03 Maggio 2023

“Si affidò con tanta facilità ai sogni”. Lord Dunsany, lo scrittore amato da Lovecraft e Borges

H.P. Lovecraft fu talmente estasiato dalla lettura da ipotizzare una poesia, possibilmente ipnotica. Sortilegio verbale richiama sortilegio lirico, entro una stupefazione di specchi, si dirà. The Book of Wonder, raccolta di racconti esotici, estatici, fantasy, che fece subito canone, era uscito nel 1912; HPL pubblicò la poesia nel 1920. Per sommi capi, l’alambicco verbale di Lovecraft fa così:

“Le ore notturne si dileguano inascoltate
e tra le grate si consumano le braci;
vaste ombre passano in marcia
silente cavalcata di demoni…
una stregoneria fatale benda
la volontà della mente e il cuore che arde.
La stanza solitaria non esiste più –
appaiono in grandiosa foggia
templi e città sospese a mezz’aria
e glorie abbaglianti – sfera su sfera”.

L’autore del libro – che vasto influsso avrà sulla mitologia dell’orrido di HPL – si chiamava Lord Dunsany, o meglio, per esteso: Edward John Moreton Drax Plunkett, 18mo barone di Dunsany. Il castello di famiglia, Dunsany Castle, nella contea di Meath, Irlanda, risale all’anno mille, è di stile anglonormanno, pare tratteggiato da un romanziere gotico. Nei meandri di Caisleán Dhún Samhnaí – così in gaelico – il fatidico lord – conquistò il titolo alla morte del padre, appena ventenne, nel 1899 – obbligò la bella Beatrice Child Villiers, naturalmente lady, moglie dallo sguardo languido, che oltre a dargli un figlio gli faceva da segretaria, ribattendo a macchina i racconti che con fluente dovizia sgorgavano dalla mente del marito. Nato a Londra, educato a Eton, parente dell’orientalista e viaggiatore Sir Richard Burton, naturalmente Lord Dunsany aveva case a Dublino e nella City.

Partecipò attivamente all’Irish Literary Revival, finanziò le attività dell’Abbey Theatre, si tenne ad amichevole distanza da William B. Yeats: i poeti, gli esoteristi, gli intellettuali tout court lo insospettivano. Tuttavia, per la mitica Cuala Press, Yeats medesimo curò nel 1912 una Selections from the Writings of Lord Dunsany: parlando del Lord, citò Edgar Allan Poe, Thomas De Quincey, l’onnipresente William Blake. Sfrondata dai consueti fuoripista di Yeats, l’introduzione coglie il punto centrale del mondo ‘fantastico’ di Lord Dunsany:

“Questi racconti hanno per tema il perpetuo trapasso di uomini e dèi e metropoli al cospetto di un potere misterioso, che a volte ha il nome di qualche innominabile dio, altre volte è semplicemente il Tempo. I suoi avventurieri, che percorrono fiumi e deserti e ascoltano nomi altisonanti, mai uditi prima, non fanno ritorno senza un racconto che non accenni alla vaga ribellione contro quel potere; ogni cosa bella che hanno visto assume il pathos della fragilità”.

Geniale co-creatore del fantasy, Lord Dunsany non ha soltanto forgiato la fantasia di Lovecraft – in The Gods of Pegāna, del 1905, istituisce un olimpo privato di brutale bellezza –: ha ispirato le creazioni, più ardite, di Tolkien. Jorge Luis Borges lo adorava: il libro numero 29 della “Biblioteca di Babele”, la memorabile collana curata per Franco Maria Ricci, porta il nome di Lord Dunsany, pubblicato con un’antologia di testi, Il paese dello Yann (raccolto nel 1910 in A Dreamer’s Tales, era il racconto prediletto da Yeats). Laconica la ‘quarta’ vergata da Borges:

“Nel nostro secolo di noti scrittori impegnati o di cospiratori che ansiosamente ricercano il proprio cenacolo, e vogliono essere gli idoli di una loro setta, è insolita l’apparizione di un Lord Dunsany, che ebbe molto del giullare e si affidò con tanta facilità ai sogni. Non evase dalle circostanze. Fu un uomo d’azione e un soldato ma, innanzitutto, fu l’artefice di un beato universo, di un regno personale, che fu per lui la sostanza intima della sua vita”.

Borges tocca un punto centrale della natura di Lord Dunsany. Lo scrittore che si barricava nei suoi sogni in barrique era, anzitutto, uomo d’azione. Servì come sottotenente della Coldstream Guards durante la seconda guerra boera, in Sudafrica; partì volontario durante la Grande Guerra, nei ranghi dei Royal Inniskilling Fusiliers, con i gradi di capitano; si mise in mostra durante i disordini della Pasqua del 1916, a Dublino, ricevendo ferite. Nella Seconda guerra, si impegnò con la casacca della Irish Army Reserve. Eccelleva nell’arte della pistola.

Negli anni, orientò il suo interesse per la lotta e la strategia in ambito scacchistico. Era un capace scacchista: ideò problemi di scacchi per il “Times”; nel 1942 inventò il “Dunsany’s game”, una variante degli scacchi: in sostanza, il nero gioca con i pezzi comuni, il bianco lo sfida con 32 pedoni. Per anni fu presidente dell’Irish Chess Union. Per dirla in breve, gli piaceva immaginare l’inimmaginabile. Scrisse tantissimo, di tutto – oltre novanta volumi tra romanzi, raccolte di racconti, testi teatrali, poesie –, tra cui un’autobiografia in tre tomi; nel 1998 è stato pubblicato il suo ricco epistolario con Arthur C. Clarke, l’autore di 2001: Odissea nello spazio. Nel tempo libero, traduceva Orazio.

