La scrittura di Jonny Costantino è un fuoco che diventa sempre più grande e ambizioso, vorace, che utilizza i libri scritti prima per alimentare il fuoco dei libri che verranno scritti dopo. Laddove altri lasciano tracce Costantino lascia incendi, o così pare a me che da lettore lo seguo da anni, per scoprire con la prossima opera quanto si sarà innalzata la fiamma, se gli si sarà rivoltata contro, quanto a repentaglio avrà messo la vita psichica di chi legge e di chi scrive. Alle domande Costantino ha risposto con la scrittura urgente e ustionante che lo contraddistingue, con la violenza e la generosità del fuoco, poiché chi arde e vuole ardere non smette, non vuole smettere di ardere mai. (a.c.)
Entro nel fuoco di Piressia tramite Acqua viva di Clarice Lispector: “È questa una festa di parole”. Piressia fa terra bruciata delle convenzioni letterarie: è un romanzo mutilato sul presente, il 2024, arrivato dal futuro, il 2044; è un saggio di critica letteraria occultistica, un manuale survivalista, un manifesto di immaginazione pirologica, è il glossario di una scienza nuova: ciViltà, necrofestival, onirore, subsconcio, reignificazione. Piressia è una festa del linguaggio, spesso selvaggio, cruenta. Il tuo con le parole è un gioco al massacro?
La scrittura è un gioco serio, la pelle è in gioco, un gioco col fuoco. Di conseguenza, è sempre un massacro, beninteso: per uno come me. La scrittura è il dentro. Dentro di me sono solo. Ho i miei morti che mi assistono all’occorrenza, certo, ma nel combattimento sono solo. Nel combattimento a mano armata, oltre che bruciata, con me stesso. La scrittura è il mio farmi a pezzi. Ogni frase è un pezzo. Io sono lo spezzatino della scrittura. Una tartare, al coltello. Ogni frase è una pietra, ogni pagina una sassaiola, nella zucca, la mia per prima. Ogni libro è un flusso piroclastico. Frantumandomi schizzo in un altrove dove il tizio che talvolta ho l’arroganza di chiamare io è che colui che rimette insieme i pezzi, ricompatta la legione. Ogni frase è una pietra preziosa e ogni libro è una corona tempestata di diamanti spinosi. I miei diamanti di merda. Sono un re che conquista il suo regno a partire dall’evidenza che in fondo in fondo, come chiunque, è una merda. Scrivendo mi abietto e abiettandomi mi nobilito. Solo fottendomi le parole e facendomi fottere dalle parole mi espello su un piano più sensibile del mio essere vivente e – lissù o liggiù – mi reinvergino. Disponibilità allo sfondamento: me la riconosco, la rivendico tra le mie prerogative. Se posso, ti sfondo. In ogni caso, ci provo. A furia di fitte. Le parole sono fitte. Di tenerezza finanche. E tu? Vuoi sfondarmi? Non mi tiro indietro. Devi riuscirci però! È la sfida che rivolgo. È il guanto che raccolgo. A una condizione: riconoscersi animali affini nella giungla dell’esistenza. Ogni scritto è un autoscontro. Un autostupro. Ogni scritto! Anche il più piccolino. Figuriamoci un balenottero come Piressia. Sette anni di inchiappettamenti fai da te. Un’orgia suicidale resurrettiva trasfigurale. Un falò della morte. Un falò della vita. Che bellezza i falò! Quante cose accadono intorno al fuoco. Cose eclatanti, cose zozze, cose che vedi solo tu, pure se non sei sbronzo o fumato, cose che vedono solo gli altri. L’estate è un tartufo gelato e il suo cuore cremoso è un falò. Voglio che la mia scrittura sia una sterminata Notte di San Lorenzo. Stelle cadenti come se piovesse. La scrittura è il divenire festa del massacro. Il mio massacro. La mia festa.
