08 Settembre 2022

“Ho vissuto il nome amato...”. Un’idea di poesia

Il tentativo piuttosto tortuoso di imbrigliare la poesia in una definizione ha sempre riscontrato derive prive di soluzioni definitive e soddisfacenti. Tuttavia, non sono mancate caratterizzazioni affascinanti con riferimenti ontologici importanti riguardo la natura della poesia, come, ad esempio, quelle ricercate da Osip Mandel’štam, Ezra Pound e Odisseas Elitis, su tutti.

Probabilmente, nel caso di Mandel’štam, il tenace emanciparsi da ogni dinamica di potere e la perseveranza nello sfuggire a qualsiasi misero provincialismo (pagando con la propria vita per la coerenza e l’onestà intellettuale nel rivendicare i propri valori etici e culturali), fu condizione imprescindibile nella formazione letteraria dell’intellettuale russo di origini ebraiche. Egli fu un vorticoso scrittore nel percorrere spazi poetici assolutamente impraticabili anche a mirabili autori. Nel suo carismatico “Conversazioni su Dante”, ad esempio, pone la questione del linguaggio poetico come “processo ibrido di incroci fra due sonorità”: una consistente nella “mutazione degli strumenti del linguaggio” e, l’altra, come il frutto di un certosino “lavoro di intonazione e fonetica che quegli strumenti svolgono”.

Da questa prefazione, quasi un esergo all’inizio del testo, egli definisce la poesia come “parte della natura”, “la sua parte migliore”, la “più pregiata”, fornendoci un concetto che esalta quest’arte come imprescindibile nella nostra esistenza. Il testo di Mandel’štam rimane un saggio di rara complessità, dove ogni rigo, inclusi gli spazi e i silenzi, determinano significazioni intense e sorprendenti, sempre proiettate in nuove interpretazioni. Il suo studio sull’Alighieri, dunque, pone l’accento innanzitutto sull’infallibile ruolo riconosciuto al poeta fiorentino di aver elevato e celebrato la lingua italiana posizionandola saldamente sulla scena mondiale degli idiomi (grazie all’elaborazione di un sistema linguistico finalmente chiaro e complesso al tempo stesso). Per Mandel’štam, infatti, Dante fu “l’artigiano” per eccellenza: attribuzione tanto cara a quest’ultimo e riferita ai provenzali, preconizzatori della poesia moderna. Da ricordare che, lo stesso T.S. Eliot dedicò il suo capolavoro “La Terra Desolata” proprio ad Ezra Pound, utilizzando la stessa definizione riferita al poeta statunitense come “miglior artigiano” di versi poetici. Dunque, la genialità di Mandel’štam non si arrestava di fronte alle prese di posizione già abitate da altri intellettuali del tempo, ma si configurava, invece, come risposta a una ben definita domanda: quando ci troviamo di fronte a una vera poesia?

Quando il testo è oggetto di parafrasi, assicura Mandel’štam, è

“il più sicuro indizio di assenza di poesia. Dove si scopre che i versi possono essere parafrasati, la poesia, per così dire, non ha trascorso la notte: il letto è intonso, le lenzuola non sono sgualcite”.   

Osip Mandel’stam svolge, magnificamente, una sua precisa attività di depistaggio letterario sollevando, in apparenza, una considerazione riferita alla poesia di tipo meramente tecnico: quella della sua più autentica riconoscibilità attraverso l’impossibilità di una parafrasi. La possibilità infatti dell’attraversamento filologico al testo poetico è messo in relazione a un “letto intonso” dalle “lenzuola che non sono sgualcite”: una metafora di luminosa bellezza che rappresenta un modello di maestria letteraria e narrazione visiva assolutamente unici. Per Mandel’štam, dunque, la poesia non può essere commentata, riassunta, relativizzata, definita, racchiusa, determinata, dedotta, quantificata e qualificata.

