30 Aprile 2022

“Sono nulla, per questo posso tutto”. In obbedienza all’abiezione (ovvero: su un film formidabile)

Europa ’51 è un film del 1952, dal titolo che pare un manifesto, fuorviante. Firmato da Roberto Rossellini, vinse il Premio internazionale alla Mostra del cinema di Venezia: in giuria, tra gli altri, figurava Giuseppe Ungaretti. Il film fu ammirato con perplessità: nessuno mise in dubbio la perizia cinematografica, la grandezza del regista; la storia, piuttosto, frutto di miriadi di mani e di sguardi – il soggetto è di Fellini e di Tullio Pinelli, rivisto da Rossellini, la sceneggiatura conta, tra gli altri, Mario Pannunzio, Brunello Rondi, Sandro De Feo, Diego Fabbri – ghiacciò le attese. In sintesi, si racconta lo scoscendimento nel sottosuolo dell’anima da parte di Irene Girard. Moglie di un dirigente di alto rango, abituata a destreggiarsi tra i cunicoli altolocati della Roma ‘bene’, fiera della propria abbondanza, Irene entra in crisi dopo la morte del figlio. Il bambino, spesso solo, vestito con aristocratica accuratezza, si getta dalle scale della palazzina in cui vive, ha nove anni. Irene penetra in un delirio intimo, in un dolore che la fa implodere: non urla, non divaga in fiera follia; è come se la copia di sé, in gesso, si sbriciolasse, dentro, tra le caviglie e i polmoni. Consapevole dell’insensatezza del proprio vivere, tra gelidi gioielli e futili allori, la donna frequenta i sobborghi, famelica di derelitti e di mendicanti, si adopera per tutti, in periferia, si fa serva, serve in fabbrica, si avvicina ai malati, agli ultimi, a chi vive sul ciglio del termine, terminale, abbraccia la prostituta tubercolotica, incorpora in sé il dolore del prossimo, accetta il sopruso, di essere trafugata e incompresa.

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Irene Girard è interpretata da Ingrid Bergman, miracolata dalla misura, specie di icona, autentico agnello, che si dà al sacrificio senza prediche, devota al sacro pudore, senza nulla pretendere, di nulla lamentandosi. Alberto Moravia – ne scrisse su “L’Europeo” – apprezzò la Bergman (“Quest’attrice singolare forse non aveva mai dato sinora in maniera così sensibile, vibrante e comunicativa la misura del suo talento”); il film non gli piacque, appesantito da una “ambiziosità astratta e velleitaria”, da “abborracciate discussioni ideologiche”. Riconobbe, dietro il velo di Irene, la figura di Simone Weil, “una specie di santa laica, sia per la strenua coerenza delle sue idee e della sua azione, sia per l’altezza spirituale del suo carattere. E nello stesso tempo, come abbiamo detto, fu una figura oltremodo caratteristica e quasi simbolica dell’Europa d’oggi, rovinata e lacerata tra Oriente e Occidente ma tuttora detentrice dei più alti valori culturali e morali”.

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Cosa spaventa, allora, Moravia? La scelta verticale di Irene, la sovversione delle convenzioni, “ribelle ad ogni società costituita”, che sfocia, scrive lui, “nella stravaganza, nell’autodistruzione e soprattutto nell’isolamento vero e proprio”. Ecco cosa sconcerta Moravia: chiama stravaganza e isolamento il privilegio della povertà, chiama autodistruzione la gloria di chi, silente, santifica il fango; sospetta dell’individuo che scema nel sacro, che sciama tra le stimmate del mondo. Sembra di ascoltare le parole che Michajl Suslov, “responsabile del Partito per le questioni ideologiche”, rivolgerà a Vasilij Grossman, dieci anni dopo, “Lei mette tutto quanto in questione… Lei si è semplicemente isolato”. Gli isolati: eccoli, quei temerari che mettono in scacco il rigore dei colti, la protervia dei potenti. Così, Simone Weil va bene finché la si legge, purché resti nei vasti silos del sistema culturale; un film è utile se si occupa di denuncia sociale se implica una polemica politica, semmai se si configura come pura estasi estetica: non può conficcarsi nell’arteria morale, non può sconfinare, turbare il quieto vivere dell’uomo, convalidare a contrario l’ordine del mondo. Eppure, nelle pagine più limpide dei Quaderni, Simone Weil scrive righe che pretendo l’azione, la conversione, non la conversazione dei pii intelletti: “Accettare di essere anonimi, di essere materia umana (eucarestia). Rinunciare al prestigio, alla considerazione… Spogliarsi degli ornamenti, sopportare la nudità”.

