11 Marzo 2022

Storia di Kabris, il marinaio francese che diventò il principe dei cannibali

Il primo occidentale, l’esploratore americano Joseph Ingraham, vi aveva messo piede pochi anni prima. Nuku Hiva è la perla delle Marchesi, un’unghia rocciosa in mezzo al pacifico, splendida di giungle. Dicevano che i rari abitanti, stirpe di eleganti guerrieri, fossero cannibali. Quando preferì sbarcare e dileguarsi a Nuku Hiva, il ragazzo aveva compiuto – pare – diciotto anni. Nel Précis historique et véritable impresso a Ginevra nel 1820, dice di chiamarsi Joseph Kabris, natif de Bordeaux; il racconto è rude, scheletrico, efficace: “A quattordici anni lasciai la mia città natale per imbarcarmi a bordo di un corsaire di Stato, Le Dumouriez, comandato dal capitano Renault. Pochi giorni dopo la partenza, catturammo lungo le coste spagnole un galeone, carico di piastre; i fatti furono terribili: non soltanto per le cannonate, ma per la voracità dell’assalto; per primo uccidemmo il capitano della nave”. A sua volta, i corsari francesi sono fermati da un bastimento inglese, e tradotti in carcere. Da Porthsmouth, dove è in arresto, il giovane Kabris, nome-dedalo e vita da leggenda, in equilibrio tra Robert Louis Stevenson e Franz Kafka, è il maggio del 1795, accetta di imbarcarsi per un viaggio nel Pacifico, sul “London”. Del suo nome autentico – probabilmente, Jean-Baptiste Cabry – abbiamo perso le tracce; lui, sputando in faccia al proprio tempo, si alleò a un inglese, alle Marchesi diserta, s’inoltra tra i lignaggi boschivi di Nuku Hiva. Più tardi, dirà – mentendo – di aver fatto naufragio.

La scelta del ragazzo è un azzardo: pare che i Tei’i, gli isolani, siano cannibali. In realtà, Kabris ha il carisma dei fuggiaschi, degli eroi capovolti: gli isolani si innamorano di lui, lui si unisce alla figlia del re, ed è il re a incidere sul suo corpo i tatuaggi sacri della sua gente. Sulle palpebre scava il segno esoterico, il sole; Kabris è eletto giudice del regno. Il francese eccelle nel nuoto, il corpo spaura per bellezza, è un lottatore formidabile. Ha l’audacia di chi dimentica. Approdato a Nuku Hiva nel 1798, vi resterà fino al 1804: quando Adam Johann Christoph Adolf von Krusenstern, nobile baltico, esploratore per la Marina Imperiale Russa, incontra Kabris nel suo lungo viaggio nel Pacifico, descrive un ragazzo del tutto integrato con i ‘selvaggi’, che parla un po’ in inglese, ha dimenticato quasi del tutto la propria patria e la propria lingua. Di Bordeaux ha ricordi palustri, enigmatici, “Tante candele, qualche violino, ragazze ben vestite”. L’ammiraglio lo chiama Cabri; quell’incontro, probabilmente, raffina i sogni di Kabris.

Il 18 maggio del 1804 il ragazzo s’imbarca sulla nave russa – volontariamente?, costretto? –, atterra in Kamčatka, nell’Estremo Oriente Russo, la terra della lince, del gelo, dell’aquila reale e della tigre bianca. Da solo, senza conoscere il russo, attraversa la Siberia per arrivare a San Pietroburgo. Non fatica a trovare amici: i tatuaggi che ricoprono il suo corpo, mai visti prima, incutono timore, e lui continua a dire di essere il re di un’isola in mezzo al mare, il femore di un dio oceanico. La sua fisicità spaventa e attrae. Kabris riuscì ad affascinare lo zar Alessandro I, non alieno alle stranezze, cultore di vari esoterismi, che lo volle a corte, lo fece studiare. D’un tratto, il corpo di Karbis – prima ancora dei suoi rovinosi ricordi – diventò materia di studio: il marinaio di Bordeaux, il disertore, viene mappato, disegnato, entra nei libri di antropologia, nei nuovi, moderni manuali geografici.

