10 Marzo 2020

“Dobbiamo pensare contro il cervello”. Gaston Bachelard crede di poter addomesticare il Minotauro. Un saggio di Benjamin Fondane

Tra i libri apparsi in questi ultimi anni non ne conosco di più interessanti, più densi e più stimolanti di quelli di Bachelard. La loro ricchezza è sorprendente, la loro trama solida, il loro pensiero mobile e vivo – il loro stile è quello di un grande scrittore; sono libri che chiamano in causa un gran numero di problemi, tecniche, vie spirituali e dunque l’uomo – e il loro autore. Impossibile sfuggire alla loro stretta, alla loro impresa, poco importa il nostro accordo o meno con l’autore; e perfino il disaccordo non avrebbe presa su un pensiero che appena professato già abbandona se stesso e si ricerca nuovamente, creando le condizioni di un nuovo accordo o un differente disaccordo. Quello che colpisce maggiormente nel pensiero di Bachelard, è la sua energia e la sua danza. Energia! Qualunque sia il pensiero che egli vuole esprimere, Bachelard afferma, nega, attacca, va alla carica, si installa da subito nell’assoluta certezza, dogmatizza e innalza patiboli. Non propone nulla, discute: “È il vostro essere e la vostra intera ragione che impegnate nella discussione. Infatti, vi è discussione, in quanto affermate con energia; e dato che dedicate tale energia tesa, una piccola parte della vostra anima e della vostra viva durata, vuol dire che qualcosa o qualcuno vi ostacola: vi smentisce, e dunque affermate!” (22, D.D.). E inoltre (134, Non): “Per avere qualche garanzia di essere dello stesso parere su di un’idea particolare, è necessario almeno non essersi trovati d’accordo. Due uomini che volessero realmente intendersi, dovrebbero, in un primo momento, contraddirsi. La verità è figlia della discussione, non della simpatia.” Egli si spinge oltre, parla di un “platonismo della violenza” (168, Lt), di una “malvagità della ragione” (125, Lt), violenza e malvagità dissimulate nel cuore della “vita filosofica, sorridente e serena”, poiché – Bachelard lo ammette – questa vita non può compiersi che “negando la vita” (146, Lt).

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Bachelard non lesina la sua instancabile energia. Il suo pensiero è battagliero, polemico e provocante. Ma è il suo modo di essere, e prescinde dallo scopo prefisso. Qualunque sia l’oggetto, che muti o sia agli antipodi rispetto a quello precedente, il pensiero di Bachelard non cambia – all’opera è sempre lo stesso attacco, la stessa intensità, lo stesso dogmatismo; questo pensiero vuole far proprio l’oggetto, qualunque esso sia, prenderne possesso, già pronto ad abbandonarlo, senza alcun riguardo, un attimo dopo. La danza che a mio avviso rappresenta la seconda virtù del pensiero di Bachelard, non la troviamo al cuore di tale disposizione – in sé, non è il pensiero a danzare. La danza si installa tra due pensieri, due libri, due oggetti, negli intervalli; se vi è gioco, non lo troviamo nel pensiero, ma tra i pensieri. A tal punto che, ogni volta, siete certi di afferrare un pensiero formale, esplicito, nella sua totalità, di Bachelard, ma niente affatto certi di poterlo accordare a quello di un libro scritto prima o dopo. Eterogeneità? Indubbiamente, se è l’unità logica – e non l’unità dinamica – quella che cercate in un uomo; se in un pensiero cercate il suo scarto, per trarne un sostegno, una volta per tutte, e non il pensiero nell’atto di pensare, teso verso un fine sempre lontano ma sempre presente. Il fine d’altronde non è mai molto evidente. In apparenza sembra si tratti della ricerca di un sapere comunicabile (41-42, D.D.), e talvolta di un “privilegio del pensare” (109, D.D.), ma più spesso si tratta di ottenere un “sistema coercitivo” (95, Lt), una filosofia “della coscienza del riposo” (198, Lt) e infine una “buona coscienza” (200, Lt). Bachelard parla sovente di una pedagogia, ma in fondo, a mio avviso, quel che egli vuole, con ferma volontà, è una terapeutica. Che ciò accada con il privilegio del pensare, con la ritmoanalisi, la dialettica o la psicanalisi, poco importa; qualunque sia la modalità con cui egli si rapporta al reale, lui vuole modificarlo. Poiché in questo reale trova sempre qualcosa “che non va”: il pensiero ha il suo male – la vita; il sapere ha il suo male – la ragione e il cervello; anche il sogno ha il suo male – l’incubo. Ciò vuol dire che la verità non potrebbe soddisfarlo, poiché questa non dona alcun riposo né una buona coscienza. Così come, secondo Bachelard, è necessario trapiantare nella poesia di Lautréamont i “valori intellettuali”, allo stesso modo dobbiamo trapiantare questi stessi valori nella vita e la verità; il suo istinto etico reclama i “sistemi di coercizione”.

