Cambiamento climatico, guerre, disuguaglianze economiche, terrorismo, crisi esistenziale. L’Occidente va a fuoco e gli occidentali, disorientati, viziati dalla promessa di un progresso senza fine, non sanno da che parte girarsi. Nel dubbio, si scelgono l’indifferenza, l’apatia, e uno stile di vita pacificamente consumista. Sedando quella rabbia che potrebbe invece innescare il cambiamento.
Nel mezzo di quest’estate bollente ne abbiamo parlato con Kalle Lasn, co-fondatore e editore capo della rivista canadese Adbusters, che nel 1989 ha intrapreso una crociata contro la pubblicità, l’editoria mainstream, e le Big Corp che continua tutt’oggi. Con la rivista, da più di trent’anni, e da questa settimana, con l’uscita di un nuovo libro.
Partiamo dal contesto. Cosa vede guardando a occidente fuori dalla finestra della redazione?
È fantastico. Siamo nel mezzo di una crisi esistenziale, a partire dal cambiamento climatico. Sappiamo che i paesi più ricchi hanno un impatto gigantesco sul pianeta, sappiamo di dover fare qualcosa, eppure per qualche ragione è come se la questione fosse invisibile. Siamo tutti in una fase di negazione collettiva, ci godiamo i nostri caffè da asporto, le nostre macchine e i frigoriferi e nel frattempo fuori dalla finestra fa sempre più caldo, il mondo va a fuoco e sembra che potremmo non avere un futuro. Ma il consumo deve continuare.
Adbusters è nata per combattere questo tipo di consumo, si direbbe per risvegliare le coscienze. Ci può raccontare come avete fondato la rivista?
Al tempo eravamo disgustati dalla televisione commerciale. Trentatré anni fa internet non esisteva e la televisione era il mezzo di comunicazione sociale dominante. La tivù ti insegnava come avresti dovuto vivere, proponeva il modello che la società poi seguiva pedissequamente. Il palinsesto era infestato dalle pubblicità, facevano il lavaggio del cervello ai ragazzi, li crescevano promuovendo soltanto quei valori che li avrebbero resi perfetti consumatori. In particolare, ci siamo incazzati per uno spot promosso da una compagnia forestale qui nel nord est del Pacifico. Stavano tagliando alberi a un ritmo senza precedenti e a quel punto rimaneva appena il 17% della foresta originale. La gente ha iniziato ad innervosirsi per questo, e allora la compagnia ha diffuso una pubblicità in tivù per sedare la rabbia. Lo slogan era “avete foresta per sempre”. Sapevamo bene, invece, che le foreste a livello globale erano già in una situazione molto problematica. Allora abbiamo creato una nostra pubblicità che contrastava la loro narrazione, siamo andati all’emittente locale e abbiamo chiesto di pagare per mandarla in onda. Si sono rifiutati, dicendo che era propaganda. È stato un momento di svolta per me: ho capito che c’era qualcosa di sbagliato in questa nostra società libera se una compagnia privata poteva comprare quanto spazio televisivo voleva per raccontare la sua versione della storia, ma un privato cittadino canadese non poteva entrare in un’emittente, mettere dei soldi sul tavolo e dire “ho qualcosa da dire anch’io”. Quindi abbiamo fondato Adbusters, per raccontare la nostra versione della realtà.
E dal punto di vista personale come ha vissuto questa esperienza?
Quello che hanno fatto è stato antidemocratico. Mi ha toccato particolarmente perché io sono estone, sono nato in Estonia nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra l’Unione Sovietica controllava ogni cosa nel paese e nessuno poteva schierarsi pubblicamente contro l’operato del governo. Trent’anni dopo eccomi qui, in Nordamerica, “terra dei liberi e casa dei valorosi”, a scoprire che nemmeno qui ci si può opporre, ma questa volta alle imprese private. È stato un déjà-vu della peggior specie.
Prima ha menzionato la rabbia. Oggi è spesso dipinta come un sentimento negativo in una società che ci vuole sempre felici…
Il punto di fondo è che siamo in mezzo a una crisi esistenziale – non abbiamo futuro, i conti non tornano. Se continuiamo con questa ordinaria amministrazione non c’è speranza di superare il XXI secolo. Eppure, per qualche ragione non c’è abbastanza rabbia. Soprattutto nelle generazioni più giovani: sono terrorizzati di essere “cancellati,” hanno così paura di dire quello che pensano veramente… Nella nostra società non c’è ricompensa per chi contrasta il pensiero dominante. Tuttavia, se vogliamo avere un futuro, se vogliamo superare il XXI secolo e risolvere il problema del cambiamento climatico e quello del sistema economico e riprenderci il potere dalle multinazionali per costruire una nuova estetica e un nuovo modo di vivere, amare e pensare su questo pianeta, allora dovremo iniziare ad arrabbiarci di più. Dovremo trasformare alcune di queste anime gentili in anime rudi. Dobbiamo creare un nuovo tipo di essere umano, uno che abbia il fegato di reagire e di vincere le battaglie planetarie del nostro tempo.
Ad Adbusters per promuovere questi messaggi usate spesso il linguaggio tipico del marketing e della pubblicità, rovesciato. Rinnovandovi continuamente, proprio come fa la comunicazione commerciale. Come si fa a comunicare così efficacemente? Come si organizza il cambiamento?
