01 Dicembre 2018

“Mi hanno rubato Kafka”: la storia del processo ai manoscritti perduti di Joseph K.

Si chiamava come la prima donna, Eva, e dal 2016 andava in giro con due sacchi di plastica pieni di documenti, rasandosi il cranio, continuamente. Le avevano sottratto la cosa più cara, diceva, maledicendo il caldo di Tel Aviv e il cinismo di Israele, lei, ebrea figlia di immigrati cechi. Le avevano rubato, diceva, Franz Kafka. Questa è una storia di reiterati tradimenti, una storia d’amore, d’amicizia, di spionaggio. Riguarda lo scrittore più grande del Novecento, che come un virus invade le vite, aliena gli uomini; l’ha raccontata Benjamin Balint in un libro terribilmente avvincente, Kafka’s Last Trial (W.W. Norton & Company 2018, pagg. 288, $26.95). Tutto inizia nel 1924. Franz Kafka muore e impone all’amico intimo, Max Brod, suo esecutore testamentario, di bruciare i propri documenti privati, le lettere, i diari, i racconti incompiuti. Brod, come si sa, non adempie le volontà dell’amico, al contrario, “pubblica tutto, senza discernimento”, come scrive Milan Kundera ne I testamenti traditi. kafkaQuesto è il primo di innumerevoli tradimenti, in una fiera di traditori. Nel 1939 Brod fugge dall’Europa nazista, sbarca a Tel Aviv. Lì, un anno dopo, incontra Ilse Hoffe, che convince a farsi chiamare all’ebraica, Esther. Esther diventa la sua segretaria, il suo factotum, probabilmente la sua amante. Esther Hoffe ha marito, Otto, e due figlie, Eva e Ruth, è radiosa e capace, e nei manoscritti di Kafka, che ribatte a macchina, ritrova il passato perduto. Alla morte di Brod, cinquant’anni fa, è Esther a incamerare i preziosi manoscritti, contravvenendo ai desideri del proprio mentore, che avrebbe voluto destinarli alla National Library of Israel. Esther custodisce ossessivamente i documenti, riuscendo, tuttavia, a vendere nel 1974 alcune lettere di Kafka a un compratore tedesco e soprattutto, nel 1988, il manoscritto del Processo, passato all’asta e acquistato, per una cifra milionaria, dall’archivio letterario tedesco di Marbach. Esther muore nel 2007, a 101 anni, lasciando i documenti di Kafka in eredità alle figlie: è in questo istante che la National Library of Israel e l’archivio tedesco accampano pretese sul lascito. Nel 2016 il tribunale israeliano cede i manoscritti, spariti tra un caveau a Tel Aviv e uno a Zurigo, alla National Library. Si tratta di documenti, va da sé, importantissimi per lo storico della letteratura: un inventario ancora incompleto censisce migliaia di lettera – tra cui quelle di Dora Diamant, l’ultima amante di Kafka – i manoscritti di molti racconti di Kafka e un nugolo di disegni. Dal 2016 Eva Hoffe, tramutatasi in una specie di Joseph K., ha preso a radersi i capelli, “come se dovesse espiare un debito contratto con i morti”, mi dice Balint. La sorella, Ruth, era morta nel 2012. “Si vede soltanto il vuoto… insopportabile la convivenza con chicchessia… infinito rigirarsi ad occhi chiusi, offerto a un qualunque sguardo sincero”, scrive Kafka, esattamente un secolo prima, nel 1916, nei diari che avrebbero dovuto andare al rogo. Quattro mesi fa, il 4 agosto, Eva Hoffe è morta, a 84 anni. Quasi che Kafka fosse una malattia.

Nella storia dei manoscritti di Kafka torna reiteratamente la parola ‘tradimento’: Max Brod tradisce le intenzioni di Kafka, che voleva bruciare i suoi testi privati; Esther Hoffe tradisce le volontà di Max Brod, che voleva consegnare i documenti kafkiani alla Biblioteca nazionale d’Israele; Esther Hoffe, probabilmente, tradisce il marito per diventare l’amante di Brod. Chi è che ha tradito di più in questa vicenda? D’altronde, è grazie a questa serie di tradimenti che riusciamo a penetrare nella verità del lavoro di Kafka…

