Nell’agosto del 1796 una lettera indirizzata a Friedrich Hölderlin reca, senza introduzioni e spiegazioni, questi versi:
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio –
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! –
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi –
Nel leggere Il linguaggio e la morte di Giorgio Agamben gli ignari (categoria di lettori in cui almeno io mi inserisco) rimangono piacevolmente sorpresi nello scoprire che i versi sono stati scritti da un giovanissimo Hegel (un Hegel prima di Hegel se si può dire, un Hegel prima di quella grand’opera che è la Fenomenologia dello spirito), e che sono inseriti all’interno di un fitto scambio avvenuto tra il luglio del 1794 e il novembre del 1796 nel pieno grembo della rivoluzione francese. L’epistolario è stato pubblicato all’interno del libro Hegel-Hölderlin. Eleusis, carteggio edito da Mimesis nel 2014, il quale testimonia non solo una viva amicizia, ma una consonanza di pensieri, di gesti:
“Fratello caro! Sono sicuro che mi hai pensato, dal tempo in cui ci siamo separati con quella parola d’ordine: Regno di Dio! Ci riconosceremo, con questa parola d’ordine, credo, anche dopo qualsiasi metamorfosi. Qualsiasi cosa avvenga di te, ne sono sicuro, in te mai il tempo cancellerà questo tratto. Penso che lo stesso sarà anche per me. E questo tratto infatti ciò che ambedue di preferenza apprezziamo. Come siamo certi dell’eternità della nostra amicizia. D’altra parte, ti bramerei sovente vicino a me. Sovente fosti infatti il mio genio! Molto te ne sono grato. Sento questo completamente solo dopo la nostra separazione. Da te vorrei ancora moltissimo apprendere e parteciparti anche talvolta qualche cosa di mio”. Così Hölderlin a Hegel, 10 luglio 1794.
Ora, tutti più o meno sanno o hanno avuto a che fare (purtroppo o per fortuna, nel dettaglio o in superficie) con quel colosso della filosofia (ponte di passo tra l’età moderna e quella contemporanea) che è Hegel. Tutti ne hanno avuto a che fare ma solo chi indaga con la lente di ingrandimento negli scritti hegeliani s’accorge di come una poesia come Eleusis sia tutt’altro che strana e incomprensibile all’interno della vita di Hegel. Quasi avesse potuto essere un pensiero circoscritto (certo: come se un pensatore maniacalmente organico com’è Hegel fosse capace di fare pensieri circoscritti). Come scrive Agamben: “È superfluo ricordare come simili considerazioni vengano meno alla più elementare correttezza ermeneutica, perché omettono di esaminare proprio ciò che per esse dovrebbe costituire il problema, cioè la relazione interna fra il mistero di Eleusis e il pensiero di Hegel”.
Il mistero di Eleusi si ripropone infatti nel primo capitolo della fenomenologia dedicato alla certezza sensibile (che si rivelerà non così tanto certa) in cui il filosofo invita a “tornare alle scuole primarie della saggezza, cioè gli antichi misteri eleusini di Cerere e di Bacco” coloro i quali affermano la verità (appunto la certezza) delle cose sensibili. Il mistero si inserisce quindi nel vivo del movimento dialettico e nell’essere più intimo del linguaggio. Il linguaggio in effetti rincorre qualcosa, un quid, un indicibile a cui tutti i poeti passeggiano di fianco senza mai avere la reale pretesa di dirlo (e non perché “sia vietato” dirlo ma perché, come mostra la certezza sensibile, esso non si lascia dire).
E questo indicibile si fa strada anche nelle poesie di Hölderlin sì da rendere chiaro il perché della scelta, da parte di Hegel, di un tale interlocutore.
Ricche di frutti gialli,
fiorite di rose selvagge,
si specchiano le rive
nel lago.
E voi, cigni soavi,
il capo tuffate per entro
la casta santità dell’acqua,
ebbri di baci.
Ma come, ahimè, discendano
le nebbie d’inverno,
ove sarà ch’io trovi,
coi fiori e la luce del sole,
un’ombra almeno della dolce terra?
I muri stanno
afoni e freddi:
scosse, sui tetti, gemono
le banderuole
nel vento.
Tra poeta e filosofo allora si delinea una profonda assonanza che innesca una commistione nel pensiero dell’uno e dell’altro. Commistione in cui filosofia e poesia non hanno più confini così nitidi come si potrebbe pensare, anche perché in fondo la materia prima, la radice cui si attinge per parlare è sempre quella, cambia solo la forma (anche se poi in realtà questo “solo” implica non poco). E questi pensieri poi, se son veri pensieri, non si limitano ad essere tali ma debordano, escono dalla loro cella per farsi sostanza viva dei gesti:
Anche questa notte, sacra divinità, ti ho inteso,
spesso a me ti rivela la vita dei tuoi figli,
e come anima dei loro atti io ti presento!
Tu sei l’alto senso, la fede sincera
che, divina, anche quando tutto crolli, non vacilla.