06 Febbraio 2021

“Sigillare uno spazio è chiudere fuori un’anima”: il romanzo di Tabish Khair, sulla consistenza e la persistenza dell'altro (anche quando non ci accorgiamo ci sia)

La notte della felicità è un breve romanzo di Tabish Khair (pubblicato da Tunué Romanzi e tradotto da Adalina Gasparini), autore nato e cresciuto in India, ora vive in Danimarca e ha avuto numerose pubblicazioni tra romanzi e saggistica che sono state tradotte in diverse lingue. La notte della felicità è la confessione di un importante uomo, capo di una grossa azienda, e di un episodio apparentemente insignificante che gli cambierà la percezione del mondo, stravolgerà i suoi perfetti equilibri. 

Tabish Khair ha scritto un libro obliquo e delicatissimo sul confine liquido che esiste tra la vita e la morte. La percezione di questa separazione tra vivi e morti è strettamente personale: più la morte vi sta lontani più sentirete soltanto la vita, meno vi accorgerete che esistono stadi intermedi. 

L’episodio è semplice: Anil è il capo di una importante azienda, il suo braccio destro è Ahmed, un dipendente musulmano che è il suo più fidato collaboratore, sempre preciso e disposto a stare oltre al suo orario per finire il lavoro. Non chiede mai un giorno libero tranne che per la festa della Notte della felicità, la Shab-e-baraat, una sorta di giorno dedicato alle anime dei morti dove si cucina il cibo tradizionale Halwa. Ahmed ha una moglie e questo giorno è sacro per loro, perché ricordano suo padre e sua madre morti da tempo. Una sera particolarmente piovosa Anil e Ahmed rimangono insieme a finire del lavoro, ed è la famosa giornata di festa. Per la pioggia incessante Anil decide di accompagnare il suo sottoposto a casa, arrivati all’appartamento Ahmed invita a salire Anil per offrirgli la famosa halwa preparata dalla moglie, di cui tante volte aveva parlato. E qui si rompe l’equilibrio. Entrare in casa di qualcuno è sempre passare una soglia tra il vostro mondo e il suo, tra i vostri odori e quelli di chi ci abita. Tra i vostri ricordi e i loro. Anil passerà questa soglia e non sarà più capace di tornare indietro come prima, illeso e distante dalla morte. Ahmed gli porge il piatto con dentro la famosa halwa, lui mangia di gusto, decantando il sapore e l’odore, ma Anil non vede niente, il piatto è vuoto, e della moglie non si sente nemmeno il respiro. 

“Mi chiedevo che cosa fosse, mentre mi chinavo per salire in macchina: la vicinanza della vita quella volta mi aveva impedito di vedere e di assaporare l’halwa, mentre ora la distanza della morte aveva fatto sì che si creasse un contatto che la vita non permetteva più?” 

Un libro questo che tenta di farci dubitare delle nostre sicurezze. Abitando tra i vivi benestanti, dove la morte lambisce saltuariamente le nostre esistenze, siamo portati a resistere dentro i nostri uffici, a fare ciò che è doveroso, ciò che è moralmente giusto per noi e per l’azienda. Pertanto un dettaglio strano, che devia dalla norma, ci appare mostruoso, un esempio di intollerabile libertà. La notte della felicità non è un libro da impatto, non vi sconvolgerà, lo leggerete lentamente e quasi divertiti. Il sapore lo sentirete dopo, come Anil con l’halwa, vi inseguiranno delle domande da queste pagine. 

“Non è triste come sorvoliamo sulla felicità? Anch’io l’ho fatto per tutta la vita, senza accorgermene, senza capire. Solo ora mi rendo conto, vagamente, di averlo fatto per anni.” 

Quando indaghiamo sulla vita degli altri cerchiamo sempre il buco, la falla nel loro splendido sistema, vogliamo un rapporto degno di interesse. Entriamo dalla porta dell’amicizia per guardare dentro ai cassetti, trovare l’origine della loro strana libertà. Ma non chiediamo della felicità, dove sono tutti i momenti felici, dove si raccolgono i sorrisi? Entrare nella casa di Ahmed ha in qualche modo contaminato la razionalità di Anil, da quel giorno sarà costretto ad ammettere la possibilità che qualcosa di inconoscibile attraversa anche le persone dall’aspetto più banale, si insinua nel senso del gusto e dell’olfatto. La presenza delle anime nel mondo chiede almeno una finestra aperta. 

“Una finestra era stata lasciata aperta e, anche se aveva la sua bella rete per non far entrare mosche e zanzare e il balcone cui dava accesso aveva una tettoia, era piovuto all’interno e la pioggia aveva formato una pozza sul pavimento. ‘Ha dimenticato di chiudere quella finestra’ osservai. Certo non potevo uscirmene con un ‘Sua moglie non ha pensato a chiudere quella finestra?’, giusto? Ahmed la guardò, e dopo un momento di esitazione rispose: ‘Lascio sempre una finestra aperta. Sigillare uno spazio è chiudere fuori un’anima’.”

Insomma non è così giusto sigillare le nostre case, renderle fortezze inaccessibili, a volte chiudere tutto equivale a fare un giuramento di ignoranza. La regola della separazione rende aride le papille gustative, spezza i capillari dell’olfatto, ci sono esperienze di confine che sono quasi inaccessibili, bisogna varcare una soglia e fare ritorno spalancando tutte le finestre. Ed ecco che anche l’uomo banale che vi lavora affianco diventa inconoscibile e la realtà smette di essere solo un insieme di oggetti che occupano uno spazio, perché tra gli oggetti esiste un vuoto che non è solo assenza.  

*In copertina: Maria Wiik, Ritratto di Hilda, 1881

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