10 Febbraio 2023

“Ti farò mia sposa per sempre”. Sul mio amore assoluto per “Il tè nel deserto”

Ho amato talmente tanto Il tè nel deserto, che un giorno sono andata a Tangeri anche per visitare l’Hotel Continental, che svetta dall’alto di una collina impregnata di case bianche. Lì ci sono ancora le foto di John Malkovich (Port) e Debra Winger (Kit), i protagonisti del film, e quelle di Bernardo Bertolucci.

Tangeri è una città magica che Paul Bowles ha amato molto, e come lui l’hanno amata tanti scrittori della Beat Generation, che infatti andavano a trovarlo spesso quando vi si trasferì con la moglie Jane Auer. Oltre al Continental, volli vedere anche il famoso Cafè Hafa, il bar a picco sul mare dove Bowles adorava scrivere. Lì ci si può sedere sulle scalinate azzurre che si confondono con il cielo, mentre si beve tè e si ammira l’orizzonte, e dove l’Atlantico e il Mediterraneo sembrano baciarsi.

C’è poco da fare, non c’è cura per il Mal d’Africa. Io mi sono ammalata non appena misi piede per la prima volta a Marrakech. Nella piazza Jamaa el Fna, in uno dei tanti ristoranti sotto ai tendoni, mi sedetti, e mi misi a piangere: per la prima volta mi sentivo a casa. Poi, quella sera, dopo essermi riposata nel riad, decisi di uscire di nuovo e di andare alla scoperta di quella città di notte. Non andai alla ricerca di prostitute come Port, avevo semplicemente bisogno di una bottiglia d’acqua. Mi ritrovai di nuovo in quella piazza brulicante di odori, tamburi, suoni, sapori, colori e fuochi. Mi avvicinai a degli uomini che stavano suonando e cantando seduti a terra in cerchio. Quello senza un dente fece cenno di unirmi al gruppo. Sentii i miei demoni risvegliarsi. Se avessi fatto un passo in più, forse non sarei mai più tornata. Rimasi poco distante, ringraziai con un sorriso, restai a osservarli, rapita da quel fragore, da quella vita che pulsava. Poi me ne tornai al riad, mentre i ragazzi mi gridavano “Gazelle!”.

Che cosa spinge le persone a viaggiare, ad andarsene? La noia, la ricerca di qualcosa, magari dell’ispirazione? Port e Kit si definiscono viaggiatori. Secondo Port, un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva; secondo Kit, un viaggiatore può anche non tornare affatto. Nessuno dei due tornerà dal deserto. Uno per un motivo, una per un altro. Nel mentre, le loro vite splenderanno tra la sabbia e la polvere.

“Erano i luoghi come quello, i momenti così, ch’egli amava sopra ogni altra cosa nella vita; Kit lo sapeva, e sapeva anche che li amava di più se lei era presente, a sperimentarli con lui. E sebbene fosse ben consapevole che quegli stessi silenzi, quegli stessi luoghi deserti che gli toccavano il cuore la riempivano di sgomento, non sopportava di sentirselo ricordare. Era come se ogni volta gli rinascesse la speranza che anche lei potesse sentirsi affascinata nello stesso modo dalla solitudine e dalla vicinanza con l’infinito. Spesso le aveva detto: “È la tua unica speranza,” e Kit non era mai ben certa di che cosa intendesse dire. A volte pensava che intendesse alludere all’unica speranza per lui, che soltanto se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscito a ritrovare la via dell’amore, dato che amore, per Port, voleva dire amare lei: l’eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno. E da tanto tempo, ormai, l’amore non c’era, ne era mancata la possibilità. Ma nonostante la volontà di diventare come egli voleva che lei diventasse, Kit non poteva cambiare fino a quel punto: il terrore era sempre dentro di lei, pronto a prendere il sopravvento. Era inutile pretendere il contrario. Ma proprio come lei era incapace di scrollar via lo sgomento che sempre l’accompagnava, Port era incapace di liberarsi della gabbia in cui da se stesso si era chiuso, la gabbia costruita tanto tempo prima per salvare se stesso dall’amore”.

Se esiste un Dio, quel Dio è nel deserto.

La punirò per i giorni dedicati ai Baal,
quando bruciava loro i profumi,
si adornava di anelli e di collane
e seguiva i suoi amanti,
mentre dimenticava me!
Oracolo del Signore.

Perciò, ecco, io la sedurrò,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.

Le renderò le sue vigne
e trasformerò la valle di Acor
in porta di speranza.
Là mi risponderà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.

E avverrà, in quel giorno
– oracolo del Signore –
mi chiamerai: “Marito mio”,
e non mi chiamerai più: “Baal, mio padrone”.

[…] Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nell’amore e nella benevolenza,

ti farò mia sposa nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.