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Il punto è tutto lì: classificare, coincidere con un codice, stare nel dramma del tempo con una didascalia, con una definizione ben defecata, prostrarsi al mercimonio dei ruoli. Infine, Irene, giudicata ‘strana’ da quelli che con giustizia e virtù abitano questo mondo, viene rinchiusa in manicomio. Lei non obietta, lei non si ribella, trama di rabbia non benda il suo viso; non ha intenzioni, non ha ambizioni, nulla ha da dimostrare, da dire, da ridire. “Forse è diventata comunista? Forse vuole entrare in monastero?”, la sfida un medico. Ma la donna è al di là del giudizio e della differenza, non si fa soggiogare dal trabocchetto politico, dalla tara religiosa, “Proprio perché sono niente, posso abbracciare tutto”, dice, e tacita tutti, li squalifica e turba. Purché incanalata in una cifra, in una tessera, in un partito, in una tonaca, la stranezza è compresa; la pura scelta è incomprensibile, l’abisso terrorizza.

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“Si rintana tacendo, perduta in sé e agli altri… Nomina l’innominabile… Forse è veramente ‘folle’ perché è perduta nell’Altro… Conoscerla è non saperne nulla… Con ‘lei’ non c’è niente da dire o da fare”, scrive Michel de Certeau in Fabula mistica dicendo della rifiutata, dell’aborto tra gli aborti, dell’umiliata tra i gangli del monastero; della necessità che uno, anonimo magnete, annientato, incorpori ed espii le colpe di tutti. Così, Irene non vuole la protezione di un’idea, di una ideologia, di un ‘ordine’: si lancia a precipizio nel niente, nello zero dell’uomo, e ne sorride, perché sta nella preghiera incessante, senza pregare, in una sorta di inspiegata danza. Resta in obbedienza all’abiezione, come ciò che è rigettato, come un tozzo di vomito. Ma è nell’abiezione, purissima, la vittoria.

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Goffredo Fofi, quanto alla ricezione di un film irricevibile, ha riassunto il tutto così: “Forse è il film più bello tra i film belli di Rossellini, tra i suoi capolavori, ma in ogni caso Europa ’51 è certamente il film più politico di questo regista, di cui più tardi una certa astuzia politica avrebbe limitato l’ispirazione. È un capolavoro che l’Italia del tempo si meritava, ma che non si meritavano i critici e ideologi che del suo cinema si occupavano”.

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Resta il titolo, di cui va snodato il mito. Europa porta in sé l’ambiguo, il rapimento, lo stupro, il mostro. Sedotta da Zeus in forma di toro, violata da Zeus in forma di aquila, “in un boschetto di salici accanto a una fonte”, a Creta, da Europa nasce Minosse, il re che ha ordito il labirinto. Alla storia di Europa si lega l’unione della donna con la bestia – il toro –, la profezia del mostro, Minotauro, e l’enciclopedica vicenda di amori frustrati, di mutilazioni, di leggi dell’uomo – raffigurate dal palazzo/labirinto – che domano il caos del mondo, il selvaggio bifronte, il molteplice. Vicenda, soprattutto, in cui è indistinguibile la differenza tra cosmo e caos, tra armonia e disordine, tra assassino e assolto.

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Infine, proprio perché mansueta, certa del crollo, Irene è abbandonata dai suoi – il marito, che non osa baciarla, la madre, impellicciata, che non osa abbracciarla – nell’ospedale psichiatrico. Per strada, il prete consola i familiari, vili, mentre è un corteo di poveracci, di borgatari, di freaks che grida, da fuori, “è una santa!”, ornando la fine del film. Dalle sbarre della sua cella, Irene, ovvero Ingrid Bergman, sembra la Madre di tutti i dolori, la creatura abnorme e che non ha disciplina, pietà nel fuoco, cosa che appena si sussurra.

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