Alcune ore dopo aver assistito alla morte del fratello ventiseienne, Virginia Stephen scrisse una lettera a una delle amiche più care. Era il 20 novembre 1906 e in quella lettera non fece il minimo accenno alla morte del fratello, non lo nominò neppure. Virginia aveva ventiquattro anni: ne mancavano sei al matrimonio che le avrebbe dato il nome di Virginia Woolf e nove alla pubblicazione del suo primo romanzo. Lei e i tre fratelli erano appena tornati da un viaggio in Grecia e in Turchia, finito in tragedia. Thoby Stephen, il fratello maggiore, vi aveva contratto il tifo.
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La lettera scritta in quel giorno funesto da Virginia era destinata a Violet Dickinson, che aveva accompagnato gli Stephen in viaggio. Anche lei era rimasta contagiata. Da loro ritorno a Londra le due donne si erano scambiate svariate lettere, nelle quali predominava spesso l’ansia per la salute di Thoby e di Violet. È strano che Virginia abbia omesso di far parola con Violet della morte del fratello. Tuttavia, ancor più strana è la lettera inviata dopo due giorni: questa volta si parla di lui, ma solo per mentire in modo sconvolgente: “Date le circostanze, Thoby non sta poi tanto male. Non siamo in pensiero per lui”.
Virginia continuò a mentire all’amica per tutto il mese successivo. Nelle diciannove lettere inviate nell’arco di ventotto giorni, si inventò una storia colorita sulla lenta ripresa di Thoby. A tre giorni dalla morte: “La situazione è invariata. Nel pomeriggio ha avuto ancora la febbre sui 40, d’altro canto il polso è buono, e riesce a bere del latte”. Cinque giorni dopo: “Thoby sta alla grande”. Nove giorni: “Il nostro caro Thoby è ancora a letto, ma anche da sdraiato la sua vitalità non è da meno di quella di un sacco di gente che va in giro sulle proprie gambe”. Dodici giorni: “Disegna uccelli stando a letto”. Dopo due settimane, Virginia include se stessa nella narrazione: “Abbiamo iniziato a corteggiare le infermiere, le chiamiamo ‘mia signora’ e loro fanno a maglia delle cravattine celesti che gli promettono in dono se fa il bravo”. Dopo circa un mese dalla morte del fratello, Virginia non smetteva di parlare delle loro aspettative: “Sta facendo dei progressi, si parla di rimettersi in piedi, di andar via, e del futuro”.
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Il futuro. Nella situazione in cui mi trovo a scrivere oggi, ben comprendo il desiderio di Virginia di lasciarsi alle spalle un’atmosfera di malattia, rimettersi in piedi e andarsene, lasciarsi portare verso un futuro che ancora non si intravede, e che potrebbe non arrivare. Desidero saltare in macchina e guidare senza sosta. Talvolta mi sorprendo a pensare che se arrivassi abbastanza lontano potrei raggiungere non solo un luogo diverso ma anche un altro tempo, affrancato dal dolore e dalla paura odierni. Una fantasia frammista a preoccupazione: forse noi, come Virginia, nei nostri infervorati discorsi riguardo a quello che faremo quando “tutto sarà finito” ci inganniamo l’un l’altro, oltre a ingannare noi stessi? Oppure, non potrebbero i nostri sogni di fuga sfociare altrove, sui mondi alternativi in cui vorremmo vivere ma che ancora non sappiamo descrivere? È possibile che il desiderio sia un modo di conoscere?
