L’editore lo definisce, candidamente, “icona letteraria”. Edmund White, classe 1940, è scrittore proustiano e irriverente, inafferrabile. Tra i libri più famosi, tradotti in Italia, ricordiamo Un giovane americano (Einaudi, 1990), E la bella stanza è vuota (Einaudi, 1992; poi Playground, 2013), La sinfonia dell’addio (Baldini e Castoldi, 1998), Ragazzo di città (Playground, 2010). Raffinato totem gay, White ha scritto, estratte da una bibliografia dilagante, tre biografie di genio. Si è dedicato a Jean Genet (Ladro di stile, il Saggiatore, 1997), a Marcel Proust (Ritratto di Marcel Proust, Lindau, 2010), ad Arthur Rimbaud (La doppia vita di Rimbaud, minimum fax, 2009). Tre autori che rispecchiano l’indole estetica di White. Ora. Per Bloomsbury è appena uscito l’ultimo, l’ennesimo, libro viziosamente autobiografico di White. S’intitola The Unpunished Vice. A Life of Reading, il New Yorker ne ha pubblicato un estratto in anteprima, da cui questa traduzione. White parla dei libri di cui si è nutrito. Sono moltissimi. Da Vladimir Nabokov a Samuel Beckett, da Henry James e Stephen Crane a Ezra Pound – Catai, soprattutto – adorato dall’adoratissimo da White, un certo Charles. “Chi sono gli scrittori più affabili? Marcel Proust e George Eliot; di certo, sono i più intelligenti, capaci di vedere le più selvagge implicazioni che sostano dietro ogni atto”. Anche White adotta lo stesso schema. Alla luce di un atto – un giorno in biblioteca – fa scaturire implicazioni impreviste.
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Ho sempre associato la scrittura al sesso. Ero in terza media, ogni pomeriggio stavo un’ora nella biblioteca della scuola di fronte a un amico – alto, magro, lentigginoso – dai capelli ricci e ramati, che aveva una pelle lucida, pallida, quasi bluastra. Assomigliava a quegli attori che hanno la gelatina sulla bocca, sulle sopracciglia.
Ogni giorno, arrivava alle due dal campo da calcio alla biblioteca. Aveva giocato per un’ora, non si era fatto la doccia. Puzzava in modo imperdonabile, come un’erba amara. Si sedeva sempre di fronte a me, all’altro lato del lungo tavolo della biblioteca. Avremmo fatto finta di leggere, fino a intrecciare le nostre gambe da quattordicenni una sull’altra. Pareva un tipo normale, popolare, atletico, era bravo in matematica. Stava flirtando con una bella bionda: si sarebbero avvinghiati uno all’altro, come nuotatori che annegano.
Quando stavamo seduti, ‘leggendo’, nella biblioteca, le nostre gambe a contatto, stringendole, rilassandole, sentivo i suoi muscoli, i quadricipiti sporgenti che coronavano le sue cosce. L’odore di erba amara era sempre più intenso e con esso cresceva il mio desiderio. Scivolavo sulla sedia, premevo il mio ginocchio sulla sua gamba, lui si ritraeva. Forse aveva paura che altri bambini ci vedessero. Non penso che gli interessasse altro: gli piaceva soltanto sapere di piacere, gli piaceva il proibito.
Ancora oggi, penso ai sinuosi e lunghi raggi del sole che nel pomeriggio passavano tra le grate della finestra, sul tavolo di legno, e penso al volto lucido e prosciugato di Danny, sopra il libro, il volto stremato dallo sport, ma ancora energico. E quell’odore: come gli odori forti, così selvaggiamente attraente, così repellente.
Sesso e letteratura. Una volta sono stato sbattuto così rumorosamente e per così tanto tempo che la padrona di casa, che viveva al piano di sotto, si è alzata alle 3 del mattino per lamentarsi. Il mio compagno, pieno di risorse, le ha detto che stavamo sistemando dei libri. Il giorno dopo inviai un bouquet alla padrona di casa, con un biglietto: “Mi perdoni per il rumore, sarà felice di sapere che i libri se ne sono andati”.
Edmund White