(Os 2, 15-22)

Ed è proprio questo cha accade a Kit. Port la conduce nel deserto per risvegliare il suo amore, per far rinvenire quella coppia affievolita nella noia di un’America borghese. Nonostante i tradimenti di entrambi, gli errori, le incomprensioni, un matrimonio avvenuto molto presto, amarsi è ancora possibile, nonostante il nichilismo di Port, il fatalismo di Kit. Lui la vuole, la rivuole, proprio come uno dei profeti minori, Osea, viene costretto dal Signore a sposare una prostituta, che lo abbandonerà, tradirà, ma lui, come il Signore, perdonerà, saprà riconciliare moglie e marito come Dio con il popolo d’Israele.  

“Sai una cosa?” mormorò Port con grande serietà. “Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù. Non è così?”.

Anche lo scrittore, in qualche modo, è un traditore che tratta la vita come un’amante: la cerca, la esplora, la ama, la tradisce, la lascia, la riprende. Non vorrebbe mai separarsene, anche se è difficile stare insieme.

Nel deserto, tutto diventerà possibile. Non è un luogo dove perdersi ma dove ritrovarsi. Il matrimonio non è quella roba di cui si parla nelle barzellette, non è una cosa oscena; è amore, è sacrificio, è capacità di adattamento. Ne deve valere la pena. Due persone non sono unite da un figlio, anzi, molte volte il figlio diviene il terzo incomodo, il distruttore della perfezione, è divisivo.

E non sono nemmeno unite da un contratto. Ciò che unisce gli innamorati è la consapevolezza di non poter fare a meno l’uno dell’altra. Sanno che se uno dei due morirà prima dell’altro, non resterà che perdersi nel deserto e forse non fare mai più ritorno. Perché nulla avrà più importanza. Quando la tua anima gemella muore prima di te, non avrai più paura di morire. Non resta che aspettare. Un nuovo amore? La solitudine? La perdizione? La morte? Si tratta di amare fino allo sfinimento, pur comprendendo che nessuno ci appartiene e che se si ama si deve anche saper lasciare andare.

“Ora non ricordava le loro numerose conversazioni costruite attorno all’idea della morte, forse perché nessuna idea riguardante la morte aveva qualcosa in comune con la presenza della morte. Non ricordava come avessero convenuto che uno non poteva essere niente se non morto, che le due parole insieme creavano un’antinomia. Né le veniva in mente come una volta avesse pensato che, se Port fosse morto prima di lei, in sostanza non avrebbe creduto che fosse morto, ma piuttosto che fosse in qualche modo rientrato in sé per restarvi, e che mai più egli avrebbe avuto coscienza di lei; così che, in realtà, sarebbe stata lei quella che avrebbe cessato di esistere, almeno fino a un certo grado. Sarebbe stata lei quella che era parzialmente entrata nel regno della morte, mentre lui avrebbe continuato a esserci, come angoscia dentro di lei, porta rimasta chiusa, occasione irrimediabilmente perduta”.

La vita è amare e farsi amare, trovare qualcuno che renda il nostro passaggio degno di essere vissuto; trovare qualcuno che riempia, cui dare se stessi. E il tradimento, come nel racconto, a volte può essere solo un diversivo, un altro modo per farsi del male, per autodistruggersi, per riempire un vuoto troppo grande. L’importante è non confessare, l’importante è avere abbastanza spazio, dentro, per contenere il senso di colpa.

Bisogna arrivare alla fine dei propri giorni avendo meno rimpianti possibili, o non avendone affatto. Questa è l’unica vittoria sulla morte. Si salva soltanto chi comprende come prendersi cura di sé, seppur in modo maldestro, chi agevola le proprie passioni, chi riesce a dichiarare quello che ha nel cuore, chi esprime le proprie emozioni, senza bisogno di urlare. Non c’è onore nel silenzio, nella finzione e nella repressione di sé. Non è più tempo del pudore e della vergogna di raccontare.

Nel 1990 esce “Il tè nel deserto” nella traduzione cinematografica di Bernardo Bertolucci

Port non è un Ivan Il’ič costernato dalla morte perché consapevole di aver vissuto una vita inutile, sbagliata, dedicata solo al lavoro, al potere, a una famiglia che, una volta sul letto di morte, non vede l’ora che spiri senza dare troppo fastidio. No, Port è afflitto dall’arrivo della morte perché, nonostante la vita non abbia un senso, lui un modo per godersela lo aveva trovato, un modo per esserci veramente, consapevole dell’inesistenza del presente: un misero istante tra l’abbraccio del passato e del futuro. Tutto cambia, evolve, muore continuamente. E così deve essere, se si vuol essere di nuovo. La morte stessa potrebbe rivelarsi niente più che una grande transizione verso qualcosa o verso il nulla. E come affrontare il passaggio senza aver prima imparato a vivere?

Prima la morte non c’era, ora c’è. E allora tutto diviene ossessione, caos. Ma quello che non vogliamo vedere, è che spesso sono proprio le nostre ossessioni a difenderci dalla depressione più nera.

“Sai,” disse Port, e la sua voce suonò irreale, com’è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso, “il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida, lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro”.
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: “Da quello che c’è dietro?”.
“Sì”.
“Ma che cosa c’è, dietro?”
La sua voce era fievole. “Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta”.

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