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Mi attrae questa corrispondenza giovanile della Woolf – la sconcertante miscela di dolore e speranza, perdita e desiderio – poiché vi riconosco l’audace sperimentazione, da parte di un autore, del potenziale trasformativo dell’immaginazione. Per certi versi, tutte le lettere operano in questo modo: se io oggi ti scrivo una lettera, le mie parole saranno lette da te soltanto a giorni di distanza. La nostra amicizia dovrà estendersi per contenere questa asincronia. Sebbene il presente della mia lettera non esista per te al di fuori di queste pagine, la sutura del mio presente col tuo ci farà uscire entrambi dalle nostre vite, sia pure per un istante, per accedere a una temporalità astratta eppure condivisa. L’asincronia diventa, in campo epistolare, una forma peculiare di intimità. […]
All’epoca della morte di Thoby, Virginia Stephen e Violet Dickinson erano state in corrispondenza da circa cinque anni. Virginia aveva iniziato a scrivere a Violet all’età di venti anni (le lettere figurano tra le centinaia pubblicate nel primo volume delle Collected Letters della Woolf), all’epoca era stato da poco diagnosticato il cancro al padre. Violet ne aveva diciassette più di lei ed era anche più alta di circa trenta centimetri. “Vorrei che tu fossi un canguro”, le scriveva Virginia, in preda all’ansia e a una profonda tristezza a causa del declino del padre, “e che tu avessi una sacca per tenerci i cangurini”. Il desiderio di protezione materna è evidente in una fotografia di quel periodo che ritrae le due donne in piedi l’una accanto all’altra. Virginia si appoggia a Violet e la tiene per mano; vuole essere accolta e guarda l’obiettivo come per comunicare quel desiderio.
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Le lettere diedero alle due donne un modo ulteriore di abbracciarsi. Virginia si definiva la “Sparrowy” di Violet (nomignolo derivato da sparrow, passerotto), e si offriva alla donna più anziana come se fosse un grazioso animale. Nel periodo in cui il padre si stava riprendendo da un intervento chirurgico, Virginia domandò a Violet “Vuoi davvero bene alla Sparrowy? Lei ti tiene tra le braccia piumate per farti sentire il cuore che le batte in petto”. La lettera diveniva il modo in cui Virginia poteva, non solo esprimere un desiderio ma, per così dire, metterlo in atto: serrava l’amica tra le braccia piumate, poi ripiegava il foglio di carta destinato a finire tra le mani di Violet. I supporti della scrittura – penna, inchiostro, carta – sostituivano il corpo distante di Violet. In un’altra lettera scriveva, “lo vedi come l’inchiostro diventa denso a questo punto… così all’improvviso”. Non sappiamo se il desiderio sessuale tra le due donne sia mai andato oltre la pagina: alcuni passi sembrano suggerirlo. “Ti assaporerò con tenerezza”, prometteva Virginia.
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Durante il periodo della loro corrispondenza, due anni prima della morte di Thoby, Virginia aveva perso il padre. Aveva continuato a scrivere a Violet anche nei momenti peggiori. Le lettere si erano fatte più brevi: ragguagli quotidiani sulla febbre, l’umore del padre, aggiornamenti sulle prognosi. Ma notiamo che, in mezzo a quell’orrore, Virginia si rivolgeva a Violet per avere il conforto di una lettera. Mentre assisteva alle sofferenze del padre fino all’amara fine, Virginia scriveva: “Sembra davvero dura. La vita, ne sono certa, non gli dà alcun piacere – sarebbe stato lieto di morire una settimana fa – ma non ci si può fare niente. È così crudele dover aspettare e vederlo indebolirsi giorno dopo giorno. Ma sembra che siano queste le cose che ci tocca subire in questo mondo brutale”. Quindi, dopo aver riconosciuto l’orribile verità, chiedeva, in un poscritto, il balsamo che soltanto una lettera di Violet le avrebbe procurato: “Raccontami dei tuoi vestiti”, scriveva “e dei tuoi successi”.
Sprofondata nel dolore per la morte del padre, Virginia si abbandonava a un esaurimento nervoso. E, a tempo debito, si era lasciata andare tra le braccia di Violet, nella cui casa, a Welwyn, vicino a Londra, Virginia si stava riprendendo. In quel periodo non aveva tenuto alcuna corrispondenza, ma dopo tre mesi, quando si reputò che fosse in grado di riunirsi ai fratelli, scriveva a Violet: “Credo che finalmente il sangue torni ad affluirmi al cervello. È una sensazione davvero strana, come se una parte morta di me tornasse alla vita”. Riprendere a vivere, per Virginia, significava ritrovare la capacità di pensare. Come conseguenza immediata le era venuto un gran desiderio di scrivere: “Voglio cominciare a lavorare. Sono certa di saper scrivere, e un giorno di questi intendo scrivere un buon libro”.
