
I poeti sono troppi: sterminiamoli tutti!
L'Editoriale
Chi ha vissuto anche in una sola delle città tedesche ricostruite dopo le infernali tempeste di fuoco scatenate dagli “alleati” durante la Seconda guerra mondiale, chi le ha attraversate per una frazione di tempo che non sia quella del turista, calpestandone il suolo o percorrendone i puzzolenti gangli sotterranei, sa che sotto la loro superficie, a pochi metri di profondità, corre, ribolle e arde ancora, come lava invisibile, quel fuoco: “dono” dal cielo che illuminava e segnava la fine prossima della guerra e la vendetta, allora, linfa invisibile che scorre e nutre la memoria di quelle città, ora.
Ricordiamo solo alcune di alcune di quelle città: Lubecca, Paderborn, Osnabrück, Brema, Kiel, Münster, Hannover, Dresda, Berlino, Amburgo. I numeri dicono poco meno di 700.000 morti civili e circa 10 milioni di donne, uomini anziani e bambini privati di una casa. Per decenni i tedeschi, senza distinzione tra occidentali e orientali, hanno lasciato che solo qualche impudico scrittore rabdomante provasse a ridare voce, volti e nomi ai morti, a quelle vittime, perché così, “vittime”, non potevano proprio essere chiamate: c’era il senso di colpa, la colpa, da coltivare.
“Mi sento incaricato di darne conto”, scriveva Hans Erich Nossack nelle pagine autobiografiche raccolte in La fine. Amburgo 1943, pubblicato nel 1948 (trad. di B. Forino, Il Mulino 2005).
“Non chiedetemi perché ne parlo, con presunzione, come di una sorta di mandato: non so rispondere. Ho la sensazione che la bocca mi resterebbe serrata per sempre se prima non portassi a termine questo incarico. E sento anche l’urgenza di farlo sin d’ora. Sono trascorsi appena tre mesi, ma poiché la ragione non riuscirà mai a comprendere ciò che è accaduto in termini di realtà, né a conservarlo nella memoria, temo che tutto possa pian piano svanire come un brutto sogno”.
Nossack l’aveva capito subito: nulla avrebbe potuto la ragione (che predilige i vincitori agli sconfitti) per spiegare e per fare memoria di quell’orrore. Che cos’altro avrebbe potuto permetterlo, se non il fuoco? Quel fuoco nascosto, ma perdurante nelle viscere delle città tedesche ricostruite.
Insieme a Nossack pochi altri ne sono stati investiti. Pochi altri se ne sono nutriti: Heinrich Böll (L’angelo muto, trad. di A. Agabio, Einaudi 1997) e, su tutti, Winfried Georg Sebald (Storia naturale della distruzione, trad. di A. Vigliani Adelphi 2004).
Libraio a Torino, ma nato da tarantini a Heidelberg, Marco Lupo (1982) ha letto Nossack e Sebald nella loro lingua e ha deciso di condividerne il fuoco vivificante e rammemorante. Il suo Hamburg. La sabbia del tempo scomparso(Il Saggiatore, 2018) è opera cesellata con lingue di quel fuoco. Ed è scritto per frammenti. Tizzoni ardenti. Se ne possono leggere poche righe, qua e là. Senza troppa premura per intenderne la (flebile) trama.
C’è un espediente narrativo, è vero: il ritrovamento “inverosimile” di un libro cartonato di cui “mancano quasi tutte le pagine, a eccezione del primo capitolo”. Un romanzo breve intitolato Uomini cavi, “la data di pubblicazione è il 1989, l’editore sembra sconosciuto, l’autore è una sigla: M.D.”. E c’è un gruppo di lettori, i quali, condividendo l’opera monca di quell’ignoto scrittore, fanno esperienza del “tempo scomparso”, dei bombardamenti su Amburgo e della distruzione della città.
Attraverso la lettura, “il tempo implode e si ferma di fronte alla città distrutta”, scrive Lupo, “è come entrare nella bolla di un tempo non vissuto, e in qualche modo viverlo. Come se fosse possibile incarnarsi nell’essere umano che cammina nella bolla.”
Per aiutare l’accendersi della memoria in chi non ha vissuto, ma leggendo “s’incarna” negli esseri umani arsi dal fuoco e nei sopravvissuti, Lupo, memore anche qui della lezione sebaldiana, ha inserito una ventina di foto documentarie dell’epoca, di quei giorni, di quell’orrore. Perché gli attimi, anche quelli fissati in uno scatto fotografico
“quando finiscono, non terminano veramente, ma mormorano da una fonte sconosciuta e sussurrano le voci che hanno impastato con cura. Basta poco perché tornino in superficie”.
Hamburg è un libro riuscito perché scritto con lingua che sconquassa: “La lingua”, così viene definita nel libro, “è un terremoto che taglia le montagne della sintassi e cancella le vocali facendole tremare come polveri sottili”. Ed è di quel “terremoto” che c’è bisogno, per aprire fenditure nel tempo e voragini nelle città ardenti, lasciando che si propaghi la voce dei morti, degli arsi vivi.
Vito Punzi