19 Agosto 2023

In Oriente con Paul Claudel. “Connaissance de l’Est”, un’opera da riscoprire

Il 1886 fu l’anno destinale della vita di Paul Claudel. In quell’anno fatidico gli si dischiuse inattesa la duplice rivelazione della poesia e della fede, dopo il bagno di materialismo giovanile in cui era stato immerso. Claudel ‘scopre’ la poesia attraverso una rivista comprata per strada in cui appaiono le prime Illuminations di Rimbaud, il “mistico allo stato selvaggio” che sarà la stella polare di tutta la sua lirica successiva.

Rimbaud attraverso le sue possenti visioni, animate da una furia e da una concentrazione lirica quasi soprannaturali, aprì una breccia nel muro di quell’acerbo materialismo, segnando la sua fuoriuscita definitiva dal mondo, che poi definirà orribile, dei Taine, dei Renan e degli altri Moloch del diciannovesimo secolo. Le Illuminations gli comunicarono l’impressione vivente e pressoché fisica del sovrannaturale, suggerendogli l’idea di una sorta di generazione nell’ordine degli spiriti, non dissimile da quella dei corpi. 

Il suggello di Rimbaud, la sua influenza seminale si imprimeranno da allora sulla sua poesia, facendo di Claudel una sorta di suo nipotino addomesticato e incivilito, senza la barbarie primigenia che animò la biografia e l’opera del genio di Charleville. Quella indelebile impressione del sovrannaturale fecondò il terreno anche del ritorno alla fede, che avvenne il giorno di Natale di quel 1886, ascoltando il Magnificat dentro Notre Dame, accanto al secondo pilastro della navata destra della cattedrale. La liturgia celebrata nel cuore spirituale della Francia segnò l’irruzione improvvisa in lui della Grazia divina, del sentimento lacerante dell’innocenza e dell’eterna infanzia di Dio in un totale innalzamento del suo essere e in una rivelazione ineffabile. 

La fede impronterà tutta la sua scrittura, dando vita ai frutti forse più alti della poesia ‘cristiana’ del Novecento. 

La prosiversificazione biblica di Claudel è spesso sospesa tra grandezza e declamazione, tra sincerissimi accenti di trasporto mistico e turgori retorici, in un nodo indissolubile che ha condotto ad epitetarlo con il caustico nomignolo di “Eschilo da boulevard”. Claudel fu anche questo, non lo si può negare, e il pericolo dell’autocaricatura enfatica del suo più autentico nucleo poetico si annida spesso nella sua opera, ma tale e tanta è la magnificenza dei suoi versi migliori da consacrarlo comunque tra i massimi poeti della lingua francese. 

Forse oggi i ruoli si sono paradossalmente ribaltati e si ricorda talvolta Claudel più come il fratello della geniale scultrice Camille, amante di Auguste Rodin e per molti anni internata in manicomio sino alla morte, nel 1943. Le circostanze biografiche di Camille ne hanno fatto un’icona culturale quasi prescindendo dalla straordinaria parabola della sua arte, a conferma di come nell’immaginario a prevalere siano sempre le circostanze esteriori, le biografie vorticose o segnate dallo stigma della follia.

Ben diversa fu la parabola di Paul, che condusse la quieta vita del diplomatico in numerose sedi consolari e ambasciate sparse per il mondo; proprio la sua esperienza di console a Shanghai a partire dal 1895 si riverberò in quella che resta forse la sua raccolta più sincera e ammaliante, Connaissance de l’Est, il più alto esito del Novecento francese della tradizione baudelairiana del “petit poème en prose” o del prosimetro di Rimbaud.

Claudel lo ritenne il più mallarmeiano dei suoi libri e le sue atmosfere risultano appunto sospese tra la rarefazione estrema di Mallarmé, la liquefazione della parola che già prelude alla musica immateriale di Debussy, e l’inquietudine visionaria rimbaudiana. Nell’intento dell’autore esso doveva essere un albo di disegni orientali, un “livre d’exercises”.