Probabilmente ha ragione nell’identificare nel tradimento il tema che attraversa l’intera storia. Brod giustifica il tradimento dalle ultime volontà di Kafka appellandosi a una doppia fedeltà, più alta: verso la letteratura e verso gli autentici desideri di Kafka. Aggiungo che tradendo i desideri di Kafka, Brod ha salvato doppiamente la sua eredità: dalla distruzione fisica e dall’oscurità postuma. La fama di Kafka – “l’amara ricompensa di chi fu in anticipo sui tempi”, secondo Hannah Arendt – è merito di Brod. Senza Giuda, è stato detto, non ci sarebbe crocefissione; senza Brod non ci sarebbe Kafka. Milan Kundera insiste sul fatto che Brod abbia tradito l’amico pubblicando le opere incompiute e i diari di Kafka, la lettera al padre, mai consegnata, e le sue lettere d’amore. Con questa indiscrezione, scrive Kundera, Brod ha creato “il modello per la disobbedienza nei riguardi degli amici morti; un precedente giudiziario per aggirare le ultime volontà dell’autore”. Ma se Brod avesse obbedito all’ultimo desiderio dell’autore, consegnando alle fiamme i suoi manoscritti, la maggior parte degli scritti di Kafka sarebbe andata perduta. Il nostro Kafka è un dono della disobbedienza di Brod. Continuando su questo tema: l’avvocato della National Library of Israel, Meir Heller, sostiene che Brod abbia lasciato i documenti di Kafka a Esther Hoffe come esecutore e non come beneficiario. I manoscritti non sono mai stati una sua proprietà, e lei non avrebbe potuto passarli alle figlie, Eva e Ruth. Esther Hoffe ha tradito la volontà di Brod, dice Heller, proprio come Brod ha tradito quella di Kafka.

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Max Brod con Esther Hoffe

Che tipo di donna era Esther Hoffe?

Esther (Ilse) Hoffe è stata prima di tutto una donna segnata dall’esperienza dell’esilio. Nata nel 1906 a Opava (Troppau, in tedesco), la capitale della Slesia ceca, all’inizio del 1940 lei, il marito e le figlie fuggono in Germania e poi in Francia. In Francia il marito, Otto, fu detenuto in un campo di internamento fuori Parigi. Eva e Ruth trovarono rifugio a Villard-de-Lans, una città vicina a Grenoble. Per diversi mesi, Esther fece la spola tra un luogo e l’altro, disperata, per proteggere le figlie e tentare di liberare il marito. Infine, con l’aiuto di parenti negli Stati Uniti, ruscì a ottenere i documenti necessari al viaggio verso la Palestina. Eva mi ha detto che la madre, radiosa in pubblico, spargeva sorrisi intorno a sé: “Se dovesse entrare in questo bar, tutti si girerebbero verso di lei”, diceva. Sopportò in privato il dolore degli sfollati. Eva ricorda che la madre prendeva a pugni i muri del loro appartamento a Tel Aviv, come se potessero assorbire il suo dolore. Quando lei e Otto incontrarono Max Brod, i tre rifugiati riconobbero, uno nell’altro, ciò che nel nuovo ambiente non trovavano. “I miei genitori e Max non erano israeliani”, ricordava Eva. “Non capivano la cultura israeliana. Il loro modo di pensare era internazionalista”. Fu su suggerimento di Brod che Ilse Hoffe prese il nome ebraico Esther, e fu su sua richiesta che Esther accettò di aiutarlo a trascrivere e ad organizzare i documenti che aveva salvato dalla città natale nella sua valigia. Brod era certo che lei potesse capire che quei manoscritti erano una corda in grado di intrecciare il presente al passato, alla vita precedente. Ogni mattina, Esther Hoffe si recava nel suo appartamento in HaYarden Street, a due isolati dalla spiaggia. Arrivava con una brioche nel sacchetto e scaldava il samovar prima di andare via, nel pomeriggio. Visto che cominciava ad avere difficoltà a sentire, Brod si affidava a Esther perché gli ripetesse le cose che non riusciva a capire al telefono. Nel suo libro di memorie, Brod chiama Esther “il mio socio creativo, il mio critico più severo, il mio compagno e alleato”, verso il quale si sentiva “infinitamente in debito”. Secondo Shin Shalom, un suo amico, Brod diceva che Esther era esplosa nella sua vita “come un angelo salvatore”.

Mi dica qualcosa sulle figlie di Esther, Eva e Ruth: che tipo di carattere hanno, come hanno affrontato la corte israeliana?

Non ho mai incontrato Ruth, ma forse posso darle una idea di Eva. Nell’umidità opprimente di un pomeriggio di mezza estate, a Tel Aviv, io e Eva camminavamo lungo Dubnow Street. Lei indossava una maglietta vivace, con una immagine di Marilyn Monroe, e una gonna larga, drappeggiata. Aveva con sé tre sacchetti di plastica, con fotografie e documenti che voleva mostrarmi, compreso il suo certificato di nascita e il passaporto ceco. “Benché sia israeliana ed ebrea”, mi disse, “non posso dire di amare questo posto”. Ho accennato all’intervista che Brod ha concesso al giornale israeliano Maariv, nell’ottobre del 1960. Aveva detto al giornalista: “Se Kafka avesse voluto raggiungere la landa di Israele, avrebbe creato opere geniali in ebraico!”. Aggiunsi che nel suo ultimo romanzo, Forest Dark, la scrittrice ebrea-americana Nicole Krauss ha immaginato una contro-vita di Kafka, una specie di “e se…”. Il narratore del romanzo della Krauss, scopre che Kafka è arrivato in Palestina tra le due guerre mondiali, e che vive oscuramente, protetto dal nome ebraico Amschel. Benché non avesse mai incontrato Kafka, Eva reagì con incredulità. “Kafka non sarebbe durato un giorno, qui”, mi disse. Dopo la sconfitta contro la Corte suprema, una forma di masochismo o di autolesionismo sublimato l’aveva conquistata. Aveva indotto il parrucchiere a raderla a zero. Era una specie di lutto? Era una debito contratto con i morti? Era una sorta di martirio? Parlando di se stessa come se fosse semplicemente la somma delle sue disgrazie legali, ha paragonato i rinvii e i ritardi del suo caso a quelli incontrati da Joseph K. nel Processo. In entrambi i casi, diceva, un sistema arbitrario si è insinuato in spazi pubblici e privati. “Bene”, dice il pittore a Joseph K., “ogni cosa appartiene al tribunale”. “Fin dall’inizio del processo, mi sentivo come un animale portato al macello”, mi ha detto.