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Le lettere scritte da Virginia a Violet durante la malattia del padre dimostrano il potere della corrispondenza di tenere compagnia, dare conforto, e persino amore. Tuttavia, nelle lettere scritte, due anni dopo, a seguito della morte di Thoby sembra che vi fosse dell’altro in atto. Se il destinatario di una lettera detiene un certo tipo di potere (quello di abitare il mondo di un altro, e di soffermarcisi), il mittente ne ha uno di altro genere, estremo quanto l’altro: il potere di mettere in scena, il potere di essere reticente, e persino quello di ingannare.
Violet apprese della morte di Thoby solo dopo un mese, quando fu menzionata in via incidentale nell’articolo di una rivista. Virginia le scrisse immediatamente: “Mi detesti per aver detto tante bugie? Lo sai bene che dovevamo fare così”. Lei doveva mentire, intende Virginia, allo scopo di proteggere Violet, che stava guarendo dalla malattia. Non vi è dubbio che Virginia si preoccupasse moltissimo per Violet; aveva avuto sotto gli occhi la drammatica prova di quanto poteva essere letale il tifo. Nelle lettere Virginia metteva di continuo in relazione i due casi. Il giorno prima della morte di Thoby – l’infezione gli aveva causato la perforazione dell’intestino e quindi una peritonite – Virginia aveva scritto a Violet: “Non so di che tipo siano le tue macchie. Thoby è sicuro di avere una febbre più alta della tua, e siamo entrambi un po’ sprezzanti del tifo dei Dickinson in confronto a quello degli Stephen”. L’umorismo macabro metteva in ombra la gravità dei sintomi di Thoby, come pure la pressante preoccupazione di Virginia per Violet. Nei giorni seguenti, evitando di ammetterne la morte, Virginia si servì del caso del fratello come elemento di confronto per comprendere più a fondo quello dell’amica: “Immagino che adesso tu ti trovi più o meno nel suo stadio della malattia, credo soltanto che lui abbia avuto una crisi molto più acuta”. Dieci giorni più tardi, Virginia, come una ventriloqua, dà la parola al fratello morto: “Lui vuole sapere se ti è permesso del cibo solido”. La resurrezione epistolare di Thoby messa in atto da Virginia le dava il modo di esprimere il fervido desiderio che Violet si salvasse e tornasse in buona salute. “Ora, cara Violet”, scriveva, dopo circa un mese di bugie elaborate, “prendi le medicine e pensa a me. Ci rivedremo mai?”.
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Tuttavia, la messa in scena di Virginia non fu soltanto a beneficio di Violet. In effetti, aveva anche trovato il modo di fingere, per se stessa, che suo fratello fosse sopravvissuto. Nella magistrale biografia della Woolf, Hermione Lee scrive che queste strane lettere “indicano l’inizio di una fase in cui lei manteneva Thoby in vita facendolo esistere in una fiction”. Negli anni la Woolf avrebbe riattivato questa forma mentale elegiaca, dandole forma compiuta nei romanzi; versioni di Thoby si ritrovano in Jacob’s Room e in The waves (1931), e versioni dei loro genitori in To the Lighthouse (1927). In A Sketch of the Past, un saggio autobiografico intrapreso verso il termine della vita, la Woolf spiegava che era stata la capacità di reagire a uno ‘shock’ a farla diventare una scrittrice. “Solo esprimendolo in parole [lo shock] sono riuscita a guarirlo, facendogli perdere il suo potere di ferirmi; riunire le parti recise mi dà allora una grande gioia, forse perché così facendo elimino il dolore. Questo è forse il piacere più grande che io conosca”.
Il trauma della morte di Thoby – un vero ‘shock’ – avrebbe senz’altro potuto distruggerla. Scrivere quelle lettere a Violet aveva dato a Virginia la possibilità di mantenere un contatto col fratello ormai perduto e di aggrapparsi a un’amica di cui temeva la perdita.