In La mano bruciata, Rubettino, 2021, scrivi: “Questo è il libro di uno che vive in modo da non tradire la scrittura e scrive in modo da non tradire la vita”. In Piressia, nella sezione Pirosofia o Ignivisione, al quinto punto del Principio di accrescimento, scrivi: “Il potenziamento igneo ha luogo innanzitutto attraverso l’opera. Ciò non toglie che il contatto e la vicinanza umana tra simili rinforzi a sua volta e non poco. Non si vive di sola opera”. Continui a incenerire le separazioni, le ipotetiche distanze tra la vita prima o dopo l’arte e l’arte prima o dopo la vita. Scrivi: “Si combatte per essere fuoco”. La tua scrittura prova a far conflagrare il mondo scritto e il mondo non scritto?
Sì, conflagrazione è la parola. La scrittura, tutto il resto: per me non c’è soluzione di continuità tra i piani. Non dev’esserci, a un certo livello di messa in gioco, di messa in crisi. Le parole non sono parole, non soltanto. La scrittura non è scrittura, non soltanto. Non do credito a chi pensa lo siano, non mi fido di chi professa lo sia: soltanto parole le parole, soltanto scrittura la scrittura. C’è altro in ballo. Non so scrivere, ogni volta devo reimparare, ritorno allo stadio del lallare. Faccio una fatica enorme e col tempo vado a peggiorare. Peggioro nel senso del disimparare, sono un uovo al fuoco della scrittura, e non cerco di migliorare, magari stoppandomi prima di rovinare una coque perfetta. Non mi serve: mi muovo in zone dove il saper scrivere – la cosiddetta bravura – non mi salva il culo. Mi aiuta qui e lì, va da sé, ma non fa la differenza. Devo essere uomo per essere scrittore: questo sì che fa la differenza. Uomo ai miei occhi: uomo di miserie, uomo di fulgori, uomo di dolori, uomo di vigori, uomo dai molteplici e contrastanti sapori, uomo spappolato ma completo, pezzo in più, pezzo in meno. Un uomo completo delle cose essenziali. Vale a dire: un uomo ferito ma non incallito, un uomo feribile che non retrocede, un fronteggiatore dell’ignoto. Se smettessi di percepirmi così, la mia scrittura andrebbe in vacca, smetterei di riconoscermi il diritto di scrivere. La parola vitarte non me l’hanno regalata, me la sono conquistata vitartendomi. Vitarte vuol dire che l’arte ha il dovere di assecondare i rilanci della vita facendo i conti con i ribassi della vita e viceversa: lo stesso deve fare la vita con l’arte. Vitarte è la crasi con cui oppongo alla nuda vita la mia nudità d’artista.
Piressia è anche la tua personale enciclopedia dell’arte, della tua visione artistica. Quasi la subdola fondazione di un canone. In ordine sparso di apparizione: Arthur Rimbaud, Joel Peter Witkin, “Raymond Carver tradotto da Curzio Malaparte”, Lee Krasner, Werner Herzog, Jan Švankmajer, e i tanti altri, fino alla tripletta eclatante Emily Dickinson – Franz Kafka – Billie Holiday. La tua scrittura, spesso agonistica, algologica, si trasforma continuamente e sotterraneamente in canto d’amore, di innamorata gratitudine. O sto sfocando io?