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Benjamin Balint ha raccontato il processo ‘kafkiano’ intentato ai possessori dei manoscritti di Kafka

Che idea si è fatto di Max Brod? Era davvero un amico di Kafka? Che cosa lo spinge a pubblicare i documenti più intimi di Kafka, le lettere, i diari, i testi incompiuti?

Nel giustificare il suo tradimento, Brod diceva che Kafka aveva sottoposto la sua scrittura a una pressione smisurata, che soggiogava la sua arte a criteri incredibilmente alti – “i più alti standard religiosi” e “un’autocritica smodata”, aggiungeva Brod. Considerava gli appunti di Kafka – note, non testamenti giuridicamente vincolanti – come i prodotti di una “depressione temporanea”. Scrive: “La mia decisione di pubblicare il suo lavoro postumo è resa più facile dal ricordo di tutte le lotte spasmodiche che hanno preceduto ogni singola pubblicazione di Kafka che gli ho estorto con la forza e spesso pregandolo. Tuttavia, dopo si è riconciliato con queste pubblicazioni ed è rimasto relativamente soddisfatto”. Brod capì che la riluttanza di Kafka a pubblicare i suoi lavori non derivava dall’intenzione di mantenerli segreti ma dalla convinzione della loro incompletezza, dal vuoto incommensurabile tra ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere. In effetti, la prima cosa che Brod pubblicò degli scritti di Kafka dopo la sua morte furono le due note che vietavano la pubblicazione delle sue opere. In ciò, Brod voleva dimostrare la sua autentica fedeltà a Kafka: pubblicava il suo lavoro ma nello stesso tempo le indicazioni di Kafka di non farlo. Nel 1921, quando Kafka denunciò per la prima volta l’intenzione di bruciare ogni cosa, Brod gli rispose dicendo: “Se pensi seriamente che io sia capace di fare una cosa del genere, lascia che ti dica qui e ora che non eseguirò i tuoi desideri”. Dopo la morte di Kafka, Brod ha affermato: “Franz avrebbe dovuto nominare un altro esecutore se fosse stato assolutamente e definitivamente certo di volere che qualcuno eseguisse le sue istruzioni”.

Che documenti inediti di Kafka possiamo scoprire alla National Library of Israel? Ci sono testi che possono migliorare la nostra conoscenza dello scrittore?

Per una risposta compiuta dobbiamo attendere, ma l’inventario incompleto del materiale nei caveau di Tel Aviv e di Zurigo, che procede per 170 pagine, elenca circa ventimila lettera – tra cui le settanta lettere di Dora Diamant, l’ultima amante di Kafka, a Brod – i diari inediti di Brod, due dozzine di disegni sconosciuti di Kafka e i manoscritti originali dei racconti di Kafka (tra cui, Preparativi di nozze in campagna).

Cosa la ha indotta a scrivere una storia come questa?

Sedevo, alle udienze del tribunale, affascinato dal modo in cui ognuna delle parti, impegnata in una lotta giudiziaria, e perfino i giudici, fluttuassero tra due registri retorici: il legale e il simbolico. Ho capito che i procedimenti giudiziari promettevano di gettare luce su questioni importanti per Israele, la Germania e la relazione ancora fragile tra di loro. Sia Marbach che la National Library hanno portato in aula timori riguardanti i rispettivi passati nazionali; entrambi cercavano di usare Kafka come un trofeo per onorare il proprio passato, come se lo scrittore fosse lo strumento di un prestigio nazionale. Già allora sapevo di voler scrivere la storia di uno scrittore sconosciuto, colmo di genio, il cui ultimo desiderio era stato tradito dal suo amico più intimo; una fuga straziante dagli invasori nazisti mentre i cancelli d’Europa si chiudevano; una storia d’amore tra esuli bloccati a Tel Aviv; e due paesi la cui ossessione a superare i dolori del passato ha avuto spazio in un dramma giudiziario. Soprattutto, mi sono reso conto che il processo apriva un’altra domanda, piuttosto forte: di chi è Kafka?

Davide Brullo

 

Gruppo MAGOG