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Per certi versi, le sue menzogne non potevano certo reggere a lungo. Thoby era morto, e Violet lo avrebbe saputo ben presto. Tuttavia, offrendole una temporanea dilazione dalla realtà che incombeva, le bugie di Virginia – per quanto imbarazzanti, agghiaccianti, vergognose – additavano una fonte di sollievo più durevole di sé stesse. La scrittura sarebbe stata, per lei, uno stile di vita. Persino di fronte a una perdita traumatica, la scrittura era in grado di procurarle piacere. E la scrittura epistolare in particolar modo – col suo potere di far scaturire la presenza dall’assenza, di contrastare il corso ordinario del tempo – le avrebbe reso possibile non soltanto di testimoniare il passato ma anche di rianimarlo, farlo confluire nel presente, fargli spazio in un futuro che valesse la pena vivere. Un lavoro che l’avrebbe assorbita del tutto. Proprio nel bel mezzo del suo dolore per Thoby e delle bugie raccontate a Violet, Virginia produsse un’autodiagnosi in una lettera a un’altra amica, Nelly Cecil: “Mi rendo conto che più lavoro e meno parlo meglio è – o almeno il male minore – per tutti quanti al momento”.
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Tornando al periodo in cui Virginia stava a guardare con ansia il padre che si spegneva, disse a Violet che intendeva conservare le lettere ricevute da lei: “Non ho mai tenuto neppure una lettera in tutta la vita – ma dovrebbe restare una traccia della nostra affettuosa amicizia”. Eppure, Virginia non conservò le lettere di Violet, neppure una. Violet, dal canto suo, ricopiò a macchina le lettere di Virginia, rilegandole in alcuni volumi. Nel 1936, molti anni dopo che le due amiche si erano allontanate, in quello che Hermione Lee definisce “un bizzarro momento di rimprovero o di richiamo”, Violet le restituì le lettere. Virginia restò sconcertata dalla versione di sé che vi era sopravvissuta. “Ma ti piace quella ragazza?” domandava, in una lettera. “Io non ne sono affatto sicura”. Virginia Woolf, allora l’autrice cinquantaquattrenne di sette romanzi, implorò l’amica: “tutto quello che ti chiedo e di non far leggere quelle lettere a nessun altro”.
È presumibile che la Woolf si sentisse imbarazzata dalle giovanili effusioni di quella ragazza; forse provava vergogna per le bugie che aveva ritenuto necessario raccontare. Doversi confrontare in età matura con la testimonianza scritta delle effusioni di un affetto giovanile equivale a dover rispondere alla domanda da capogiro su chi si è veramente, su quale relazione sussiste con la persona che eravamo; si devono rimettere insieme le diverse identità che si sono succedute nel tempo. Rileggendo le lettere scritte a Violet, Virginia deve essersi resa conto che Thoby non avrebbe mai avuto la possibilità di rimettersi in discussione.
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Dalla morte del fratello qualcosa si era alterato nella vita della Woolf. Nel 1929, il giorno successivo al Natale, scrive nel diario di percepire l’incombere della sua presenza; “L’ombra di Thoby indugia… spettro stravagante”. Eppure, nello stesso tempo, sembra che la attenda nel futuro. Lo immagina ad aspettarla, da qualche parte, al termine della vita.: “Talvolta penso alla morte come al punto d’arrivo di una gita nella quale mi sono avventurata quando lui è morto. Come se al mio arrivo gli dicessi: bene eccoti qua”. Come se la sua scomparsa l’avesse messa in cammino verso la propria morte. Come se la sua vita non fosse altro che una lettera, e Thoby il destinatario. Come se ogni versione di se stessa – persino la ragazza ventenne, o la donna morta che presto sarebbe stata – potessero in qualche modo restare in vita tra le sue pieghe. Ed era là che lei si trovava.
Kamran Javadizadeh
*Questo articolo è stato pubblicato in forma più estesa sul “New Yorker”; la traduzione è di Anna Rocchi
**In copertina: Virginia Woolf con il padre, Leslie Stephen