In Russia sposò una francese, Ariane; nel 1817 rientrò in Francia. Anche Luigi XVIII ricevette Kabris: fu più sbrigativo e accordò al concittadino di ritorno dal Pacifico una somma di 300 franchi. Per guadagnarsi da vivere, Kabris indossa le vesti di Nuku Hiva, va di città in città a raccontare la sua storia, il viso, maculato di tatuaggi, non smette di affascinare, il copricapo, alto e adorno di piume, fa sorridere. Spesso urla, agitando una lancia esageratamente lunga. Scrive le sue memorie, affrettate, fragranti. Più che altro, una allucinata nostalgia gli mina il cuore; il Précis è aperto da una poesia dedicata all’“amabile sposa”, abbandonata:

“A cosa mi costringe la vita!
Ah! Benedirò la morte perché
Il mio cuore, a te donato, dolce fiamma,
È sedotto dal nulla dei deserti.
Un felice amore, l’anima in pace,
Sono i tesori dell’Universo.

Europa, Francia, la mia patria
Da troppo tempo dimenticata,
Fonte di sventura infinita:
Guido il mio fato verso di te.
Di un Re il carisma, sulla terra
Nulla è più dolce del sacro
Titolo di padre, e esserti marito”.

Diceva di voler tornare alle Marchesi, di essere il re di Nuku Hiva. Aveva acquistato dei moderni attrezzi agricoli da importare nella sua isola. Morì a Valenciennes, il 23 settembre del 1822, a 42 anni; il sole scintillava sulle sue palpebre: cos’altro avrebbe dovuto confessare? Christophe Granger ha vinto nel 2020 il Prix Femina Essai per Joseph Kabris ou les possibilités d’une vie, la biografia del marinaio francese che si scoprì re alle Marchesi e attraversò la Russia. Il libro torna per Flammarion, quest’anno, due secoli dopo la morte dell’enigmatico Kabris. Si mise in tasca il Pacifico e la Siberia, fece del suo corpo una mappa dei miti australi, la città lo frustrava: ambiva alle giungle.

Vent’anni dopo la morte di Kabris, seguendo le sue rotte, un marinaio americano di vent’anni con la testa piena di fantasie, Herman Melville, molla l’“Acushnet”, su cui era imbarcato, e con il compagno Richard ‘Toby’ Greene s’inoltra nei recessi di Nuku Hiva. Il primo romanzo, Typee, pubblicato nel 1846 a New York da Wiley and Putnam, racconta l’esito di quella clamorosa estate nel Pacifico; non è privo di esotismi da Eden rinvenuto in un altrove di immacolata violenza: “Un silenzio solenne regnava ovunque e io temevo di romperlo, quasi che una parola potesse dissolvere l’incanto del fiabesco paesaggio. Lungo tempo rimasi collo sguardo che spaziava in tanta fascinosa bellezza, dimentico della mia situazione…”. Se Melville, Thoreau, Ruskin, il Tolstoj dei Cosacchi criticano il ‘sistema’ occidentale con furore d’intelletto, Kabris vive l’eversione, è puro corpo poetante. Chissà se qualcuno, a Nuku Hiva, guardando Melville, si ricordò di Kabris, lo straniero venuto dal mare; chissà se la moglie lo ornava ancora di lamenti.

**

Più tardi, quando la storia della sua vita sarà narrata senza sfumature leggendarie, secondo la nitidezza dei fatti, asciutti e precisi, questo momento e questo luogo saranno quelli della fine: Valenciennes, 22 settembre 1822. Era la bella stagione, da dieci giorni alcune bancarelle colorate avevano preso possesso della piazza. La tenda di Joseph Kabris era piccola, con un breve palco, cinto da pannelli colorati; un’insegna bianca tentava di rendere attraente lo show: “Il principe selvaggio”, era scritto. Ogni giorno, dalle 14 alle 20, in cambio di pochi denari, quell’uomo mostrava il suo corpo e raccontava la sua storia.