L’approccio dev’essere plurale. Ogni essere umano è diverso, c’è chi vuole solo reagire scrivendo una bella poesia e diffondendola su internet, chi vuole uscire e affiggere un manifesto, e chi vuole inventarsi delle anti-pubblicità o anti-meme e farli diventare virali come facciamo noi. Ci sono milioni di modi per fare attivismo. Ultimamente mi sono chiesto perché noi esseri umani – intendo soprattutto gli umani ricchi che vivono in Europa, Giappone, Nordamerica e Australia – siamo così inutili. Perché siamo tanto timidi? Non riusciamo ad arrabbiarci abbastanza per fare qualcosa. C’è qualcosa che non torna. Da un po’ abbiamo lanciato una campagna ad Adbusters che si chiama Fuck It All Fridays. Vogliamo che il venerdì si trasformi in una giornata di azione. Credo che se riuscissimo a convincere sempre più persone a uscire venerdì dopo venerdì e ad arrabbiarsi si potrebbe creare un movimento di giovani, e ci sarebbero così tanta rabbia, potere e folle attivismo, che forse ci si potrebbe opporre allo status quo. Se riusciamo a farlo, e a creare un movimento che inizi a parlare e a spaventare lo status quo, a spaventare i leader mondiali e i politici che gestiscono il sistema globale nei nostri paesi, allora, un po’ alla volta, possiamo convincere i nostri leader a fare quello che vogliamo: dichiarare un’emergenza climatica globale, smettere di dare sussidi alle compagnie petrolifere e riprenderci un po’ di potere dalle corporazioni criminali e combatterle e metterle completamente fuori gioco se infrangono la legge.
Di recente abbiamo aggiunto ancora qualcosa. Chiediamo a tutti coloro che vogliono partecipare ai Fuck it all Fridays di lavorare anche su sé stessi. Diciamo a chiunque voglia unirsi al nostro movimento – lo chiamiamo The Third Force –: ogni venerdì mattina mettetevi davanti allo specchio, toglietevi i vestiti, e guardatevi per cinque minuti. Guardatevi profondamente, con una sorta di mente vuota e zen. Cinque minuti sono tanti quando si guarda il proprio corpo nudo. Prima di scendere in strada e iniziare a fare attivismo, pensate alla vostra vita: state bene? State consumando troppo? Siete troppo deboli e timidi? Avete abbastanza rabbia dentro di voi per fare davvero la differenza? Vogliamo che le persone guardino prima di tutto a sé stesse, e poi che si emozionino, vadano nel mondo e inizino a cambiarlo. Lo faccio da circa un anno e ha cambiato completamente il mio modo di sentire e pensare l’attivismo.
Le aziende private possono avere un ruolo in questa lotta?
Penso che le aziende non dovrebbero avere alcun ruolo – so che alcune aziende fanno cose buone, ma non credo che le aziende debbano controllare la nostra cultura, non credo che la Pepsi Cola debba vendere più Pepsi schierandosi dalla parte degli attivisti. Penso che le aziende debbano occuparsi di produrre prodotti che la gente vuole e magari, in modo semplice, dirci quali sono questi prodotti e suggerirci di comprarli. Un certo livello di pubblicità va bene, purché non sia un ricatto emotivo, purché non abbia l’effetto emotivo profondo che ha ora. Penso che dovremmo togliere alle aziende la pubblicità e il suo potere di lavaggio del cervello, dovremmo controllare il modo in cui usano la pubblicità e non dovremmo permettere loro di dettare le regole del gioco. Sono assolutamente disgustato da come abbiamo permesso alle multinazionali di diventare così grandi e forti così che ora controllano l’agenda del cambiamento climatico e molti aspetti della nostra vita.
Ci sono stati diversi momenti nella storia recente in cui sembrava si stesse sfiorando la rivoluzione. Gli anni ’70, ma anche Genova nel 2001, il 2011… Ma poi lo status quo è tornato a prevalere. In questo clima di apatia, è possibile tentare ancora?
Dovete rendervi conto che se siete cresciuti in uno dei Paesi ricchi del mondo e avete guardato un po’ di tivù e siete stati un po’ su internet, allora vi trovate in una bolla, una specie di bolla capitalistica. E dal momento in cui sei un bambino, solo guardando alcune delle pubblicità, guardando i manifesti e il modo in cui sono progettate le nostre città e così via, in qualche modo sei stato reclutato – hai già visto centinaia di pubblicità ogni giorno e questo accade da quando eri piccolo, da prima ancora che tu fossi in grado di pensare chiaramente – eri già stato sottoposto a un lavaggio del cervello. Quando poi si diventa adolescenti, quando si diventa adulti, la mente è già fottuta. Il lavoro consiste proprio nel cercare di liberarsi.
Sì, nel 1968 c’è quasi stata una rivoluzione mondiale, e poi durante Occupy Wall Street nel 2011 è sembrato che per un po’ ci fosse un’altra possibilità di rivoluzione mondiale, che i giovani si sollevassero e creassero un nuovo mondo. Ora penso che abbiamo bisogno di fare un terzo tentativo – tre è il numero perfetto. I giovani del mondo, di fronte a una crisi esistenziale, devono sollevarsi e cambiare il mondo – questo è ciò per cui combatto.
Cosa significa lavorare nella stampa indipendente in un mondo così commerciale?
Gestire una rivista senza pubblicità è possibile: lo facciamo da trentatré anni. Penso che ci siano molte persone che amano l’autenticità di una rivista senza quel tipo di influenza commerciale, sono stanche di riviste che dopo ogni storia pubblicano diverse pagine di pubblicità (persone che cercano di venderti qualcosa). In questo periodo siamo particolarmente entusiasti perché negli ultimi cinque anni abbiamo lavorato a un libro intitolato Manifesto for World Revolution, in cui parliamo della tossicità della pubblicità e di come eliminarla: è uscito a luglio. Speriamo che diventi un bestseller underground. Oltre alla rivista, vogliamo dare alle nuove generazioni alcune strategie per vincere questo gioco globale, per creare una cultura che sia sostenibile e possa farci superare il XXI secolo.
*L’intervista è a cura di Matilde Moro