kafka. Immagini della sua vita (Adelphi, 1983).
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Per questo, per continuare il ragionamento su Kafka, pubblico alcune parti di quel libro, che è una catabasi nell’oscenità, nella latria dei corpi, nella latrina della dissipazione. In effetti, le cose luminose accadono quando siamo ciechi, neppure in grado di pronunciare il nostro nome, con i denti disseminati alla paura, a favore di notte. Mi si perdonerà. (d.b.)
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«Eretto sopra le bestie, l’uomo spadroneggia in codardia», scrisse Kafka. «Dio ci ha eletti sugli animali congedandoci dal coraggio, affinché conoscessimo la nostra bassezza». Kafka amava gli album che raffiguravano i lupi – un tempo anche a Praga regnavano i lupi, sapeva. Ammirò la dentatura di un lupo, più fulgida di qualsiasi corona umana o tiara. «Le parole servono all’uomo per giustificare la propria debolezza. O per riconoscere la bestialità nello sforzo spasmodico di esaurire ogni verbo, tornando a grugnire, mugolare, azzannare». In un disegno i lupi si ammassano sopra il corpo di un cervo, come gigantesche mosche. In un altro un lupo strappa pezzi di carne dalle gambe del cervo per offrirli ai piccoli, mentre un compagno, possente, s’immerge nel corpo ucciso scavando un tunnel. «Ogni esercizio di virilità non fa che redigere la distanza tra l’uomo e la rettilinea rettitudine degli altri animali», scrisse. Era il 1919, la guerra era appena conclusa, Kafka pensava che «è giusto, i deboli devono morire». Immaginò con gioia di essere squartato da un lupo. Appuntò un biglietto per Julie Wohryzek, la nuova fidanzata, «come un’onda la luce trascina il guscio dei nostri corpi notturni. Involucri, caschi, navi piene dei desideri più intimi: dove andranno? Saranno il nutrimento dei morti? Esploro le tue volontà, sottraggo i tuoi sogni già dimenticati, per esaudirli». Però, lo distrusse. Preferì contattare una prostituta. Quando si presentò, Kafka le nascose il viso con una mano, con l’altra le sfiorò le gambe, fresche, come vento. Dalla finestra della Pensione Stüdl, a Schelesen, si vedevano gli alberi nudi, simili a fontane ghiacciate. Kafka spaccò il labbro della prostituta con un chiodo, le ruppe lo zigomo e le bucò il mento. Fece attenzione a raccogliere il sangue con un fazzoletto, con la stessa cura con cui si accudiscono le farfalle prima di imprigionarle nella teca. La pagò, consigliandole un chirurgo formidabile, a Praga.
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«Come puoi amare il corpo?». Questa annotazione Kafka la deposita sulla cartolina che presenta la casa di cura naturista Erlenbach, vicino a Zurigo. Dal 1911, ripetutamente, Kafka frequentò istituti simili, in cui si praticava il nudismo, il libero accoppiamento e una dieta vegetariana. Kafka è stordito dalla nudità: «il corpo umano fa schifo, il peccato originario si sconta con la consapevolezza che la carne puzza, è laida, invecchia. L’uomo ha perso l’eleganza dei daini e la forza avida dei lupi e dei giaguari, perché allora ci ostiniamo a unirci, ad amare la carne, a curarla?». Nell’alloggio i mobili erano grezzi, scomodi. Kafka fissava tutto il giorno uomini allegri che ostentavano gambe curve, culi flaccidi, nubi di grasso. Anche gli atleti gli facevano compassione. «Le ossa non sono che una griglia di risate, e i piselli dondolano tra il pelo scuro come civette». All’improvviso, la minchia di Kafka crebbe. Spesso Kafka sentiva di non possedere il proprio corpo, probabilmente sarebbe morto dopo di lui. Un uomo prese l’erezione per un complimento, si piegò verso Kafka e senza salutarlo – nella casa era imposto il silenzio – gli succhiò il cazzo. Lo faceva senza le moine di una donna, con la sicurezza di chi sa cosa sta trattando e come trapiantare il piacere. L’uomo aveva forse quarant’anni e Kafka gli colpì le costole con le ginocchia, sperando di interromperlo. Poiché la minchia si stava rimpicciolendo nella bocca, l’uomo