Di bellezza incommensurabile è l’indizio che Odisseas Elitis ci dà, in molti suoi versi, informandoci sulla natura della poesia e, soprattutto, della sua funzione. Lo desumiamo, in particolare, da uno scritto poetico e non da un saggio. La sua magnificenza poetica emoziona, invade, ci assicura al vortice – e ci fa comprendere – quanto sia reale l’ineluttabilità del senso e della visione poetica insita e implicita negli esseri umani. Così Elitis scrive:

“Ho vissuto il nome amato
All’ombra del vecchio ulivo
Nello sciabordio del mare eterno.
Quelli che mi lapidarono non vivono più
Ho costruito una fonte con le loro pietre
Al suo limitare vengono ragazze acerbe
Le loro labbra discendono dall’alba
I loro capelli si sciolgono profondi nel futuro”

La necessità inesorabile del fare poetico e la sua funzione sono tutte contenute in questi versi, qui estrapolati da un testo più articolato. “Quelli che mi lapidarono” è l’enunciato-sintesi che denuncia il dilemma del male sulla terra, senza-la-possibilità-di-una-seppur-soddisfacente-risposta se non l’ammissione che costoro che attuano malvagità non-vivono-più, probabilmente lacerati dal dolore provocato al prossimo. Con l’inspiegabile gratuità e banalità che accompagna il male, gli uomini si vedono costretti, magari con le armi della poesia, ad affrontare e a ricercare la risposta in sfide umane decisive.

È il prologo alla vittoria finale della poesia sull’esistente con il suo deficit di bellezza e di amore. Quella della poesia, infatti, è (per dirla con uno dei totem valoriali del movimento anarchico), un’azione diretta (doverosamente totale/permanente su ogni fronte, per chi avesse in dubbio l’essenza, soprattutto, della portata civile/politica del testo poetico). La poesia, dunque, afferma, con forza e legittimamente, la sua dimensione civile e affronta/combatte il tentativo di annientare le armonie del mondo di cui è responsabile, in gran parte, il potere (con le sue strutture/sovrastrutture), grazie alla sua distopica e informe visione del reale, volontariamente portata a mistificare quella di futuro.

È a questo punto che Elitis ci offre e ci fornisce la possibilità tangibile e inesorabile “di costruire una fonte con le “loro pietre”. La fonte costruita, finalmente, con le parole in poesia: queste ultime rappresentano la sintesi-metamorfosi-trasformazione a beneficio di quegli strumenti (simboli di violenza ancestrale, le pietre) originari del male sulla terra. La quale poesia, con il candore e la dolcezza nel sublimare e soverchiare ogni indistinto male con la forza dell’amore e del perdono, si definisce nella sua insostituibile missione politica e civile sugli uomini. Una trasformazione che non sarebbe potuta avvenire se non sulla base di una consapevolezza, ancora una, della struttura ontologica del poetare come fonte suprema di bellezza virtuosa/vittoriosa su tutto. Come non rimanere costernati positivamente, avviluppati, trascinati da tanta dolcezza, sostenuta tuttavia da una sublime quanto soverchiante forza che, naturalmente, solo la poesia determina.

Incommensurabile e “quasi” senza possibilità di parafrasi, come ben deduceva e prefigurava Mandel’štam, è la poesia di Ezra Pound che ben si eleva su tutti i più grandi poeti di questo mondo, senza ombra di dubbio. Esclusiva e rapsodica, profondamente inarcata fra il sentire percettivo e il senso indescrivibile delle cose, degli avvenimenti e degli uomini, è la poesia di questo labirintico scrittore che definisce il fare poetico in molteplici forme, con un prisma di soluzioni e variazioni che non lascia scampo al lettore.

Come non ricordare quando, con spirito polemico (e come immaginarsi Ezra Pound in forme differenti), durante il periodo definito “secondo imaginismo”, egli co-produsse quell’antologia-manifesto poetico in cui venivano dedotte una serie di regole al fine di poter comporre una consapevole “poesia imagista”. Quest’ultima, in quel preciso contesto storico, fu ritenuta come la vera alternativa alla stucchevole e polverosa poetica dell’allora tradizione lirica anglosassone. Era il tempo dei cosiddetti modernisti che, bisognerà stigmatizzarlo, non facevano a meno di “tutta” la tradizione e, al contrario, ne acclamavano in alcuni casi la possente quanto inesauribile sorgente di ispirazione.

Infatti, molto spesso, nella falsa rappresentazione retorica dei movimenti d’avanguardia o connotati dal termine fantasmagorico di “modernisti” o, “sperimentalisti”, la tradizione attende sempre di essere schiacciata, cancellata, nel migliore dei casi abiurata. Pound invece, diligentemente, passava al setaccio “le tradizioni”, deducendo e sottolineando ai suoi contemporanei quanto fosse determinante il debito dei poeti alla miglior tradizione lirica e poetica come, ad esempio, quella riconducibile alla tragedia e alla poesia della Grecia antica, senza dimenticare le ineguagliabili fondamenta dei provenzali, veri demiurghi di una poesia libera, scevra da dogmi rigidi, emblematicamente e sinceramente “moderna”.