Al contrario, il tuo focus puller sta facendo un lavoro impeccabile. Sono un uomo che sa dire grazie e che ama, in maniera tanto svergognata quanto solida. Non sono volubile nell’amore. Credo nella durata. Tengono di brutto i miei amori: di decennio in decennio si consolidano. Esercizi di ammirazione, atti di adorazione: mi fortifico così, spiritualmente. Ci lotto coi miei amori e lottandoci mi ci misuro. In me la devozione fa il paio con la sfrontatezza dell’iconoclasta. Ma non sono semplici rotture le mie eversioni. Sono piuttosto sfregi rigenerativi, fecondazioni. Non ho complessi d’inferiorità. Nessuno, nei confronti di nessuno. Se come cineasta potrò concedermi delle attenuanti per le mancate realizzazioni che mi attendono, giacché non giochi la partita di Kubrick se non hai il budget e la libertà di Kubrick, come scrittore no, non mi concedo la benché minima scusante. Omero Dante Sade Melville Céline Pincopallino: siamo tutti alla pari. Non solo: Pincopallino ha più carte in mano di Céline perché viene dopo Céline e, se non soffre di vertigini, può servirsi di Céline come scala. C’è chi pensa che tutto o quasi sia stato fatto. Io penso l’opposto: poco niente è stato fatto. Lo penso sentendomi addosso la forza dei miei predecessori. Mi sento addosso una forza che ritengo alla portata di chiunque possegga la forza – umilissima – di accogliere la forza e la bellezza altrui, di farsi potenziare dalla forza e dalla bellezza altrui, di farsi spingere avanti dai propri fari invece di lasciarsi intimidire o bloccare, senza compiere l’errore di fare confusione tra la luce propria e la luce riflessa, altrimenti è perduto. La serie A è appannaggio di chiunque possa permettersi una matita. Mi riferisco alla A di Arte, non di Arrampicamento. Le mie ambizioni artistiche sono infinite.
In Piressia il collasso dei piani ribalta il contesto nel testo: l’editore del libro diventa personaggio funesto del romanzo. “Il 14 agosto Leone Marino, il direttore responsabile nonché editoriale di Wojtek, veniva trovato morto impiccato nella propria dimora”. Il tutto diventa progetto artistico che supera il limite della sola autorialità, come a dire: uno scrittore che si vuole tale non si fa andare bene qualunque editore purché paghi; un editore che si vuole tale non si fa andare bene qualunque scrittore purché venda. C’è l’ambizione a una nuova visione da mettere in comune, di una sfida lanciata a ciò che è reputato normalmente cioè risaputamente pubblicabile? Coi rischi che il tutto comporta, anche per i bilanci, personali e d’impresa, economici, esistenziali.
Parto da me.
Non ho problemi con la prostituzione. Gran parte di quello che vedo intorno a me è prostituzione. Grezza prostituzione, sofisticata prostituzione. Prostituire il proprio corpo mi sembra la forma più schietta di prostituzione. Posso andare serenamente con una puttana, instaurando con lei un rapporto di rispetto e complicità. Potrei all’occorrenza prostituirmi, in linea con le mie inclinazioni sessuali, mi farebbe un baffo. A nessuno però permetterei di mettere le sue manacce, sia pure ingioiellate, su una pagina a caso di Piressia. Uccello o editing con pistola alla tempia: dò via subito l’uccello. La mia parola scritta è improstituibile. Non scrivo un libro per farci soldi: lo scrivo per dare un senso alla mia vita. Essendo io il più intransigente aguzzino di me stesso, come potrei concedere a chicchessia l’autorità d’impormi un taglio o un’aggiunta? Non uscirei più di casa per la vergogna. Mi sentirei mortificato così nel profondo da perdere la voglia e il coraggio di scrivere. Mi sentirei delegittimato: la scrittura non è un mestiere. Senza contare che di regola l’editing serve a normalizzare un testo, a formattarlo, assimilandolo a modelli letterari che – se non mi orripilano – mi disgustano. Non voglio pubblicare a tutti i costi. Mai voluto. Voglio pubblicare alle mie condizioni. Voglio lasciare le mie creature libere di andarsene a zonzo per come sono state concepite, per come hanno avuto la tenacia e il carattere di venire alla luce, orgogliose delle loro anomalie fisiologiche. Al cinema si parla di final cut: nei film commerciali non spetta ai registi. Altro che taglio finale: a un mio film nessuno può tagliare nemmeno una pellicina, nessuno che non sia io. In sintesi: sono un autore ineditabile.
Vengo a Wojtek.
