Nel giugno 2018 un quotidiano italiano riportò la breve notizia di un asperrimo litigio per via avvenuto in Russia. Trascrivo il trafiletto integralmente, omettendo però l’oggetto del contendere. Capiremo subito il motivo.
«Una discussione… sfociata in un’incredibile sparatoria. Nella notte tra domenica e lunedì a Rostov sul Don, nel sud della Russia europea, due giovani del posto (di 28 e 26 anni) erano in fila presso un chiosco di alcolici. A un certo punto, nell’attesa, hanno intrapreso una discussione su… Stando al racconto della polizia, dopo aver discusso pacatamente su…, i due avrebbero cominciato a litigare sulla… Alla fine, uno dei due ha tirato fuori dalla giacca una pistola scacciacani e ha sparato all’altro, ferendolo alla testa, ma non gravemente […]».
(Invero si dev’essere trattato d’una pistola ad aria compressa: la scacciacani emette solo rumore).
Il casus belli non era né una donna, né lo sport, né un atteggiamento ritenuto sconveniente: era Immanuel Kant.
Sempre in Russia, capita che alcune coppie lì nei pressi e appena appena sposate, si rechino, con tanto di abito da cerimonia, a Kaliningrad, l’antica Königsberg, per omaggiare la tomba del filosofo e facendosi immortalare con la macchina fotografia accanto ad essa.
Ignoro i motivi precisi di tale passione verso Kant; tuttavia posso divinarli, li capisco e condivido. E con me suppongo anche Manfred Kuehn, un nome in pratica sconosciuto nella nostra repubblica culturale, che al sommo filosofo dedica il monumentale Kant. Una biografia (Il Mulino),opera stupenda e appassionante, che tra il molto altro si incarica di denunciare la falsità della comune visione di un uomo noioso, che ancor oggi accompagna Kant, e di ricostruire l’immagine integrale del filosofo, sulla scorta di documenti, intuizioni, revisioni. Sin dalle prime pagine saremo costretti a cassare una vulgata, dico io, non di rado proditoria, vòlta a screditare sotto ogni riguardo l’autore della Critica della ragion pura.
Se pensate che io sia pazzo, o siete degli ingenui, o avete poca dimestichezza con la faccenda. Non pare infatti che la rivoluzione kantiana così tanto declamata, salva qualche eccezione, sia poi stata accettata e fatta propria dai filosofi, né da altri. Lo stesso Kuehn attacca l’istruttivo Prologo con parole da fissarsi bene in capo:
«Immanuel Kant morì il 12 febbraio del 1804, alle 11 del mattino, meno di due mesi prima del suo ottantesimo compleanno. Benché fosse già famoso, gli intellettuali tedeschi erano impegnati a cercare di “superare” la sua filosofia critica. Egli era diventato quasi irrilevante».
E più oltre precisa testi contesti e nomi in (dis)grazia dei quali l’immagine piatta e falsa, ancor oggi renitente alla verità è abbarbicata e infitta nelle teste della maggioranza. Per carità, giusto un accenno, ma quanta verità.
Si contempli a mente fredda il panorama filosofico che va dalla fine del xviii secolo, quando uscirono le tre Critiche, insino ai primi decenni del xx, soglia su cui s’arresta, già gravemente magagnata, la grande filosofia, e ci si provi a intercettare l’influenza kantiana. Se togliete le tarde Baden e Marburgo (su cui ci sarebbe però da discutere) resta in pratica il solo Arthur Schopenhauer, il primo peraltro a dipingere la tela del panorama mozzo in quel vero e proprio saggio filosofico, mai seriamente meditato, Sulla filosofia da università (cito la magistrale traduzione di Anacleto Verrecchia, Fogola 1990, che restituisce sin dal titolo lo spirito del testo), in cui tra l’altro Schopenhauer, più ancora che nella Volontà nella natura, denuncia il vero e proprio boicottaggio filosofico architettato ai danni di Kant.
