In un passo dell’Opera al nero, che costituisce il lato lunare di Marguerite Yourcenar, scrittrice di altre epoche, dell’altrove, Zenone afferma, con sussurro sibillino, “Chi sarebbe così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?”. Forse è insensato morire – se sapessimo cosa significa la morte –, ma con prigione Zenone intende il proprio corpo – chi lo ha esplorato, per davvero? – e il proprio mondo, temporale, temporaneo, corrotto, la Terra. Con il titolo La tour de la prison – in Italia pubblicato da Bompiani, nel 1991 – Marguerite Yourcenar intendeva costruire il romanzo dei propri viaggi, autentici, astrali. Comincia a comporre il libro nel 1983, organizzando il regesto dei suoi vagabondaggi in Alaska, California, Kenya, India… Inizia dal Giappone, scrivendo di Basho sur la route. Basho, genio nell’arte dell’haiku, ha fatto dell’osservazione parziale e transitoria, del vagabondaggio senza meta, dell’etica dell’eterno istante il proprio carisma. Il mondo fluttua e gli uomini, ombre di un sogno inavvicinabile, di cui è ignota la trama e la ragione, si affannano a costruire sull’inconsistente. Aveva da poco pubblicato Come l’acqua che scorre, testo di definitiva bellezza; si concentrò nel libro postumo, Quoi? L’éternité. Così, “Il giro della prigione” – di cui qui, in nuova traduzione, si presentano le prime pagine – restò incompiuto, scritto sull’acqua, edito per la prima volta da Gallimard nel 1991. Era stata in Giappone nel 1982, da ottobre a dicembre; in una delle sue antiche Novelle orientali si era avvicinata a quel luogo velato, scrivendo dell’Ultimo amore del principe Genji. “Impiegò tre giorni a raggiungere l’eremitaggio situato in lande assai selvatiche… In quella solitudine… quell’uomo raffinato poté finalmente gustare, fino a saziarsene, il lusso supremo che consiste nel fare a meno di tutto”. A Mishima aveva dedicato un saggio pieno di estasi: ne adorava il vuoto, partecipandovi. Una certa feroce levigatezza è propria alla Yourcenar; una scrittura fatale, giapponese, infine.
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Il giorno e la notte sono i viaggiatori dell’eternità… Quelli che guidano una barca o conducono tutto il giorno il cavallo sui campi fino a soccombere per la vecchiaia, viaggiano continuamente. Molti uomini dei tempi antichi sono morti per strada. Anch’io sono stato preda del vento, che muove le nuvole, afferrato dal desiderio del viaggio.
Così, verso la fine del XVII secolo parla Basho, il poeta giapponese che vaga per le province del Nord sui suoi sandali di paglia (quanti sandali usati e lasciati sul bordo della strada durante un tale viaggio!), indossando un cono di vimini, copricapo di monaci vagabondi e pellegrini. Sulla strada, visita il tempio Chûson e il suo santuario, d’oro, popolato di statue preziose, che ancora oggi fanno sognare ai pellegrini gli splendori della Terra Pura. Le miniere della regione alimentarono l’arcana gloria dei Fujiwara; esaurite da secoli, hanno tuttavia incendiato il miraggio di Cristoforo Colombo che nel Cipango (vale a dire il Giappone) aveva uno dei suoi obbiettivi, certo di trovarlo nel Mar dei Caraibi. Aveva soltanto sbagliato oceano. Gli abiti di gala che l’ammiraglio aveva portato con sé, in vista di un incontro con l’Imperatore, il Grande Daimyô, come era detto, o il Grande Dairi, non gli servirono. Antiche miniere e navigatori d’oltremare: ignora tutto questo, Basho, l’uomo che più di ogni altro ha vissuto l’eterno in ogni istante. Non che disdegni i tempi passati: un poeta tanto installato nell’istante, sa che i milioni di momenti già vissuti sono perenni finché persiste un ricordo, un affetto.
Presso Hiraïzumi medita sul luogo dove il più amato dei giovani eroi medioevali giapponesi, braccato da un fratello ingrato, giunto al potere grazie a lui, aveva preso rifugio: fu tradito dai figli del suo protettore, appena i riti funebri per il loro padre furono adempiuti. Lì, davanti alla dimora assediata dal nemico, il suo intrepido scudiero, il gigantesco Benkei, un monaco diventato brigante, era morto, in piedi, trafitto dalle frecce, sostenuto dalla sua solida armatura, proteggendo la soglia per permettere al proprio principe il suicidio, all’interno. La vicenda ha ispirato diversi cantori del Medioevo: lo stesso Basho incontrerà sul suo cammino almeno uno di questi ciechi cantastorie. Il poeta conserva l’essenza di questo eroismo, di questa feroce lealtà: sogna sul ciglio di un prato, dove gli alti steli del susuki, vaste, fragili e tremanti piante, pulsano in estate da un capo all’altro del Giappone:
Erba d’estate
ecco ciò che resta
dei sogni di guerrieri morti.
Questo vagabondo che ha intitolato uno dei suoi testi Ricordi di uno scheletro esposto alle intemperie, viaggia per subire più che per istruirsi o commuoversi. Subire è una facoltà tutta giapponese, che a volte si spinge fino al masochismo; in Basho emozione e conoscenza derivano dalla sottomissione all’evento, all’incidente. La pioggia, il vento, le lunghe tratte, le ascese sui sentieri di montagna ghiacciati, i rifugi azzardati, come quello a Shitomae, dove condivide la stanza con un cavallo che urina tutta la notte, i pidocchi che lo divorano all’alba; o quella locanda dove i mormorii delle cortigiane e le chiacchiere di un vecchio gli impediscono di dormire, forse seccato, forse scheletro ancora soggetto al desiderio. Quel che ricorda è che lo stesso tetto ha riparato diverse persone, così tra i cespugli, sotto la stessa luna. La pesca con i cormorani lo addolora. Pena per i pesci divorati, pena per i grandi uccelli che vomitano, a forza, i pesci lordi di sangue, o pena per tutti noi? In una baia, alcuni pescatori hanno disposto delle trappole in cui catturare il polpo; racchiusi tra le mura della prigione, “un breve sogno”, prima di essere massacrati e mangiati; il cavallo strappa, uno per uno, i fiori di un arbusto. A Matsushima, di fronte al grande paesaggio di rocce e di isolotti non ancora inquinati, gli mancano le parole: per comporre la tradizionale poesia in diciassette sillabe segue il ritmo della baia, procede con una serie di esclamazioni: “Oh, Matsushima, oh, oh…”. Il processo non è assurdo per un poeta che nei suoni vede per lo più la punteggiatura del silenzio. Il più celebre dei suoi haiku, d’altronde, evoca il ploff della rana in uno stagno, che interrompe per un attimo quello, liquido, della silente serenità.
Marguerite Yourcenar