Dire che sono un autore ineditabile non vuol dire che non sia aperto a tutto ciò che fa crescere il libro nella sua evoluzione organica. Non sono un montone. Conosco questo mondo e la mia difesa è preventiva ma resto in ascolto, non occludo spiragli. Lo accetto eccome un editing che sia un dialogo intelligente e amorevole finalizzato al bene del testo, un dialogo magari non esente da conflitti dove però nessuno nutra dubbi sulla sovranità assoluta dello scrittore. Così è andata con Wojtek. Wojtek è un editore di lusso come io sono uno scrittore di lusso: ci prendiamo e condividiamo lussi che altri non si prendono. Facciamo, a regola d’arte, il cazzo che ci pare, convinti che sia la cosa giusta da fare. Wojtek è un editore lungimirante. Lavora non solo sulle proprie passioni ma anche su qualcosa che il novanta percento degli editori ignora: il capitale simbolico. Wojtek ha investito pesantemente su Piressia e sulla mia persona. Rispetto e gratitudine sempiterna per Wojtek. Ho messo in mano a Ciro Marino un libro prestigioso in odore d’invendibilità e lui – rullo di tamburi – s’è leccato i baffi. Ogni tanto, per puro godimento, mi riascolto i suoi vocali pieni d’insulti elogiativi ed esaltati. La cosa strana è che il libro va. Mi giungono riscontri distributivi sorprendenti, insperati. Si sta producendo un contagio dal cosiddetto basso, da quel basso continuo e passionale che per me rappresenta la crema del cuore e della mente. Lettori spavaldi si passano parola. Eroici librai promuovono l’opera e lottano per farla finire in classifiche di qualità. E da qui si potrebbe trarre un’altra lezione. Una lezione sulla presunta volgarità del pubblico letterario. Una volgarità che io considero, per prima cosa, un paravento e una giustificazione. Il paravento della volgarità degli scrittori e degli editori. La giustificazione della loro corruzione.
In Mal di fuoco, Effigie, pubblicato nel 2016, c’è un frammento della Età del fuoco, del 2976 dopo Cristo circa: “Scrivo perché ci siamo distrutti”. Nel Dossier DKH di Piressia scrivi: “Creiamo per i morti”. Idealmente, a chi consegni le tue opere? Sembrano attraversate dall’afflato evangelico secondo cui molti sono i chiamati e pochi gli eletti, i confiamminei. Portano un giudizio severo sui contemporanei e sul destino che si sono fabbricati. Il rischio è di fondare un’aristocrazia della resistenza estetica, l’élite della ribellione con stile.
Se il mondo così com’è m’andasse a fagiolo, non scriverei, me lo godrei e basta. Soli nelle nostre stanzette stiamo crepando di pornografia e civiltà, non la Civiltà con la cì maiuscola, la ciViltà con maiuscola la vì di viltà. A due passi da casa, la barbarie avanza nel suo volto più primordiale, macellaio: la guerra. Intanto, nelle arti, il politicamente corretto – quella piallatura della verace ambiguità dei fenomeni e delle relazioni detta politicamente corretto – si gode la propria età dell’oro. Come non esprimere un giudizio severo? Come non incazzarsi? Da inconciliato con le brutture del presente, mi rivolto. Mi rivolto con stile. Non ho altro: il mio stile. Mi rivolto mettendo il mio stile a servizio di quello che chiamo veridicamente corretto. Tu mi chiedi a chi io consegni idealmente le mie opere. Fermo restando che creo per farmi la vita, ti rispondo: non solo a resistenti estetici e ribelli stilistici; non solo a buongustai che sanno apprezzare il crudo, a selvaggi raffinati, a ossimori viventi; non solo a ustionati e incendiari. A monte: a chiunque all’arte chieda non qualcosa bensì tutto. Sulla vetta del monte: a chiunque voglia inventarsi la propria vita. Se non ti piace la minestrina tiepida che passa il convento, devi cucinartela e apparecchiartela da solo, la tua vita. Semplice a dire, difficile a fare: lo so. Ma scorgi qualcosa di meglio cui aspirare, nel corso del circoscritto arco biologico denominato – appunto – vita? Io me la sono inventata, una vita a mia immagine e somiglianza, grazie anche ai libri che hanno parlato alla parte più viva di me, ai libri di morte e resurrezione che mi hanno ucciso e resuscitato. È questa la razza di libri che voglio scrivere. Libri di naufragio e sbaragliamento. Libri d’urto e salvataggio. Libri che dinamitano stili di vita che mutilano. Libri che ti danno il colpo di grazia e ti tirano fuori dalla tua zona morta. Libri che contengono proposte di vita. Libri autentici. Qualcuno critica il mio lavoro, anche filmico, dicendo: è troppo intenso. Formula curiosa, da qualche anno di moda: è troppo intenso. Quando l’ho sentita pronunciare la prima volta in accezione negativa ci sono rimasto, poi mi sono preoccupato: ma come! Troppo intenso: è la locuzione emblematica di una contemporaneità deintensificata. Il fatto è che per me non c’è niente ma proprio niente che sia troppo intenso, non c’è limite all’intensamente. Vorrei schiattare d’intensità. Non avere paura dell’intensità: è un prerequisito cruciale per chiunque voglia avventurarsi nella mia opera.
