“Era alto e snello, aveva la pelle scura e camminava a grandi falcate, tanto che pensai dovesse essere un indiano mezzo sangue, e non un europeo. Oscillava un poco, ma si manteneva sempre eretto, lasciando pendere il capo leggermente di lato, come un solitario, sempre in ascolto di qualcosa”.
Il volume si apre con l’Elogio funebre del vecchio amico di Kafka, Felix Weltsch, all’indomani della sua morte (a quarantun anni) e si chiude con i preziosi ricordi di Max Brod, che dedicò l’intera sua vita all’opera postuma dell’amico, ancorché Kafka gli avesse chiesto di bruciare tutti i suoi manoscritti. Ad eccezione dell’apertura e della chiusura, i ricordi procedono in linea con la biografia dello scrittore e ci restituiscono una vivida immagine dell’uomo, secondo testimonianze personali e dirette di amici, colleghi, compagne e compagni di vita. Tra queste, spicca un gioiello di dolcezza e compassione. È di nuovo Dora Diamant a consegnarcelo. Una di quelle rare gemme che dischiudono intime e superiori verità esistenziali.
“Quando eravamo a Berlino, Kafka andava spesso allo Steglitzer Park. Talvolta lo accompagnavo. Un giorno incontrammo una bambina, che piangeva e sembrava disperata. Le parlammo. Franz le chiese che cosa le fosse successo e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola. Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina era un po’ diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. La bambina, incuriosita, aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni, e Franz se ne tornò subito a casa, per scrivere la lettera.
Si mise al lavoro in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera. Era nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania o stava anche solo scrivendo a qualcuno. Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione.Il giorno successivo portò la lettera alla bambina, che l’attendeva al parco. La bambola spiegava che ne aveva abbastanza di vivere sempre nella stessa famiglia ed esprimeva il desiderio di cambiare un po’ aria, in una parola, voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina, cui peraltro voleva molto bene. Prometteva tuttavia di scrivere ogni giorno – e Kafka scrisse effettivamente una lettera ogni giorno, raccontando di sempre nuove avventure, le quali, seguendo il particolare ritmo vitale delle bambole, si snodavano in modo rapidissimo. Dopo alcuni giorni, la bimba aveva scordato la perdita reale del suo giocattolo e pensava solo e semplicemente alla finzione che le era stata offerta come sostituto. Franz scrisse ogni frase di quella sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile: era cresciuta, era andata a scuola, aveva conosciuto altre persone. Rassicurava sempre la bimba del suo amore, ma alludeva anche a complicazioni della sua vita, ad altri doveri e altri interessi che, al momento, non le permettevano di riprendere la vita in comune. La piccola veniva pregata di riflettere sulla cosa e veniva così preparata all’inevitabile rinuncia.
Il gioco durò come minimo tre settimane. Franz aveva una paura terribile al pensiero di come avrebbe potuto finire il tutto. Perché la fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Cercò a lungo e decise alla fine di far sposare la bambola. Descrisse dapprima il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio, poi in ogni dettaglio la casa dei giovani sposi: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”. Franz aveva risolto il piccolo conflitto di un bambino attraverso l’arte, attraverso il mezzo più efficace di cui disponeva personalmente per riportare ordine nel mondo”.
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Un diamante di nome e di fatto, quello di Dora Diamant: Kafka nelle vesti di “postino di una bambola” per rallegrare una bambina, per accompagnarla nell’accettazione della rinuncia e trasfigurare il senso della perdita attraverso la finzione letteraria.
Le lettere alla bambola, purtroppo andate distrutte per mano della Gestapo, sono state fortunatamente salvate e immortalate dal ricordo di Dora e anche in quello di Max Brod, che completa il quadro: la corrispondenza con la bambola si esaurì solo quando Kafka dovette trasferirsi per il suo ultimo viaggio a Praga-Vienna-Sanatorio di Kierling. Pur nelle molte preoccupazioni di quel trasloco così tragico, non dimenticò di regalare alla bambina una nuova bambola, facendola passare per quella smarrita…
Forse stupisce tanta empatia e maestria consolatoria nell’autore di mondi crudeli, ove dimorano orrende metamorfosi, leggi inspiegabili e inette, burocrazie anonime, feroci punizioni e condanne. Giurista di formazione ma scrittore per vocazione, Kafka ha saputo dipingere come nessun’altro la lacerazione dell’uomo calato nel grigiore della vita dei giorni ma al tempo stesso proiettato alla costruzione della topografia di un’anima e di un’epoca. Scrittore lucido e visionario, solitario e tragico, nei suoi libri Kafka rifugge da ogni intento consolatorio o edificante: è l’angoscia a dominare la sua scrittura, perfettamente cesellata fin nei minimi dettagli, dove una realtà assurda vive a fianco della banale esistenza di ogni giorno.