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Al lettore che segue il lavoro di Bachelard, sembrerà che io esageri e mi affretti, in ogni caso, a fornire un ritratto rigido e moralista di un pensiero di cui asserivo che nulla potrebbe appagarlo. Può darsi che questi abbia ragione. Bachelard vuole indubbiamente moralizzare la materia, la vita, la verità e perfino il sogno, ma forse con il solo obiettivo di disfarsi del loro scarto, facendone delle funzioni prive di contenuto. E se egli attacca la pienezza, il continuo bergsoniano, ciò accade perché non vi vede altro che delle “identità dissimulate”, delle “illusioni di durata”. Se ai suoi occhi la stessa musica è solo “una perfidia temporale”, è solo perché questa non è parte, “propriamente parlando, di una sorgente originaria. La sua origine… è come la sua continuità… un valore di composizione. (132, D.D.). Eppure, malgrado la pretesa razionalità di tale attacco, Bachelard in fondo non chiederebbe di meglio che credere all’esistenza di tale continuità. Infine, in seguito, egli la trova e crede di trovarla (“è il pensiero dello psichismo che ha la continuità della durata”, 291, Air) nell’immaginazione metaforica, là dove la metafora non significa il reale nei termini di un concetto, ma è il reale stesso, realmente vissuto. Così, è chiaro, avvertiamo il suo smarrimento. Ed egli non ha forse ottenuto una catarsi che, pretesa in guisa di un dato della ragione, è diventata un’antiragione e un’antimorale o piuttosto una trascendenza, un “al di là del bene e del male”? Bachelard non ci dissimula tale malessere, poiché ci parla di sé nei termini di un homo duplex, un essere lacerato che desidera insegnare il comunicabile ma si vede costretto a insegnare i sogni.

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Alla Sorbona, in qualità di professore, egli insegna compensandole la filosofia della matematica e la “metafisica” dell’immaginazione”. Al suo primo corso, deve affermare (se mi rifaccio a ciò che scrive): “Evitare gli ostacoli epistemologici” che feriscono il Sapere – e con ostacoli epistemologici intende la vita, la società, la ragione, il cervello, le “forze elementari” (109, Air), il sogno (83, D.D.): “Dal suo punto di vista, le linee curve dalle inflessioni pigre sono delle linee di pensiero inferiore, di vita spirituale inferiore. Esse appaiono nella fase calante, quando l’essere cosciente si lascia invadere e vincere dalle opposizioni estreme”. Inoltre, egli deve affermare che mediante il pensiero “si parla di ciò che si vede; si pensa ciò che si parla; il tempo è perfettamente verticale e se ne va tutto intero lungo il suo corso orizzontale, portando tutte le durate psichiche dello stesso ritmo. Al contrario, sognare è disingranare i tempi sovrapposti” (114, D.D.).

Ma nel secondo corso, e forse agli stessi allievi, egli dice – “sognate”: “L’immaginazione è una delle forme dell’audacia umana.” (113, Air) “Noi sogniamo o noi pensiamo. Che si possa sempre usare l’immaginazione!” (128, Air) Tragica condizione! Lo stesso uomo che ci propone di guarire dalla fantasticheria (83, D.D.), ci propone ora il metodo di Desoille: la guarigione attraverso le immagini (130, Air).

