Titolo e sottotitolo scelti da Agamben per questo libro (La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843, Einaudi 2021, p. 242, € 20,00) indicano esattamente ciò che intende mettere in discussione: la “follia” di Friedrich Hölderlin e la sua scelta poetico-esistenziale.
Dal 1807, dopo essere stato dimesso da una clinica e giudicato insano di mente, il poeta svevo visse per 36 anni ospite di un falegname nella fatidica “torre” di Tubinga, dove continuò a scrivere firmandosi talvolta enigmaticamente come Scardanelli e con date inattendibili, a suonare il pianoforte e ad accogliere ospiti, riverendoli spesso con gli appellativi più strani. Discordanti, talvolta contraddittorie sono le testimonianze sulla sua condizione da parte di chi in quel lungo periodo ebbe modo di incontrarlo. Chi più ha contribuito a creare l’immagine del poeta in preda alla follia è stato Wilhelm Waiblinger, autore di una biografia romanzata (Friedrich Hölderlin. Vita, poesia e follia, Adelphi 2009) di indubbio successo, ma che poco lascia intendere degli eventi realmente accaduti nella vita del poeta, di ciò che ne rende unica e irripetibile l’opera e tanto meno delle sue segrete motivazioni.
Al testo di Waiblinger e a tutti gli altri documenti disponibili (lettere e poesie del poeta, lettere e scritti di amici, conoscenti, medici, editori) si rifà Agamben per dare forma alla parte centrale del libro, dedicata alla “cronaca” della cosiddetta “follia” hölderliniana, dal 1806, quando la madre cerca un contributo economico per la cura del “figlio malato”, al 1843, l’anno di morte dello svevo.
Prima della “cronaca” il Prologo, utile al filosofo per argomentare la tesi per cui la “follia” altro non sia stata che una scelta. La scelta di un poeta che “alle soglie della modernità” prende “coscienza di star parlando a un popolo che non esiste più o, se esiste, non può né vuole ascoltarlo”. Un poeta che “deve riconoscersi nel filosofo o – com’egli dice in una lettera a Neuffer – cercare asilo nell’ospedale della filosofia”. Una condizione di sospensione, alimentata da ironia e aspetti spesso comici, quella di Hölderlin nella “torre”, metafora dell’abitare dell’uomo sulla terra, che, scrive Agamben, “non è una tragedia né una commedia, è un semplice quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”. È questa la conclusione nell’Epilogo del libro, laddove, a partire dall’ultima poesia di Hölderlin, Die Aussicht (La veduta, traduce il filosofo), definisce la “vita abitante”, così come da lui individuata nel primo verso, come “una vita poetica, che abita poeticamente”, cioè dichterisch, dal latino dictare, dettare, che progressivamente ha assunto il significato di poetare, cioè “una vita che vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile padroneggiare, secondo un abito”.
È davvero questo il contenuto più significativo di quell’ultima poesia? Riprese in mano le pagine hölderliniane di Romano Guardini (Opera Omnia vol. XXI – Hölderlin, Morcelliana 2014), si legge come il teologo suggerisca di immergersi in quei “frammenti dell’epoca tarda, spesso così scompigliati”. “Bisogna andar dietro alle frasi, alle immagini, alle parole”, aggiunge. Solo così “l’unità si forma”, lasciando emergere tutta la potenza del “vedere” di Hölderlin, tutta la sua capacità di “superare gli abissi”. Da qui una mia proposta di traduzione di Die Aussicht, con alcune scelte discordanti rispetto a quelle di Agamben, a cominciare dal titolo, sul quale il filosofo non ha ritenuto utile svolgere la stessa indagine etimologica effettuata per wohnen (abitare), Wahnsinn (follia), dichten (poetare) ecc. È proprio quell’Aussicht, il cui significato va oltre la derivazione da sichten, “scorgere” (da cui veduta, secondo la vulgata ormai sedimentata) a chiudere la parabola del poeta in una prospettiva tutt’altro che passiva.
Nato nel Settecento nel contesto del giardinaggio per indicare vista ampia, Aussicht ha assunto presto il significato figurato di prospettiva, perfino speranza. Così il Duden, l’autorevole vocabolario universale tedesco: Aussicht auf etwas haben = auf etwas begründete Hoffnung haben, cioè “avere una fondata speranza in qualcosa”, al contrario, per aussichtlos viene indicato come sinonimo hoffnungslos, cioè “senza speranza”.
Da qui l’ipotesi che con Die Aussicht il “folle” Hölderlin più che sull’umano fallimento della “vita abitante” abbia voluto gettare lo sguardo su ciò che autorizza ad una speranza fondata.
Friedrich Hölderlin, Die Aussicht
Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben,
Wo in die Ferne sich erglänzt die Zeit der Reben,
Ist auch dabei des Sommers leer Gefilde,
Der Wald erscheint mit seinem dunklen Bilde;
Daß die Natur ergänzt das Bild der Zeiten,
Daß die verweilt, sie schnell vorübergleiten,
Ist aus Vollkommenheit, des Himmels Höhe glänzet
Dem Menschen dann, wie Bäume Blüht’ umkränzet.
Mit Untertänigkeit
Scardanelli
d.24 Mai1748
*
Traduzione di Giorgio Agamben
La veduta
Quando lontano va la vita abitante degli umani,
dove lontano splende il tempo delle viti,
e vicini sono i vuoti campi dell’estate,
la selva appare con la sua scura immagine;
che la natura compia l’immagine dei tempi,
ch’essa si fermi e quelli subito trascorrano,
è per la perfezione, l’altezza del cielo risplende
per l’uomo, come alberi incoronati di fiori.
Con soggezione
Scardanelli
24 maggio 1748
*
Traduzione di Vito Punzi
La speranza
Quando in lontananza trascorre residente la vita degli uomini,
dove in lontananza risplende il tempo dei vitigni,
lì vicino è anche il vuoto campo d’estate,
il bosco appare nel suo ritratto oscuro.
Che la natura completi il ritratto dei tempi,
ch’essa si soffermi, mentre quelli scivolano via velocemente,
accade per perfezione, e la sommità del cielo
risplende all’uomo così come la fioritura incorona gli alberi.
Con sottomissione
Scardanelli
24 maggio 1748