Le sue opere, allucinate allucinazioni, sono le grida notturne di chi è braccato e brancola nei labirinti di un’epoca che ha smarrito ogni umanità, ogni divinità, ed è consegnata all’angoscia. Scrive di notte, Kafka; le sue giornate trascorrono in una compagnia assicurativa, dove si guadagna da vivere, mentre il mondo si inabissa inesorabilmente negli orrori del primo conflitto mondiale. Un’opera, la sua, che a lungo ha gettato un’ombra sull’uomo, fino a coniare l’aggettivo “kafkiano” a richiamare labirinti e mostruosità, situazioni oltremodo negative. Ma queste lettere alla bambola non hanno proprio nulla di “kafkiano”, al contrario, sono un’icona di dolcezza – quella di un uomo acuto e sensibilissimo, buono, incapace di arrendersi alla crudeltà della vita, con i suoi abbandoni, perdite, rinunce…
“Qui, in questa tenue luce di stelle, e non nei colpi di scena alla Allan Poe” – dice Max Brod riferendosi all’episodio con la bambina – “si sentiva a casa, questa era la direzione in cui andava evolvendo, e che anelava. Fosse rimasto in vita, avremmo probabilmente vissuto svolte del tutto inattese della sua fantasia. Forse avrebbe anche smesso di scrivere e tutta la sua passione creatrice si sarebbe appagata nella forma di una vita beata, nello stile di Schweitzer, del grande medico e liberatore. Molto di quello che gli ho sentito dire preannuncia questa via”.
Forse stupisce, dicevamo, che Kafka sia stato artefice di simili lettere, dal perfetto e splendido equilibrio tra vita e scrittura, tra una bambina e una bambola. E forse stupisce anche che la sua letteratura stesse evolvendo verso una “tenue luce di stelle”, verso una nuova “sfera del bene e della fantasia faceta”, come ci riferisce Brod. Stupefacente sì, ma forse non troppo: chi affronta severamente la realtà, in modo quasi masochistico, aberrante e brutale, muove il primo passo dalla sua sensibilità, vi si allontana forzosamente (e soffre, facendolo), ma compie l’ultimo passo per ritornarvi. Forse perché la durezza della vita trova una ragione solo in quella dolcezza, e viceversa. Chi comprende questo inevitabile gioco di opposti oscilla continuamente tra questi estremi, non sfugge a questa altalena, vi resta, asseconda con pensieri e azioni questo moto perpetuo di forze divergenti dove ogni cosa trova ragione nel suo opposto: non vi sarebbe luce, se non esistesse l’oscurità. Non vi sarebbe amore, senza l’odio. Che ne sarebbe della vita, se non esistesse la morte? E del tempo, se non vi fosse spazio?
Kafka ha trovato varie occasioni per sperimentare brutalità e dolcezza, come ognuno di noi. Ma ha scelto di usare la sua arte per assecondare e contribuire a questo campo di forze. In questo episodio con la bambina che piange sconsolata esi affaccia ai primi dispiaceri della vita, Kafka è pura letteratura. La scrittura diviene strumento con cui lenire il dolore – chiave di condivisione di una sofferenza che va seriamente ascoltata e richiede sostegno, una mano tesa, un polso pronto a vergare parole di amorevole compassione.
Lo scrittore, come noi tutti, è attratto dall’innocenza perché è una delle poche cose a cui non ci si può educare e, una volta persa, è irrecuperabile. Osservare l’innocenza con occhio protettivo ci eleva, ci avvicina al divino, e ci concede una tregua dalle avversità della vita. Non la possiamo acquistare; ma la vogliamo proteggere, come se ci appartenesse, quasi che il solo atto di protezione ce ne centellinasse ancora una goccia.