L’uomo che aveva scritto: “Quando si è condotta accuratamente la polemica della precauzione, ci si sente al riparo dagli accidenti.” (73, D.D.), tuttavia rimproverava a Bergson, nello stesso libro, di non aver attinto l’essenza del “rischio per il rischio… il rischio assoluto e totale, il rischio privo di scopo o ragione… e la vertigine che ci seduce al pericolo, alla novità, la morte e il nulla,” (14, D.D.) Egli ci ha detto che le linee curve dalle inflessioni pigre sono delle linee di pensiero inferiore e tuttavia: “Che si possa sempre fantasticare!”. Bachelard è indubbiamente abbastanza accorto da non conciliare tali contraddizioni, da non proclamarle ovvie; ci dirà che non intende la stessa cosa con sogno, immagine e immaginazione. Quando sfocerà nell’Assurdo, nondimeno esclamerà, convinto di averlo addomesticato: “L’Assurdo possiede dunque una legge.” (128, Air)

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Di fatto, egli non accetterà il sogno, né l’immaginazione né l’assurdo se non prima sottomessi a delle leggi. Rifiuterà loro ogni oggettività esteriore e consentirà loro solo una realtà psichica – sono degli a priori psichici. E accoglierà la fantasticheria, l’immaginazione e l’assurdo solo se separati dalla vita e le “infime continuità degli istinti” – li purgherà da ogni materia e li renderà alla loro perfetta autonomia. Ma esiste comunque una bella differenza tra il pensiero puro che vuol quantificare l’universo e un pensiero secondo cui l’universo si risolve in pura qualità; ce ne corre tra un a priori colto in un concetto e un a priori vissuto in un’immagine.

Non mi propongo, qui, di conciliare le contraddizioni del pensiero di Bachelard e nemmeno di rimproverargli le sue contraddizioni – vorrei congratularmi con lui. È grazie alle sue contraddizioni, ai suoi contraccolpi, alla sua apertura e alla sua danza che questo pensiero è in grado di attingere una realtà in movimento, ricca e mantenere nondimeno rapporti con quel che possiamo chiamare: l’essere. In un’altra occasione abbiamo scritto che “il falso è ontologicamente più ricco del vero” (Faux Traité d’esthétique); avremmo qualche difficoltà a dimenticarlo. Ma, piuttosto, vorrei dire della curiosa avventura che ha condotto Bachelard da un estremo all’altro dell’universo spirituale e che fa di lui un convertitore convertito. In fondo non è altro che la storia del monaco Paphnuce in Thaïs; ma, se nel mondo dei sensi questa storia è banale, essa è singolarmente rara in quella dello spirito. Il mondo intellettuale è un paesaggio in cui nessuno ha mai convertito nessuno, e se stesso meno che mai. In generale, per esprimerci nei termini di Bachelard, è il complesso di Teseo ad animare l’istinto intellettuale; di norma, l’avventura si conclude con il massacro del Minotauro o – ma è alquanto raro – con la sconfitta del valoroso. Dalla “discussione” non è mai nata alcuna verità.

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D’altronde il lettore di Bachelard non si è mai fatto ingannare dalla parola “discussione”. Possiamo indubbiamente discutere con un avversario in buona fede (qualora lo trovassimo), ma dobbiamo forse sollevare una disputa contro gli “ostacoli epistemologici”? Si discute con il “pensiero inferiore”, il pensiero pigro, voluttuoso? Non sarà certo l’autore del Philosophie du non ad accettare un tale compromesso. Così egli dichiara guerra, una guerra impietosa, non solo contro gli istinti e la vita, la società e la fantasticheria (il che non stupisce), ma anche contro la ragione e il cervello. Mi scuso per le innumerevoli citazioni, ma il lettore non potrà che trarne profitto e d’altronde devo giustificare affermazioni tanto sorprendenti. Così, Bachelard ha scritto: “È chiamato in causa lo stesso utilizzo del cervello. D’ora in poi, il cervello non sarà più lo strumento incontestabilmente appropriato al pensiero scientifico – in altri termini, il cervello è uno ostacolo al pensiero scientifico. È uno ostacolo, dato che questi coordina i nostri moti e i nostri appetiti. Dobbiamo pensare contro il cervello” (251, Psy). Ed egli non è certo più accomodante con la ragione: “Insomma, la scienza istruisce la ragione. La Ragione deve obbedire alla scienza (e, citando Destouches)… se l’aritmetica si rivelasse contraddittoria, si riformerà la ragione e si conserverà intatta l’aritmetica” (144, Non). Di conseguenza, nessuno rimarrà sorpreso quando egli scrive: “Dobbiamo dunque pensare contro la vita”, e continuando su questa via ascetica (18, Feu): “Ognuno di noi deve distruggere in sé, ancor più rigorosamente delle proprie fobie, le proprie ‘passioni’ [in greco], la sua compiacente indulgenza nelle prime intuizioni”.