Per lo più, la partecipazione era scarsa. Quella domenica, invece, il 22, il pubblico era piuttosto nutrito. Spiccava il bibliotecario della città, un gentiluomo in giacca nera. Aveva ammirato Kabris durante la settimana, rammaricandosi che “un personaggio di tale importanza è tra le mura della nostra città, ma pochi ne sono a conoscenza”. Voleva registrare la sua vita in ogni dettaglio. Nella tenda, Kabris era solo, tozzo, seminudo, la testa ornata da un enorme copricapo di piume, indossava una gonna di corda. Un colletto, roso dal tempo, sferragliava sul suo petto. Il corpo era ricoperto da una moltitudine di tatuaggi, di raffinata fattura. Il viso era segnato da un rettangolo regolare, dipinto, che pareva sfigurare il suo sguardo. Molto tempo fa, quei segni avevano fatto di Kabris la curiosità principale del suo Paese. Le cose erano cambiate. La voce bassa, i gesti tesi, l’impazienza perché quella fatica passasse. Di solito, correva lungo il piccolo palco con una lancia, con aria truce. Non scalciava, artigliando l’aria di urla, non faceva più strane evoluzioni, non ne aveva più voglia.

Cominciava dicendo che era nato a Bordeaux intorno al 1780. Era stato marinaio, da ragazzo, prima di essere catturato dagli inglesi. Si era imbarcato, a Londra, su un cargo che andava nel Pacifico; aveva visto il mondo: Cadice, il Perù, le Marchesi, la Kamčatka, Parigi, Mosca, San Pietroburgo, Calais, Ginevra. Raccontava di essere stato accolto nelle corti di mezza Europa: aveva dialogato con il re di Francia e con lo zar Alessandro I, aveva imparato molte lingue e, molto tempo prima, aveva dimenticato la propria. In una data incerta, forse nel 1795, la sua nave, una baleniera, era naufragata: si era ritrovato su un’isola di cui non conosceva nulla. Era Nuku Hiva, una delle Marchesi, poco nota alle mappe occidentali: lì la sua vita cambiò completamente.

Al pubblico, Kabris descriveva la sua vita tra i ‘selvaggi’, dove la superstizione governa ogni cosa, si ricorre alla stregoneria per uccidere il nemico, ci si impegna in guerre memorabili e spaventose, il cui esito garantisce la sovranità di una tribù. Parlava di carestie, di indigeni che assalgono i vicini divorando le loro carni. Eppure, proprio lui, Kabris, era diventato uno di loro. Il “re dell’isola” lo proteggeva, lo aveva eletto “gran giudice”, gli aveva dato in sposa la figlia. Il re gli aveva inciso quei tatuaggi. Kabris aveva adottato i gesti e i gusti degli abitanti delle Marchesi, viveva come loro, in mezzo a loro, lì aveva fondato la sua casa, la sua famiglia.

A questo punto, invariabilmente, Kabris si interrompeva, assumendo un’aria più severa. Un giorno, dopo nove anni, una nave russa era venuta a strapparlo da quella vita. La spedizione Krunsenstern… Kabris aveva accolto gli “stranieri”, li aveva accompagnati nell’isola, si era offerto come interprete con gli isolani. Una sera, gli avevano dato da bere, invitandolo a bordo, per portarlo con sé come un trofeo. Lo spettacolo giungeva ora all’apice. Kabris diceva di aver perso tutto, di aver lottato per tornare dalla moglie, dai figli, alla sua isolata nobiltà. Taceva sulle imprese in Russia. Intorno al 1817 – non memorizzava mai le date – cominciò l’esistenza raminga dell’uomo di spettacolo, di fiera in fiera, rivivendo la sua vita passata: in questa, non contava nulla, profugo a tutto. Credeva di poter riprendere l’esistenza perduta. Quel giorno, a Valenciennes, si era lamentato con il bibliotecario: “avrei voluto intrattenermi più a lungo con lui, ma era molto malato, soffriva fino a non poter parlare troppo”. Quella notte fu chiamato un medico. La salute di Kabris era in bilico. Morì il giorno dopo, alle 5 del mattino; aveva 42 anni.

Christophe Granger

 

Gruppo MAGOG