Il fastidio di Schopenhauer non era motivato, come ripete qualche cretino, dal risentimento contro l’università che gli aveva preferito Hegel (quando invece, al massimo, la responsabilità fu in grado quasi pari degli studenti e dello stesso Schopenhauer, che fece male i conti). Esso affonda in motivazioni squisitamente filosofiche avanzate da chi come pochissimi altri aveva ben presenti tanto il panorama filosofico di mezzo secolo appresso la morte di Kant, e la miglior comprensione del criticismo. Ma torniamo a Kuehn.
Dalle pagine di questa monografia si staglia un uomo nuovo, affatto diverso dall’aneddotica, travagliato e non di rado gaudente e stizzito, non il mezzo impiegato statale, mezzo rimbambito tramandatoci da schiere di critici pressappochisti. L’influenza pietista, ad esempio, su cui qualcuno sovente ciarla in libertà, è qui ricostruita secondo criteri rigori, riuscendone un’impronta parecchie spanne lontana dalla consueta. Poi le amicizie fondamentali, il rapporto speciale con l’Inghilterra, figure e fatti nuovissimi, che lumeggiano Kant come mai accaduto sino ad oggi. E la vita così ricostruita è quasi un crescendo verso l’esplosione del trittico filosofico che imprimerà, per chi avrà saputo coglierne il significato, una delle svolte filosofiche e direi addirittura antropologiche più telluriche della storia occidentale.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: la biografia di chicchessia, costruita secondo precisi criteri che fondino e intreccino tra loro tutti i singoli aspetti di un soggetto ed espandano la prospettiva al più vasto contesto possibile, è la via regia all’intelligenza di esso. Ogni analisi di singole opere, se condotta con onestà e acume, ha la sua enorme utilità; ma soltanto attraverso una ricostruzione ampia al massimo e armonica, siamo avviati alla comprensione e disincentivati a lanciarci in speculazioni fantastiche, arbitrarie, su questo problema, su quella pagina, su di un’opera, etcoetera.
Questa biografia farà da conferma e appoggio, tanto interni quanto esterni, a quanto Francesco Coppellotti, mio insegnante di storia e filosofia al liceo, durante quel periodo mi disse indicandosi la testa con una copia della Critica della ragion pura: «Se dopo aver letto quest’operanon capita qualcosa qui dentro, di sicuro qualcosa qui dentro non funziona». Ed è mutatis mutandis il pensiero anche di Schopenhauer e di chiunque abbia cara la filosofia come scienza e vita e non soltanto come passatempo e mezzo di carriera.
Ciò che però mi pare imperdonabile o almeno bizzarro è il silenzio di Kuehn attorno alla vicenda della Ragion pura, divisa tra prima e seconda edizione. Una questione enigmatica e occulta di cui ora mi piace render conto.
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Lo strano caso della «Ragion pura»
Prendendo in considerazione solo quelle integrali e autorevoli, in Italia di fatto abbiamo otto traduzioni del capolavoro.
La prima risale al 1909-1910 ed è curata da Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice per Laterza, che la rividero nel 1919-1920. Essa ricevette una rinfrescata e una ripulita nel 1959 da Vittorio Mathieu, ancora per Laterza. È questa la versione più circolante e citata ancor oggi.
Nel 1957 l’Einaudi pubblica la traduzione di Giorgio Colli, poi ristampata nel 1965; e quando Colli trasloca all’Adelphi in seguito alla rottura con l’editore torinese a causa dell’opera omnia di Nietzsche, la sua versione ricompare (1976). Frattanto, 1967, esce per la Utet la versione di Pietro Chiodi, che si era già cimentato con Essere e tempo, a detta di molti in maniera disastrosa.
Nel 1998 anche Rizzoli dà il suo contributo, a firma di Anna Maria Marietti.
L’ultima edizione risale al 2004, con diverse ristampe, ed è opera della Bompiani per la curatela di Costantino Esposito, che la dota anche del testo a fronte, per la prima volta.
Fin qui in apparenza nulla di strano. Invece appena sotto la superficie emerge la magagna: tutte queste versioni, infatti, accolgono la seconda edizione della Ragion pura, risalente al 1787, quale testo di riferimento e definitivo, con le eccezioni di Colli ed Esposito che annettono le così dette “varianti” tolte dalla prima edizione, uscita nel 1781 (intralciando notevolmente la lettura). “Varianti” sono anche presenti in Chiodi, ma in misura minima.