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Non discuto, qui, delle straordinarie affermazioni che, viste da un punto di vista alternativo al nostro, verrebbero ritenute semplicemente puerili; nessun lettore di Bachelard può pensare che il suo autore voglia realmente riformare la ragione per farle accettare il principio di non-contraddizione, di cui essa rappresenta, dalla notte dei tempi, l’unica vestale; né che Bachelard possa credere per un solo istante che si possa pensare contro il cervello o che la scienza possa governare il pensiero, come un deus ex machina nato al di fuori del pensiero di non-contraddizione, a guisa di un’essenza. Quel che dobbiamo conservare, non è la validità delle affermazioni di Bachelard, ma la loro direzione e tendenza, la loro intensità polemica, la loro fedeltà a un’idea di salute, ascetica, che conosce i propri ostacoli e li nomina e si propone di vincerli. È per tale ragione che Bachelard si doterà di un metodo e ricorrerà a una terapeutica e penserà alla psicanalisi. È li che ha inizio la sua avventura, ed è là che vale le pena soffermarsi.

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Di fatto, ho detto “avventura”, poiché chi avrebbe potuto immaginare, quale lettore de La Formation de l’esprit scientifique (Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective) – irritato o soddisfatto che esso sia dall’analisi – che tale estrema e pressoché disumana impresa dell’imperante razionalismo non era altro che l’oscura via con la quale gli dèi avrebbero condotto infine il loro detrattore ad amare e perfino cantare gli ostacoli che questi si era proposto di combattere? Ma l’“incanto” non agirà da subito; in questo libro – di cui abbiamo fornito, a suo tempo, un ampio resoconto nei Cahiers – l’autore non si serve ancora, per combattere le linee curve dalle inflessioni pigre, dell’intero arsenale messo a disposizione dalla tecnica psicanalitica. E allora eravamo lontani dall’immaginare che l’autore, apparentemente così aderente ai rozzi espedienti della psicanalisi, se ne sarebbe liberato così facilmente! Sembrò allora che gli studi ai quale egli si sottoponeva – quelli prescientifici e degli alchimisti – non facessero altro che rinforzare l’opinione del critico nei loro confronti, ossia che il loro valore fosse nullo. Così Bachelard iniziava già a vedervi un’immensa immaginazione all’opera e i nuovi ostacoli epistemologici che avrebbero rimpiazzato i complessi freudiani già gli si paravano davanti sotto forma tetravalente – fuoco, acqua, aria, terra – l’intera cosmologia dei presocratici. Bachelard intraprese la psicanalisi dei quattro elementi al fine di raffinare la scienza da tale oscura attività. In quella ch’egli dedicherà al fuoco – la prima – tenta ancora di sopprimere il fuoco: “Giacché la fantasticheria è impotente, ecco il nostro obiettivo: guarire lo spirito dalle sue felici illusioni, e liberarlo dal narcisismo indotto dal suo iniziale contatto con l’oggetto, per dotarlo di certezze piuttosto che del mero possesso, e dei poteri della convinzione in luogo del semplice calore ed entusiasmo – insomma, per dotare la mente di prove che non sono una effimera fiamma!” (15, Feu). Ma alla fine del libro egli è già conquistato dalla fantasticheria e dal fuoco e ci propone “una chimica della fantasticheria… che dovrebbe dimostrare che le metafore non sono semplici idealizzazioni che prendono il volo a guisa di fuochi d’artificio… ma al contrario… (213, Feu). D’ora in avanti, gli studi successivi, quelli dedicati all’acqua, all’aria (in attesa di quello sulla terra), non recheranno più il sottotitolo: psicanalisi. Bachelard non desidera più psicanalizzare, non ha più alcuna volontà di ostacolare acqua, terra, fuoco e aria, la nostra fantasticheria e il suo potere di fornici le intuizioni originarie. Così, è la poesia a insinuarsi platealmente nell’universo pastorizzato di Bachelard; non, da subito, la poesia in quanto tale; nel suo mirabile libro su Lautréamont, pretende ancora la “deanimalizzazione” di questa poesia, reclama il trapianto dei “valori intellettuali”. Ma infine le evidenze originarie, le intuizioni elementari, fondamentali non sono più ostacoli epistemologici e diventano quelle funzioni irriducibili, vitali che liberano l’intelligenza pensante.

