
Tamio Hōjō o della scrittura come lebbra
Letterature

Houellebecq: un’erezione lunga 750 pagine
Libri
Fabrizia Sabbatini
Julio Cortázar amava viaggiare. Così, a 25 anni, al dottor Luis Gagliardi: “Ho sempre sognato di viaggiare su un mercantile, di essere il piccolo passeggero di un equipaggio. Una valigia modesta, un taccuino, un libro di poesie (Neruda, ad esempio, che scrive tanto di mari) e nient’altro”. Al di là del libro – Neruda – il sogno è eminentemente letterario. Ricorrente, perfino. Da Melville a Conrad, da Salgari a Quiroga, da Marco Polo a Dante Alighieri lo scrittore è un uomo in viaggio: che il viaggio sia terreno o mentale poco importa, importa il ritmo, la veglia, la vigilanza dell’ignoto. Nato il 26 agosto del 1914 a Ixelles, figlio di un funzionario dell’ambasciata argentina in Belgio, a quattro anni Julio tornò in patria, si fece grande a Banfield, Buenos Aires, leggendo Verne, Hugo, Poe. Nel 1948 diventa traduttore giurato – inglese e francese –, tre anni dopo accadono due cose decisive: pubblica Bestiario, raccolta di racconti miliare, e lascia l’Argentina, in pieno contrasto con Perón, per Parigi. Insomma, si mette in viaggio – cioè a scrivere. Per onorare l’anniversario della sua nascita “La Nacion” ha raccolto una manciata di frammenti dall’“epistolario di uno scrittore in viaggio”. Ne esce un reportage autenticamente onirico, dai recessi argentini all’Italia e Parigi – quasi l’ingresso a un romanzo. Buona lettura.
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Chivilcoy
Chivilcoy è un deserto – con 60mila abitanti, buffo, eh? Vivi, parli, cammini; e infuria l’incoscienza assoluta, involontaria da parte di quasi tutti i cittadini, decisa volontariamente da me. Ho un terrore che non ho mai provato. Il terrore di diventare un paesano. Non avete mai notato la spaventosa mediocrità spirituale che caratterizza il tipico abitante di una piccola città? A volte mi sorprendo in piccoli gesti, atteggiamenti all’apparenza inessenziali, che tradiscono l’influenza di quell’ambiente su di me… e ne sono terrorizzato. Sento che il vuoto mi circonda e che tutto è preferibile a quel pozzo vegetale di Chivilcoy. Anche chi legge, chi pensa non può sfuggire al clima velenoso di questo ambiente. E questa è l’Argentina! (No, non è l’Argentina; l’Argentina è Buenos Aires. Una grande città, molti meravigliosi paesaggi sparsi ai quattro venti: niente di più).
Da una lettera a Mercedes Arias, dicembre 1939
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Pampa del Infierno
Siamo tornati a Jujuy – da lì, terribile tappa di 36 ore, attraversando la valle, il Chaco, fino a Resistencia. Terra che acceca e stordisce; caldo orribile, acqua bollente e sporca, flotte di insetti di dimensioni mai viste. Ero felice. Tornavo bambino, con la sensazione dei tropici: Salgari, Horacio Quiroga, Somerset Maugham, Rudyard Kipling. Ho dormito con un asciugamano bagnato sul viso finché non mi sono svegliato, all’alba, in un posto chiamato “Pampa del Infierno”. Questo è il Chaco, sono contento di averlo varcato, così, con uno spirito indomito, legittimo in quelle terre.
Da una lettera a Mercedes Arias, 1 giugno 1941
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Cile
Ho viaggiato molto. In sintesi: a Mendoza in treno, due giorni lì, poi attraversamento delle Ande in macchina (un viaggio così meraviglioso che non sono in grado, almeno io, di narrarlo). Sei giorni a Santiago del Cile, poi sono sceso a sud presso la bellissima valle araucana. Ho visitato i laghi: il Lanquihue, enorme e pacifico, con le acque blu cobalto, le colline fitte di boschi; il Todos los Santos, dal verde prodigioso, così splendido che mai avrei creduto possibile. Lì mi sono riposato alcuni giorni, poi ho visitato Osorno e Valdivia, sono tornato a Santiago, sono partito per Valparaíso. Valparaíso è una straordinaria, tranquilla città. Vederla di notte, dall’alto di una collina, con le luci che accerchiano la baia è stato uno spettacolo indicibile.