infilzò il culo di Kafka con un dito e urlò “Maria”. Giunse una donna, sicuramente sopra i quaranta, dalle tette possenti e succulente, che ridendo cavalcò Kafka, mentre l’uomo continuava con il dito a perforargli il culo. Pensando a come avrebbe ucciso entrambi, Kafka fu sul punto di godere, sganciò le cosce della donna dalle sue, sborrò in bocca all’uomo. La donna, commossa, restò a lungo a leccare la minchia di Kafka, come fosse una reliquia. «Più sono mature, più le donne scopano con rabbiosa e rapida violenza. Sentono di essere ancora in vita solo se qualcuno le penetra – altrimenti non esistono, sono fantasmi», scrisse quella sera Kafka. La vagina della donna era orrenda, enorme, come una maschera africana, come un viso. «Per questo ogni religione proclama il martirio del corpo… per questo il pudore è sacro: Dio non si nutre più di agnelli o di caproni squartati in sacrificio, ma dei corpi umani, deposti per sua lussuria in castità». In quell’occasione Kafka abbozzò il racconto Pudore, in cui un uomo «atrocemente pallido» decide di vivere tutta la vita in una stanza, «senza contatti con gli uomini», che ritiene fonte di corruzione, «fuciliera di virus». L’uomo cerca di non inquinare la purezza del proprio corpo, né con l’amore né con alcuna forma di marchi, ferite, tatuaggi, orecchini. «Vuole morire così come è nato, affinché un altro, chissà quando, possa adempiere quel corpo insoluto, inedito». Questo gesto non può dirsi, però, un sacrificio, «perché egli non crede in Dio, piuttosto, è un omaggio alla vita». Il racconto fu pubblicato postumo, nel 1954: sfuggito all’opera catalogatoria di Max Brod, fu recuperato nell’edizione Lebenon, edita dall’Università di Gerusalemme. Secondo l’interpretazione del critico, Enoch Hesod, il racconto significherebbe che «forse si può vivere solo abolendo la vita, recintandosi in attesa della morte: solo così saremmo bestie consapevoli e non sbandate, “comunque, bisogna far sterminio del corpo”».
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Le implorò per prima cosa di non inviargli fotografie. «Non voglio che tu sia un essere mortale», le scrisse. «Prima o poi ciò che è mortale provoca orrore». Lei gli rispose, «eppure tormenti il tuo corpo alla ricerca di Dio – sai che accadrà, lampeggiando, tra le tue ossa». E gli inviò la fotografia. «Ora che mi hai mostrato che sei una donna, vorresti essere mia, che io, denudandoti, ti espropri della vergogna, che sappia succhiare la tua colpa, disinnescandola», scrisse lui. Pensò alle sue braccia come agli ultimi dardi sulla schiena della sentinella, che sostiene la torre Nord della città in assedio – basterebbe uccidere il re per riportare la pace, ma quale? Quella degli avversari, che inghiotte un alfabeto oleoso, sconosciuto; o la propria? «Attraversando il mio corpo non troverai le mie parole né il segreto che le ha forgiate», scrisse Kafka pensando alla prima lettera che lei gli aveva inviato: «le ossessioni che leggo nei Suoi racconti trasudano luce, le custodisco come se potessi esaudirle». Concluse, «odio le mie parole perché mi allontanano da me stesso». Lei rispose «voglio solo volerti bene».
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Kafka restò per un giorno nella stanza: le pareti fluttuavano come un fiume, come neve. Continuò a scrivere con rinnovata violenza a Milena, rifiutando di vederla. Se l’avesse posseduta, dopo, avrebbe desiderato ucciderla. «È illecito che qualcuno si avvicini a me, svelando la mia debolezza», scrisse.
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Mentre Kafka scriveva a Milena, si fidanzava con Julie e si scopava Sophie. La sua necessità di amore era selvaggia, disordinata, continua. Kafka non ammetteva che una donna non lo amasse. Il suo corpo era orribile, ma «non esiste donna che non si prenda cura del mostruoso. Le donne coltivano cornacchie negli armadi: sapranno realizzarle in aquile – solo così possono scomporre la colpa, espiare la lussuria».
Davide Brullo