Nel testo succitato, Ezra Pound annunciava le “cose da non fare” quando si scrivono poesie, dando una sua personale definizione dell’immagine e di ciò che presenta/rappresenta: “un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo”. Era il Pound imagista, presto transfuga nel vorticismo (che egli stesso attraversò nella durata di vita di una falena) per farci comprendere, quanto lo scrittore americano, non si legasse mai definitivamente a qualsivoglia corrente letteraria, regolamento o manifesto poetico che potesse angustiarlo in un perimetro troppo limitato. Nonostante tutto, molti dei movimenti di quell’epoca lo videro protagonista in veste di “visionario”, oppure alla stregua di un “profeta” cantore della vera e moderna poesia mondiale. Il labirintico Pound era, tuttavia, un poeta del fare, del reale. Le derive di carattere ideologico per le quali pagò un prezzo inusitato, comunque al limite di ogni umana accettazione, non influirono sulla qualità, sulla profondità e sulla produzione della sua immensa e complessa attività di poeta. Nel manifesto poetico imagista, dunque, Pound avvertiva lo scrittore di non seguire mai e per nessuna ragione alcun dogma, e di

“non dare retta alla critica di quanti non hanno mai scritto, loro stessi, un’opera degna di nota”.

Così nella conseguente disamina del linguaggio poetico egli si soffermava sulla necessità di eliminare il superfluo, l’abbellimento e le “cornici barocche” che non facevano altro che inficiare di inutilità le poesie.  Queste ultime “avevano bisogno di aggettivi che potessero rivelare soltanto qualcosa”, con efficacia e rilevanza. Egli metteva in guardia dal ritenere che

“l’arte della poesia fosse in alcun modo più semplice della musica, o che si potesse soddisfare l’esperto senza aver dedicato all’arte della poesia uno sforzo almeno pari a quello che, in media, il maestro di pianoforte dedica all’arte della musica”.

Un appello chiaro allo studio, alla serietà e scientificità della ricerca, del ritmo e delle assonanze, con il consiglio al candidato di “riempirsi bene la mente delle più belle cadenze che gli riesce di scoprire, preferibilmente in lingua straniera”, anche se “non è necessario che una poesia si fondi sulla sua musica e, se davvero così fosse, questa deve essere tale da dilettare un esperto”. Il consiglio-appello non si arrestava certo a questa annotazione: non mancava di asserire che

“il neofita deve conoscere l’assonanza e l’allitterazione, la rima immediata e ritardata, semplice e polifonica, come un musicista si riterrebbe in dovere di conoscere l’armonia e il contrappunto e tutte le sottigliezze della sua arte”.

Dunque, il comportamento raccomandato al poeta è quello proprio del musicista, “un buon musicista”, soprattutto quando “si ha a che fare con quella fase della vostra arte che ha precise corrispondenze con la musica. le leggi che la governano sono le stesse, senza essere vincolati a nessun’altra”. La grandezza di questo scrittore è stata la perseveranza nel sostenere sempre questo antico e ancestrale connubio, a dispetto di quanti ne avessero già decretato e celebrato il funerale. Intelligente e calibrata la soluzione poundiana che non sacrifica affatto, in modo estremo e in ragione di una propria struttura ritmica, la forma delle parole, “né il loro suono naturale, né il loro significato”. Il compito del poeta, infatti, è più complesso, perché “il musicista può fare affidamento sul tono e sul volume dell’orchestra”. Anche il termine “armonia”, per Pound, è usato in modo erroneo, perché esso si riferisce a suoni simultanei di tono differente. Tuttavia, c’è nella poesia migliore una

“specie di residuo di suono che rimane nell’orecchio di chi ascolta e agisce più o meno come una musica di fondo d’organo”.

In definitiva, l’antichissimo divorzio avvenuto fra la poesia e la musica non aveva e non ha certo dissipato la comunione amorosa e l’osmosi fra le due “arti”. un sentimento d’amorosi sensi che ha davvero la caratteristica d’eternità.

 Francisco Soriano

Per la bibliografia:

Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, Adelphi, 2021
Odisseas Elitis, Poesie, Crocetti, 2021
Odisseas Elitis, Elegie, Crocetti, 1997
Odisseas Elitis, Il metodo del dunque, Crocetti, 2011
Ruggero Bianchi, La parola e l’immagine (Antologia di poeti imagisti da Ezra Pound a Amy Lowell), Mursia,1968

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