Un lettore ignaro sarebbe propenso ad accogliere soddisfatto la notizia, ché di solito le nuove edizioni sono “rivedute e corrette”, quindi migliorate. E invece in questo caso è necessario essere assai prudenti perché potrebbe valere l’esatto contrario. Ecco anzitutto cosa scrive niente meno che Arthur Schopenhauer in un passaggio della Welt a conoscenza di chiunque: «Ho sostenuto… che il merito fondamentale di Kant è stato d’aver distinto il fenomeno dalla cosa in sé, di aver interpretato tutto questo mondo visibile come un mondo fenomenico e di aver perciò negato alle sue leggi una validità oltre il fenomeno stesso. Certo, è sorprendente che non abbia dedotto quell’esistenza meramente relativa del fenomeno da quella verità semplice, innegabile, che ci sta proprio davanti agli occhi e che dice “nessun oggetto senza soggetto”, in modo da mostrare così, già alla radice, che l’oggetto, poiché esiste sempre assolutamente in relazione a un soggetto, è condizionato da quest’ultimo, dipende da esso e perciò esiste come semplice fenomeno e non come un in-sé incondizionato. Già Berkeley, verso i cui meriti Kant non si comporta con equità, aveva fatto di questo importante principio la pietra miliare della propria filosofia, diventando così degno di essere ricordato eternamente (…). Nella prima edizione della mia opera [la Welt, 1818] avevo spiegato il fatto che Kant avesse evitato questo principio berkeleyano con un’evidente avversione nei confronti dell’idealismo radicale; d’altra parte, avevo trovato proprio questo genere di idealismo chiaramente espresso in molti luoghi della Critica della ragione pura, e avevo perciò accusato Kant di essere in contraddizione con se stesso. Per la verità questo rimprovero aveva anche un fondamento, in quanto, come nel mio caso, la Critica della ragione pura era nota soltanto nella seconda edizione o nelle cinque ristampe seguenti, tutte conformi ad essa. Solo che, quando più tardi lessi il capolavoro di Kant nella già rara prima edizione, vidi, con la più grande gioia, che tutte quelle contraddizioni svanivano, e trovai che Kant, anche non utilizza la formula “nessun oggetto senza soggetto”, tuttavia, proprio con la stessa determinazione di Berkeley e mia, interpreta il mondo esterno, che è situato nello spazio e nel tempo, come mera rappresentazione del soggetto conoscente; ed è per questo che egli… dice senza riserve che “mancando il soggetto pensante, verrebbe a mancare l’intero mondo corporeo, poiché questo non è che il fenomeno nella sensibilità del nostro soggetto e una specie delle sue rappresentazioni”. Ma tutta la parte che va da [seguono numeri di pagina], nella quale Kant espone il proprio idealismo radicale in modo molto bello e con grande chiarezza, venne da lui soppressa nella seconda edizione, nella quale fu invece introdotta una quantità di espressione che lo contraddicevano. Per questa ragione il testo della Critica della ragione pura, così come è circolato dal 1787 al 1838, è un testo deformato e corrotto, e l’opera è diventata un libro in se stesso contraddittorio, il cui senso, proprio per questo, non sarebbe potuto risultare del tutto chiaro e comprensibile a nessuno. Maggiori particolari sulla questione, come pure le mie congetture intorno alle ragioni e alle debolezze che hanno potuto condurre Kant a deformare in questo modo la sua opera immortale, li ho esposti in una lettera al Signor Professor Rosenkranz, il quale ne ha citati i passi fondamentali nella sua prefazione al secondo volume dell’edizione da lui curata delle opere complete di Kant, alla quale io qui rinvio il lettore. Il seguito alle mie osservazioni, dunque, nell’anno 1838 il Signor Professor Rosenkranz è stato indotto a ripristinare nuovamente la Critica della ragione pura nella sua forma originaria (…). Nessuno si immagini di conoscere la Critica della ragione pura e di avere un chiaro concetto della dottrina di Kant se l’ha letta solo nella seconda edizione, o in una delle edizioni successive; questo è assolutamente impossibile, poiché costui avrebbe letto solo un testo mutilato, corrotto, in un certo qual modo non autentico» (Il mondo come volontà e rappresentazione, traduzione di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, leggerissimamente ritoccata, pp. 553-555).