Coltivava la nobile arte del diletto e del dilettantismo: tutto ciò che faceva, gli riusciva bene. Per non credere nell’invisibile, si inventò mondi inesistenti; esaurì i modi per dire fantastico. Vasta parte delle sue opere – aristocratico vezzo – uscirono postume: tra cui il breve racconto, A Talk in the Dark, che qui si pubblica.

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Un dialogo nell’oscurità

Era la sera tarda di una primavera decisamente precoce in un sobborgo di Londra, dove un giardino correva dalla porta sul retro di una casa giù, fino alle anse di un piccolo ruscello; e una bambina, che avrebbe dovuto trovarsi già a letto, era invece sgusciata fuori non al limitare di quel giardino, ma oltre il ruscello, fino al terrapieno che si ergeva al di là di esso, e se ne stava seduta su uno di quei binari luccicanti che lo cingevano. Nel crepuscolo, sentì il sospiro del vento tra gli alberi; ma non vi erano alberi là, e non ve n’erano nei paraggi, ad eccezione di tre lillà che costeggiavano il giardino alle sue spalle, d’un verde abbagliante in primavera, e di giovani alberelli che avevano sconfinato sul terrapieno, e che nessuno aveva tagliato. Sapeva, quindi, che quel suono doveva provenire da uno spirito, ed era così. Era lo spirito della foresta che infestava il crepuscolo, così lontano dalla sua casa. Lentamente, il sospiro tra quegli alberi che non erano lì crebbe fin quasi a diventare un suono, che inequivocabilmente diceva: “Shh! Shh!”

“Chi sei?” domandò la piccola.

Nella quiete della sera le parole si udirono chiaramente, e risposero: “sono lo Spirito della Foresta”.

La bambina non si stupì, poiché il suono di tali flebili parole le era parso somigliare, fin dal principio, al parlare di uno spirito. “Ma cosa ci fai qui?” gli domandò.

“Osservo il mio reame,” rispose la foresta

“Qui?” incalzò la bambina. “Ci sono solo case, qui.”

“Il mio legittimo reame,” continuò la foresta.

“Era tutto tuo?” domandò lei.

“Certamente”.

“Quanti anni fa?” chiese ancora.

“Cosa sono gli anni?” domandò la foresta.

“Non lo so esattamente,” disse la bambina.

“Neppure io”.

Da molto più lontano di quanto la bambina potesse udire, giunse lo sbuffo del treno, ma la foresta poteva udirlo chiaramente, poiché tutto ciò che è immortale conosce i propri amici e nemici, e li sente arrivare entrambi da grandi distanze.

“Torna a casa. Torna a casa”, disse alla bambina.

“Perché?” domandò lei: non le era mai stato permesso di sedersi sui binari, ed essere lì le dava un gran senso di libertà.

“Perché queste cose sono mie nemiche. Non devi toccarle”, le rispose la foresta.

“Ti hanno fatto del male?” chiese la bambina

“Torna a casa”, le ripeté. “Sono loro che mi hanno costretto all’esilio.”

“Sono più forti di te?”

“Per un po’” disse lo spirito. “Ma ora vai.”

Mentre lo sbuffo del treno diventava un ronzio sordo, e la terra cominciò a vibrare sotto di esso, la voce dello spirito parve più debole, come se temesse quella forza che lo aveva spinto in esilio, e le sue parole sprofondarono in un mormorio, benché ancora ben udibile dall’orecchio di un bambino.

Ho raccontato troppo poco per lasciar intendere che tipo di spirito fosse, ma la bambina era innocente quanto basta per essere un ottimo giudice, e riconobbe che quello era uno spirito buono. Perciò fece come lui le aveva detto e si alzò da quelle rotaie scintillanti. Il treno si fece ancora più vicino, ed il ronzio si fece ruggito. “È uno dei tuoi nemici?” chiese la bambina.

Questa volta dallo spirito non giunse alcuna risposta. Così si calò giù dal terrapieno attraverso i giovani frassini, e si voltò verso la sponda del torrente per chiamare di nuovo il suo amico: ma in quel momento le luci divamparono nella sera ed il treno sfrecciò con la sua fila di finestrini splendenti, gettando bellezza nel crepuscolo, ma facendo fuggire piccoli segreti dai luoghi pieni d’ombre dove si nascondevano, come l’amore tra un bambino e uno spirito. Le foglie dell’autunno passato si destarono dal loro sonno e gli corsero dietro; quando anche l’ultima delle foglie fu esausta, la bambina parlò ancora allo spirito:

“Se n’è andato,” gli disse.

“Oh,” fu la risposta

“Hai paura di lui?” chiese la bambina.

“Veramente no” rispose lo spirito della foresta.

“Ma hai detto che è più forte di te” continuò, benché le fosse stato insegnato di non controbattere.

“Per un po’” replicò la foresta. “Solo per un po’.”

“Mi spiace che ti abbiano costretto in esilio,” disse lei.

“Tornerò” disse la foresta.

“Quando?” gli chiese la bambina.

“Shh” le rispose “Shh. È un segreto.”

E tutta l’aria risuonò all’unisono con lo shh della foresta, persino i giovani alberelli, e quel suono si propagò nella sera.

“Quando?” domandò di nuovo la bambina.

Di nuovo, quell’immenso “Shh”.

Non so dire se lo spirito della foresta si sarebbe convinto a rivelare il suo segreto: proprio in quel momento la bambina fu trovata, presa, riportata a casa e, mi spiace dirlo, sculacciata.

Lord Dunsany

*La traduzione è di Martina Fabbri. Il racconto, “A Talk in the Dark”, è tratto da “The Ghost in the Corner & Other Stories”, a cura di S.T. Joshi e Martin Andersson, pubblicato da Hippocampus Press (NY) nel 2017

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