Così, Teseo non ha ucciso il Minotauro, ed egli non è stato divorato da lui, al contrario: questi ha infine compreso che il Minotauro non divora sempre il pensiero del rischio per il rischio, il rischio senza alcun fine o ragione, e che la vertigine che ci seduce alla novità e al pericolo non sempre ci riserva la morte e il nulla. E, qui, Teseo si allea con il Minotauro.

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Certo, Bachelard è troppo filosofo e troppo razionalista per ammettere le evidenze originarie, che non sarebbero altro che delle forze oscure, libere, capricciose, arbitrarie. Egli vuole l’Assurdo, ma sottomesso a una Legge. Sì, desidera che l’immaginazione ci fornisca le evidenze originarie, ma solo dal punto di vista psichico; acqua, terra, aria e fuoco avranno una realtà, ma immaginaria; certo, sono delle funzioni, ma funzioni d’irrealtà. L’universo della fantasticheria non è più una linea curva, pigra, del pensiero inferiore – esso è ricco di tutto il pensiero dell’uomo, ma non ci viene da fuori, non ha oggetto, è solo un universo di a priori in base al quale noi pensiamo il mondo nella modalità della fantasticheria. Così, il Minotauro è dotato di una sostanza reale, ma solo dal punto di vista psichico; questi non avrebbe il potere di sovrastare il pensiero scientifico. All’idealismo kantiano del pensiero puro si aggiunge un altro idealismo – quello dell’immaginazione; precisamente, come nei suoi precursori, non esiste la paura, i mostri, il terrore, la caduta; questi sono reali solo per l’immaginazione. L’idealismo di Bachelard ci propone nuove categorie. Egli dice:

 

“Le rêve est avant réalité
le cauchemar avant le drame
la terreur avant le monstre
la nausée avant la chute
la chute crée l’abîme
avant que la fantôme ne parle, je lui
parle”

 

L’onirismo crea il suo mondo, la poesia lo esprime. È un pensiero assai seducente e fertile, che ha fornito a Bachelard il materiale per i suoi ultimi libri sulla fantasticheria e la poesia, con una potenza e una bellezza fuori dal comune. Ahimè non posso soffermarmi a dire, qui, dell’interesse che suscita il suo metodo, della ricchezza della sua immaginazione. In ogni sua pagina incontriamo intuizioni originali e metodi critici che la stessa critica letteraria dovrebbe meditare con profitto. Intuizioni che rappresentano i prolegomeni di un’estetica che, ponendo l’accento sulla facoltà onirica del poeta che sogna unito ai quattro elementi, mal dissimula il rifiuto dell’affettività, del discorso, della parola, della punteggiatura che essa assume, nella poesia, a vantaggio dei semplici elementi della certezza – “la triste certezza”, dice lui.  Il prototipo del suo universo poetico è la “frase éluardiana, priva di punteggiatura”, quella stessa frase che, nella sua estetica del “luogo comune”, Jean Paulhan (Les Fleurs de Tarbes) fa sua quale esempio di quel universo poetico che vuole “umiliare il linguaggio”. Forse avremo modo di ritornare su queste due estetiche, per vedere se la facoltà onirica di cui parla Bachelard ottenga il risultato previsto sull’immagine e la metafora o se al contrario questa onirizzi in tal modo la parola, la sintassi e il discorso che, in questo caso, non sarebbero più degli elementi di certezza ma, allo stesso modo dei luoghi comuni di Paulhan, riserve di energia (onirica), un linguaggio nel linguaggio. Ma, con ogni evidenza, l’estetica di Bachelard ricerca un assoluto che la poesia può attingere direttamente, con quella evidenza immediata che si colloca in seno al vasto pensiero estetico che echeggia da Rimbaud ai surrealisti.