Quindi secondo Schopenhauer l’edizione 1781 è preferibile alla seconda, e così tanto da spingere il filosofo a intervenire direttamente presso Rosenkranz, il quale seguì prontamente i suggerimenti di Schopenhauer, fatto rilevante ancor più se si pensa che Rosenkranz fu primo biografo, discepolo e intimo amico di Hegel e che è verosimile conoscesse i giudizi di Schopenhauer sul suo maestro.
Nonostante l’avviso schopenhaueriano, in Italia nessuno studioso e traduttore ha pensato di fare i conti con questa notizia, credo di poter dire invero enorme, e hanno tutti proseguito come se niente fosse. Ha mantenuto un atteggiamento analogo persino Colli. Ecco cosa egli scrive nella Premessa alla terza edizione italiana della Ragion pura (Adelphi): «Mathieu respinge le risoluzioni terminologiche della nostra edizione: i suoi argomenti, per dirla brevemente, consistono nell’affermare che sono preferibili i termini usati da Gentile e Lombardo-Radice. Così, anche dopo la revisione, rivediamo confermato che Gemüth significa “spirito”!», e commenta: «Forse perché in Italia Kant dev’essere compreso attraverso Hegel?». Chiude poi con parole inequivocabili:
«Pensiamo che la nostra risoluzione renda giustizia alla grandezza della prima edizione kantiana, rivendicata da Schopenhauer».
Una polemica anch’essa incomprensibile, poiché seguita da una scelta coerente solo a mezzo: Colli infatti pubblica la seconda edizione della Ragion pura riservando alla prima il basso della pagina e per le sole e così dette “varianti” (che sono poi le parti originarie), peraltro mettendo in difficoltà ergonomica il lettore.
Assai bislacca è poi la spiegazione offerta da Esposito nella Nota editoriale:
«Le differenze tra le due edizioni… – com’è noto – hanno determinato in alcuni punti dell’opera delle sottolineature diverse, se non dei veri e propri sbilanciamenti di posizione da parte di Kant (con effetti di tutto rilievo nella storia della critica). Senz’affatto attenuare il ruolo di tali differenze, abbiamo assunto come normativa la seconda edizione – in questo attenendoci semplicemente alla decisione dell’autore –, ma al tempo stesso abbiamo segnalato tutte le variazioni e le integrazioni significative».
Pur essendo a conoscenza delle differenze e delle loro conseguenze, Esposito se ne frega e tira dritto, nascondendosi dietro regalie di «variazioni e integrazioni», e la «decisione dell’autore».
Spiegazioni oltremodo stonatissime. Se infatti lo stesso Kant aveva cassato la prima edizione in favore della seconda, perché sentirsi in dovere di riportare le differenze? Ciò significa soltanto che si vuole imprimere un certo orientamento a Kant e agli studi su di lui e non oltraggiare certi studiosi, di ieri e dell’oggi, pur mostrandosi cauti. Significa anche fregarsene non tanto della parola di Schopenhauer, quanto più tosto delle prove che egli adduce per dimostrare l’inefficacia della seconda edizione. Peraltro l’impostazione grafica obbligata da Esposito è ancor più scomoda di quella dell’edizione Colli-Adelphi, perché ingarbuglia l’uso del libro a livelli persin parossistici, sovraccaricando il lettore di un’ulteriore (e inutile) fatica, peraltro su di un testo di per sé già complesso e complicato.
Ho tentato di interpellare il professor Esposito, l’unico traduttore tra i viventi che io sia riuscito a raggiungere, per un’intervista di chiarimento, ottenendo però, dapprima, un silenzio, rotto soltanto dopo una mia sollecitazione per la quale mi sono maledetto. Infatti la risposta, oltreché sgarbata, è stata frettolosa e inconsistente, limitandosi a enunciare che «la pur interessantissima interpretazione» di Schopenhauer non è «vincolante nel nostro approccio all’opera», e scaricando anche qui su Kant la responsabilità («la seconda edizione era considerata da Kant stesso quella definitiva»).