La scrittura come arma nero su bianco che si rivolta contro di te per primo. Sapresti ricostruire quando s’è appiccato questo fuoco insistente che si propaga per tutte le tue opere anche a tue spese, incenerendole, accartocciandole? La Lispector in Acqua viva se lo chiede così: “Ciò che scrivo è solo un culmine?” Le tue opere nascono nel fuoco ma da quel fuoco sono anche condannate, come se qualsiasi loro più disteso compimento fosse impedito dal fuoco che le distrugge da dentro. Piressia è un libro la cui creazione sta nella sua distruzione.
Ho dovuto spaccare muri di ghiaccio per arrivare al mio fuoco. Ho dovuto razionalizzare che la vita per me è priva di fascino se non è accesa e rosolata dal fuoco. Ho dovuto buttare giù l’edificio di me stesso e rifargli le fondamenta da capo, affinché si sviluppasse a spirale intorno al mio intimo fuoco. L’inferno non divampa in un sol giorno: è stato un processo e i lavori restano – vita natural durante – in corso. La fiamma è esigente, va alimentata, governata. Mal di Fuoco e Piressia sono le prime due parti della mia Trilogia del Fuoco. La terza parte mi costerà cara, non posso ancora dire quanto, ma mi costerà. Rischierò, come non mai, l’accartocciamento, l’incenerimento: i miei. Ci vorranno anni. Ergo: to be continued… Ogni creatore è per due terzi un distruttore: io non faccio eccezione. Assecondo la natura del fuoco. Brucio, okay, ma al fine di scaldare e illuminare. Distruzione e creazione non si annullano a vicenda: vince la creazione. Distruggendo creo, estinguo per rigenerare. Il libro perdura e irradia. Ogni opera di fuoco è un roveto ardente: le vampe non la consumano. C’è in me una doppia spinta solo in apparenza antagonista: intellettualmente rigetto, visceralmente abbraccio. Scoramento del pensiero e tripudio dell’espressione viaggiano – nei miei condotti immaginifici e plasmatori – all’unisono. Persino nel vivo della mattanza: la carne macellata possiede un intrinseco splendore, vedi Rembrandt Soutine Bacon. Persino al culmine dello sfacelo: con le macerie si possono fabbricare mirabili sculture. Persino nella tracimazione del fango: il Dio degli Ebrei e dei Cristiani non ha creato l’uomo proprio dal fango?
In Ultraporno, Modo Infoshop, 2021; scrivi: “ULTRAPORNO è un addio al linguaggio che rifiuti di farsi rovesciare come un guanto dall’uccello della notte in un’arte senza frontiere”, e più avanti scrivi che ULTRAPORNO è “il verbo che fista”. Piressia è ultraporno abbastanza?
Abbastanza? Per me non è mai abbastanza. Devi dirmelo tu, che sei solito fartela con superdotati della letteratura, pervertitori della lingua, magnaccia della vitamorte. Come stanno i tuoi sfinteri?
antonio coda
*In copertina: Giovanni Blanco, “Rosso Costantino”, 2022