Eppure Bachelard non attingerà alcun assoluto! Impossibile, per lui, trovare il riposo, la buona coscienza. Poiché, così come esistevano, nel pensiero scientifico, gli ostacoli epistemologici, Bachelard scopre in seno al sogno gli ostacoli onirici: “Gli incubi (afferma egli, in uno dei suoi ultimi corsi alla Sorbona), rappresentano il grande male umano. Il male viene dalle nostre notti. Lo psichismo è edificato male. Dobbiamo attingere una tecnica del sogno che abbiamo perduto”.

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Così, nel nuovo universo che Bachelard si è creato nella speranza di mettere termine all’inquietudine metafisica, al male, deve ancora fare ricorso alla morale e perpetuare il suo ruolo di esorcista. Perfino nel suo paradiso della fantasticheria, esiste un serpente; anche il sogno ha il suo peccato originale. Impossibile, dunque, continuare a fantasticare se prima non abbiamo pastorizzato il sogno dal terrore che crea il mostro, dalla nausea che crea la caduta, dalla caduta che crea l’abisso; esiste “una lotta tra quel che è terreste e l’aria”. Ed è qui che Bachelard, in quanto teologo ignaro di esserlo, riprende il tema fondamentale della caduta e ci propone la salute attraverso il disprezzo della materia e allo stesso tempo la valorizzazione dell’aria; manicheo, crede al bene e al male, ma in quanto pelagiano egli crede che sia in potere dell’uomo – e solo a lui – di vincere il male. L’uomo può. Ha il potere di vincere l’orizzontalità con l’ascesa verticale. Dopotutto, lui, non è forse l’autore della tecnica? Per quanto la poesia accolga con meno favore l’aria rispetto al fuoco, la terra o l’acqua, è necessario che essa si decida per la condotta “verticale”, quella dell’aria. Abbiamo bisogno di una tecnica del sogno, di una tecnica della poesia, di una tecnica, sempre e comunque. Dobbiamo addomesticare il sogno. Sì, esistono metodi per domare il mostro. Non sarà certo Bachelard a essere divorato dal Minotauro, è il Minotauro a essere addomesticato. E allora, a noi il riposo, la buona coscienza! Non dobbiamo fare altro che trovare e applicare correttamente il sistema coercitivo di cui ci ha già parlato Bachelard. Dopo averci rivelato, con sguardo limpido, l’istinto dell’animale predatore che scorre nella poesia di Lautréamont, egli conclude: “Per noi la scelta è compiuta. La vita deve volere il pensiero. Il lautréamontismo, allora, ci appare una forza di espansione da trasformare. Dobbiamo trapiantare sul lautréamontismo i valori intellettuali. Questi valori riceveranno incisività, audacia e fertilità, insomma tutto quel che è necessario per fornirci una buona coscienza, il piacere dell’astrazione, di essere uomo.” (199-200, Lt). Dobbiamo sognare, che si possa continuare a immaginare! – ma dopo aver trapiantato i valori intellettuali nel sogno e averlo privato di istinto, animalità e materia. Abbiamo bisogno di un sogno puro.