Da una lettera a Lucienne Chavance de Duprat e Marcela Duprat, 27 gennaio 1943
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Italia
Notizie da me. Ravenna, magnifica. Mi spiace non essere d’accordo con te su Padova; ci ho passato 24 ore, mi sembra una signora città, splendida. Il Giotto di qui è senza dubbio superiore – almeno per me – a quello di Assisi. Per quanto riguarda Venezia: ho passato cinque giorni favolosi. Ho sperimentato tre alberghi prima di trovarne uno adatto. Grande conferma: Carpaccio. Che pittore! La serie di San Giorgio e quelle di Sant’Orsola mi hanno lasciato senza fiato. Sono sorpreso che non me ne abbiate parlato. Cambio i tre ‘grandi’ (Tiziano, Tintoretto, Veronese) per una pennellata di Carpaccio. Mi è piaciuto molto anche Giovanni Bellini. E il Colleoni! A Padova sono rimasto deluso dal Gattamaleta, ma quella è stata una autentica scoperta. Che statua, per tutti gli dei! (Notate l’eleganza dell’esclamativo).
Da una lettera a Jorge e Dorita Vila Ortiz, 6 marzo 1950
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Bombay
Prima reazione: paura, terrore fisico e mentale, la sensazione che il pianeta sia cambiato, di essere tra creature con cui è impossibile il pur minimo rapporto. A questo primo shock ne segue un altro, contrario: pace, serenità, per contagio del modo di essere degli indiani. La prima notte a Bombay siamo usciti dall’albergo dopo cena, perdendoci nei vicoli del bazar. Quasi subito, vediamo persone sdraiate sui marciapiedi, che dormono, pregano, parlano a bassa voce. Centinaia, migliaia di uomini sdraiati sulla strada, la loro dimora permanente. Occhi enormi che ti fissano, gravi di serenità. Vorrei parlarti molto più a lungo dei mendicanti, della povera gente di Bombay, sdraiata, a faccia in su, sui marciapiedi, perché è questa l’India più profonda, la radice dell’essere indiano. Mi farebbe schifo fare letteratura su questo, e ti scrivo assecondando lo scorrere dei miei pensieri, ma credimi, Jean, quella notte mi ha marchiato per sempre.
Da una lettera a Jean Barnabé, 22 dicembre 1956
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Vienna
Vienna va bene per un mese perché il barocco merita di essere visto e non trovi dappertutto un museo dove puoi ammirare Brueghel e Velázquez. Ma dopo un mese, una visita all’Opera, svariate birre assaporate, capisci che la città è piuttosto provinciale, la barriera linguistica angosciante, e che quando si ha la fortuna di avere casa a Parigi l’unica cosa intelligente è abitarvi, il più a lungo possibile.
Da una lettera a Jean Barnabé, giugno 1959
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L’Avana
Quando sono stato invitato la prima volta a visitare il vostro paese, avevo appena letto “Cuba, isola profetica” di Waldo Frank, che suonava ambiguo in me, risvegliava una sorta di nostalgia, una mancanza: non mi pareva di essere davvero nel mio mondo, anche se in quegli anni il mio mondo parigino era eccitante, era ciò che avevo sempre desiderato, ed era mio, dopo più di un decennio di vita in Francia. Il contatto personale con le conquiste della rivoluzione, l’amicizia e il dialogo con scrittori e artisti, il buono e il cattivo che ho visto in quel primo viaggio hanno agito doppiamente in me. Da un lato ho toccato di nuovo la realtà latinoamericana da cui mi ero sentito così distante a livello personale, dall’altra ho assistito quotidianamente al duro e talvolta disperato tentativo di fondare il socialismo in un paese così poco preparato sotto molti aspetti, così spalancato al rischio. Ma poi ho capito che questa doppia esperienza non era in realtà doppia, e questa brusca scoperta mi ha abbagliato.
Da una lettera a Roberto Fernández Retamar, 10 maggio 1967
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Parigi
Il mito di Parigi ha agito a mio favore… mi ha fatto scrivere un libro, Rayuela, che un po’ la messa in atto di una città vista in maniera mitica. Tutta la prima parte del libro è la visione di Parigi da parte di un latinoamericano, perso nei suoi sogni, in una metropoli che è una immensa metafora… Pensi di conoscere Parigi, ma non è vero; ci sono angoli, strade, che si potrebbero esplorare per un giorno intero, per notti intere… è una città affascinante, non è l’unica, ma Parigi è un cuore che batte continuamente. Sono in una specie di contatto biologico vivente con Parigi. Dicono che Parigi sia una donna, beh, è un po’ la donna della mia vita.
Dal documentario su Julio Cortázar di Alan Carloff (1980), che potete vedere qui