Ora, non sarò certo io a liquidare gli studiosi dediti alla Critica della ragion pura. Mi domando però, ad esempio, perché nessuno, e non solo tra di loro, si sia mai preso la briga di tradurre il carteggio, non solo disponibile ma anche molto breve, tra Schopenhauer e Rosenkranz, oppure di citarne qualche frammento (ciò che induce a sospettare non lo abbiano neppure letto) per mettere a tacere il primo che, explicite secondo qualcuno, implicite secondo altri, avrebbe pigliata una cantonata, e così sciogliere ogni dubbio.
Credo si converrà quanto trascurare, se non peggio, il giudizio infine congiunto di Rosenkranz e di Schopenhauer sia quanto meno azzardato, se non, in alcuni casi, come abbiamo visto, oltremodo borioso. La verità però, temo, sta nella considerazione di Schopenhauer, il quale, nonostante, un mal riposto ottimismo e qualche eccezione, non gode ancora di favore e ascolto, almeno non come e quanto meriterebbe, e tanto meno nella turris eburnea accademica, che non gli perdona né perdonerà mai d’averla ben scudisciata a causa anche e soprattutto del trattamento riservato proprio a Kant dalla stessa filosofia da università. Al filosofo di Danzica è toccata sorte ben peggiore di Kant, come forse un giorno scriverò qui. Torniamo nel merito.
Dal canto mio, oltre a invitare le menti libere a meditare le parole di Schopenhauer e di leggersi il carteggio con Rosenkranz, mi sento di opporre alla consuetudine accademica i Prolegomeni dello stesso Kant, opera del 1783, quindi scritta tra la prima e la seconda edizione della Ragion pura. Benché come giustamente rileva Pettoello nell’introduzione alla sua bella versione dell’opera (La Scuola/Morcelliana), i Prolegomeni non sostituiscano la Ragion pura e siano opera indipendente, essi restano pur sempre il tentativo da parte di Kant, riuscitissimo a detta di tutti, di restituire i contenuti della prima Critica in forma più “popolare”, ovvero meno estesa e goffa dell’esposizione originale. E come tali l’autore li lasciò liberi e felici nel mondo sino alla sua morte, ciò che ci impone la domanda: dacché la seconda edizione della Ragion pura riporta modifiche sostanziali, perché Kant non ha cassati anche i Prolegomeni o non li ha riscritti sulla scorta dell’edizione 1787? Si attende una risposta convincente.
Purtroppo non sono ancora in grado di spiegare con precisione i motivi che hanno spinto Kant a contraffare il proprio pensiero (ma ci sto lavorando). Da quel poco che ho visto, è tuttavia lecito sospettare un’autocensura suscitata da malumori pubblici e anche in alto loco per le implicazioni religiose della Critica della ragion pura.
Prima di Kant, sappiamo, ci furono parecchi filosofi nemici del dogmatismo religioso (e conseguentemente filosofico, vistoché la filosofia dipendeva dalla teologia ufficiale e sovente si facevano passare sotto la maschera filosofica principii teologici dogmatici). Ma nessuno o quasi ricopriva il ruolo di Kant, ossia non era un docente di un’importante università, né aveva gittata e peso suoi. Non molti anni avanti un Kant non protetto dall’accademia, né già consacrato, avrebbe rischiato la ghirba la pari d’un Bruno, d’un Vanini, d’un Campanella o d’uno Spinoza. Gli si poté solo imporre silenzi e deviazioni, ciò che riuscì benissimo anche per il carattere non certo battagliero dell’autore.
Ma la censura e l’inquisizione sono creative. Dopo che altri avevan definitivamente spenti di roghi con la sabbia, la stessa sabbia è servita ai nuovi inquisitori per nascondere certe verità. Anche così va il mondo.
Nell’attesa – forse vana – di ricevere qualche risposta, se non qualcosa in più, sarà utile armarsi di questi dubbi prima di concedere credito a certa filosofia italiana e per tentare strade differenti da essa.