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Dopodiché, non riesco a immaginare cosa il pensiero scientifico potrebbe rimproverare a Bachelard. Al contrario vedo chiaramente le obiezioni che io stesso potrei sollevare contro di lui. Ma non sarebbe prematuro? Già nel suo L’Eau et le rêves, analizzando una pagina di Balzac, Bachelard scrive: “Come riconoscere più apertamente che la materia è dotata di un pensiero, di una fantasticheria e che essa non è limitata nel venire a pensare, sognare e soffrire in noi” (232). In effetti, come non riconoscerlo? Ma se la materia pensa, allora forse esistono altre cose, al di fuori di noi, che pensano? Il mostro verrebbe forse prima del terrore, il dramma prima dell’incubo, la caduta prima della nausea? Lo psichismo non sarebbe una monade sigillata ed essa potrebbe aprirsi ad altro da sé? Ma allora il viaggio non è ancora concluso. Addio riposo e buona coscienza! siamo in un mondo in cui le funzioni d’irrealtà portano alle realtà.

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Fino ad oggi Bachelard si dedicato al solo studio delle funzioni poetiche, ma resta la funzione mitica. Egli ci dice che la metafora è una versione ridotta del mito. Ma il mito sarebbe allora una metafora in grande? In una goccia d’acqua vi è il mare, ma il mare è forse altra cosa rispetto alla somma di un’infinità di gocce. E, dopotutto, è poi certo che la goccia d’acqua sia quella dell’oceano – in piccolo? I popoli primitivi sapevano distinguere bene tra sogno e sogno, tra il sogno ordinario e quello mitico, tra il sogno che non porta a nulla e quello che porta a…

A che cosa? Solo una metafisica del sogno potrebbe tentare di dirlo, ma sarebbe assai prematuro chiederlo a Bachelard. Per il momento egli si rifà a un criticismo del sogno, i suoi corsi e le sue opere non sono altro che prolegomeni a una critica dell’immaginazione pura; i suoi quattro elementi sono meri quadri formali nei quali l’immaginazione si produce e opera. E ogni criticismo si preoccupa del nostro riposo, della nostra buona coscienza, della passione per l’astrazione e l’essere uomo; si fa mille scrupoli per metterci al riparo da ogni accidente. Eppure Bachelard ci assicura che l’immaginazione rappresenta una delle forme dell’audacia umana, e canta il rischio per il rischio, il rischio privo di fine o ragione e ci invita a non smettere di sognare. È forse un’imprudenza aspettarci ancora, da lui, questa metafisica del sogno, di cui ci parla? Verrà il giorno in cui, dopo aver sacrificato la vita al pensiero e aver pensato contro il cervello, egli potrà pensare contro il “riposo” e contro la “buona coscienza”. Il giorno in cui si sarà libero dalle sue fobie; è inoltre tra coloro che hanno il potere di liberarsi dalle loro “passioni” [in greco]. Bachelard fa parte di quegli autori che non si rileggono, lui, che non si preoccupa di quel che ha pensato ma di quel che sta per pensare. Il suo pensiero è un moto dinamico su cui nessun Zenone potrebbe aver presa; la sua freccia vola, Achille raggiunge e supera la tartaruga. Il suo stile è quello della corsa. È ammantato da una straordinaria immaginazione creatrice, è libera e feconda – e un apriti sesamo, che sottomette alle sue metafore funzioni, rapporti, algebre, perfino metallo, acqua, fiamma o respiro. Mi propongo più che mai di seguire Bachelard da vicino, giacché egli reca in sé un mondo audace che non smette di produrre novità.

Benjamin Fondane

Cahiers du Sud, 1944, pp. 62 -72. (Poi pubblicato ne: Le Lundi existentiel, ed. du Rocher, Monaco, 1990, pp. 184-205). Traduzione italiana di Luca Orlandini

*Legenda degli acronimi: L’Eau et les Rêve (Eau), L’Air et les Songes (Air), entrambi apparsi presso l’editore J. Corti. Per gli altri libri di Bachelard: il Lautréamont (Lt, apparso presso Corti); La Psychanalyse du Feu (Feu, presso la N.R.F.); La Dialectique de la Durée (D.D., ed. Boivin); La Philosophie du non (Non, ed. Presses universitaires); e La Formation de l’esprit scientifique. Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective (Psy, ed. Vrin).

**In copertina: Henri Rousseau, “Zingara addormentata”, 1897

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