“Ce n’est pas un recueil d’impressions mais d’explications, de définitions, de mise au net”, in cui Claudel mette a nudo il dramma nascosto dietro l’apparente immobilità dei paesaggi dell’Estremo Oriente, come la minaccia dei giorni che precedono i tifoni. A parte il Divano occidentale-orientale di Goethe e pochi altri sommi precedenti, l’orientalismo che aveva improntato la lirica europea dell’Ottocento era per la maggior parte di cartapesta, frutto di una visione in partenza distorta e falsata della civiltà e della cultura dell’Asia. 

Claudel riuscì nella straordinaria operazione di una fusione lirica tra i mondi dell’Oriente e dell’Occidente, plasmando la parola direttamente sui paesaggi squisitamente rarefatti della pittura cinese e giapponese e con risultati forse molto più persuasivi di quelli dei futuri Cantos di Pound, libro che Mario Praz definì, a parere di chi scrive a ragione, fra i più noiosi del mondo. 

Claudel intese compiere un ribaltamento copernicano della prospettiva con cui i poeti avevano sino ad allora considerato e recepito l’Oriente. Se l’artista europeo copia la natura seguendo il sentimento che ne ha, l’artista cinese o giapponese la imita avvalendosi dei mezzi che la natura stessa gli fornisce; il primo ‘si esprime’, il secondo ‘la esprime’. L’artista europeo è artefice e insieme allievo della natura; l’artista orientale ne è il mimo.

In questa prosa ammaliante l’uomo e la natura giungono ad una consustanzialità, a una contemplazione e ricezione mistica del paesaggio, fornendo una delle prime vere decifrazioni dell’Estremo Oriente compiute da un poeta occidentale. Il soggetto si mette in parentesi e si sospende dinanzi all’epifania del Divino contenuta nel dato naturale e la profondità di questa visione è la compiuta eradicazione dell’orientalismo di maniera che aveva dato vita a troppi versi oleografici, privi di reale partecipazione dell’anima.

Molti e molti decenni prima dell’Impero dei segni che Roland Barthes aveva divinato in un’altra grande civiltà asiatica, il Giappone, Claudel attraverso la sua bacchetta magica di poeta risveglia nella Cina ancora imperiale di inizio Novecento un formicolare di ‘segni’, un brulicare di riferimenti simbolici. Evoca la festa dei morti del settimo mese lunare, l’incontro tra il mondo terreno e quello ultraterreno, i lingotti di cartone che sono in qualche modo le monete dei morti, radunate come sciami di api dal rintocco dei gong. Si inoltra nel mistero della città notturna fasciata dalle ombre, contempla i giardini, le pagode, le fumerie d’oppio, le prostitute, telles que des betes à la foire… dans le pele-mele et la poussée des passants. Resta incantato dinanzi ad un banyan lussureggiante che gli pare un patriarca rivestito di fogliame tenebroso ma non dimentica di dedicare un poema in prosa anche a un animale che non appartiene al bestiario ideale dei poeti, al maiale, bestia superficialmente impoetica e che invece diviene suggello di un incontro spirituale, come la scrofa che dette i suoi presagi ad Enea. 

Rivivono in Connaissance de l’Est il giorno della festa di tutti i fiumi e l’umile riso, base dell’alimentazione del popolo cinese, le colline intraviste in lontananza attraverso la pioggia e le divinità arcaiche che ancora, prima che quel mondo svanisse nel delirio della secolarizzazione, sacrificato all’altare della “modernità”, animavano la psiche, i gesti e i più modesti atti quotidiani dell’uomo orientale. A chiudere il libro è una visione della dissoluzione finale, in cui on ne se rira plus de ce coeur trop aimant, del dissolversi del sacramento del corpo, quando l’anima del poeta riposerà nel seno di Abramo. “J’aurais beau chercher, je ne trouve plus rien hors de moi, ni ce pays qui fut mon séjour, ni ton visage beaucoup aimé”. 

I luoghi fisici e l’io stesso del poeta divengono liquidi, si smaterializzano in una visione in cui i confini tra il Cristianesimo e il Buddhismo sono aboliti, in cui l’Occidente e l’Oriente non conoscono più pareti divisorie e si uniscono nel grande abbraccio cosmico dell’Universale, in quell’ idea induista dell’Atman in cui il Sé individuale coincide con l’anima del mondo. 

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG