
“Soviet Man”. Hélène Iswolsky, l’anticomunista che oppose Cristo a Stalin
Cultura generale
Fabrizia Sabbatini
Il 9 maggio del 1978 viene ritrovato morto, in via Caetani, Roma, riverso nel bagagliaio di una Renault 4 rossa rubata all’imprenditore Filippo Bartoli, Aldo Moro. Per far stare il corpo nel bagagliaio, qualcuno – gesto di perizia o di compassione – ha abbassato i sedili posteriori della Renault 4. Il 24 agosto del 1978 lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che ha già scritto i libri considerati maggiori (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Todo Modo, La scomparsa di Majorana) termina la stesura de L’affaire Moro. Il libro viene pubblicato da Sellerio in Italia e quasi subito in Francia. Petulanti polemiche dilagano. Quando Aldo Moro viene rapito, il 16 marzo di 40 anni fa, Leonardo Sciascia ha già cominciato la sua ‘carriera’ politica. Eletto nel 1975 alle comunali di Palermo “come indipendente nella lista comunista… eletto con un numero di voti secondo solo a quello del capolista Achille Occhetto”, nel 1977 abbandona i ‘compagni’. “In questi mesi non s’è fatto niente, né in bene né in male… mi domando quando il Pci comincerà a dire di no”, dice Sciascia elevando un grido dalla palude del ‘compromesso storico’, “nessuno chiede la rivoluzione, basterebbe cominciare a far pagare le tasse a tutti”. 40 anni fa, quando il pollaio degli intellettuali esprime la propria indignazione nei riguardi del rapimento Moro, lo scrittore sta zitto. Qualcuno (Aniello Coppola, Paese Sera, 19 marzo 1978) glielo rimprovera: “da tempo arrivato alla conclusione che questo Stato sia da buttare”, scrive l’articolista, Sciascia, altrimenti “abituato a pontificare sugli umori segreti della coscienza pubblica, tace. Perché questo silenzio?”. Due giorni dopo Sciascia replica, con glaciale ferocia, attaccando il “terrorismo verbale” provocato dalla “parrocchia dello stalinismo innestatosi con indefettibile continuità sul fascismo e sul nazismo” (tutti i dati li traggo da Leonardo Sciascia. Opere. 1971-1983, Bompiani 2004, a cura di Claude Ambroise). Il rapimento di Moro, questo squarcio quasi cristico – c’è un prima e un dopo nella malmostosa storia moderna del nostro Paese – coincide con il momento apicale in cui la letteratura italiana s’incista nella Storia italiana. Leonardo Sciascia – con un nitore ben più abissale e molto meno ‘poetico’ di Pasolini – punta dritto alla sintesi tra atto letterario e gesto politico, tra ‘estetica’ e ‘politica’. In questo, forse, è sublime, ancora, davvero, L’affaire Moro. Il libro – analogo a una Storia della colonna infame ma ‘in diretta’ – ha passi pazzeschi. Incipit – “Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola” – che inaugura il dialogo a distanza con il morto, Pasolini, intorno al “regime democristiano”. Poi Sciascia passa a Jorge Luis Borges, a Ficciones, come se in quelle ‘finzioni’ – il libro di Sciascia si chiude con una citazione borgesiana che evoca il “romanzo poliziesco” – fosse adombrata la ‘finzione’ dell’‘affare’ Moro, come se la politica fosse una filiazione della finzione. Ci sono poi, nel saggio romanzesco che corrode ogni cosa, che mostra il bubbone di merda del Parlamento, passi di eclatante profondità. “Non credo abbia avuto paura della morte. Forse di quella morte: ma era ancora paura della vita”, ad esempio. E poi, la bordata: “è come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse dalla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro… ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?”. Ci sono frasi cruente – “per il potere e del potere era vissuto fino alle nove del mattino di quel 16 marzo. Ha sperato di averne ancora” – e riflessioni di diamante – “si può dedurre che l’essenza e il destino delle Brigate rosse stiano davvero nella sfera (a dirla banalmente) del ‘pazzesco’ o (meno banalmente, più sottilmente) nella sfera di un estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione?” – ma cosa volete che importi allo Stato di uno scrittore che per parlare di Moro, anatomizzando linguisticamente le sue lettere e i dispacci brigatisti, si affida a Borges? Fu attaccato da tutti. Sopra tutti, da Eugenio Scalfari. Repubblica, 17 settembre 1978. Scalfari attacca un “libro che non ha ancora letto, poiché uscirà tra un mese”. Scalfari parlava, a proposito de L’affaire Moro, di “mistero dell’arte” e di “trasformazione e ricreazione della realtà”. Ma Sciascia non è un D’Annunzio che usa il Parlamento per fare un valzer tra uno scranno e l’altro. “Mi rendo conto che è comodo tornare ad assumere la questione nei termini di amore o disamore dello Stato; ma il fatto è che non sono più questi. Si tratta, oggi, semplicemente di amare o di non amare la verità”, risponde Sciascia. Secondo Scalfari, alla moda di Platone, i poeti devono stare fuori dalla Repubblica, marginalizzati. Sciascia, invece, nella Repubblica ci entra. Giugno 1979. Un anno dopo la morte di Aldo Moro. Leonardo Sciascia gareggia per il Partito Radicale. “Eletto sia al Parlamento europeo sia alla Camera italiana, opta per quest’ultima”. E nel cuore dello Stato, Sciascia torna a scandagliare, con foia, ‘l’affaire Moro’. Protagonista di una attività parlamentare indefessa (da metà 1979 a barlumi di 1983: 52 progetti di legge e 1099 “atti di indirizzo e controllo”, leggete tutto qui), entra nella ‘Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassino di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia’. Commissione foltissima (una quarantina di membri) – e anche su questo, si abbatte la scure di Sciascia – composta, tra gli altri, da Luciano Violante, Stefano Rodotà e Claudio Martelli. Nel 1983 viene partorito il faldone che raduna le Relazioni di minoranza della ‘Commissione’, quasi 450 pagine che vale la pena consultare come il romanzo nero della Repubblica Italiana (leggete tutto qui). Tra di esse, c’è anche la relazione di Sciascia. Quel documento è il j’accuse di Sciascia contro “la latente e a volte esplicita conflittualità tra i membri della Commissione”, contro la linea “detta ‘della fermezza’, sostenuta da comunisti, democristiani e altri, di assoluta e inscalfibile intransigenza” che “si configurava come un vero e proprio reato”, contro l’“incommensurabile perdita di tempo” provocata dalla lotta partitica, contro la “vacuità delle operazioni di polizia” e contro “l’endemica incomunicabilità, nel nostro paese, delle istituzioni tra loro”, denunciando “l’incertezza, la confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote operazioni che si sono verificate durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro”. Il testo fu pubblicato in appendice all’edizione del 1983 de L’affaire Moro. A segnare che tra ‘estetica’ e ‘politica’, ormai, la distanza è nulla. Lo Stato, come una petroliera che esplode in una vasca da bagno, ingloba tutto. Lo scrittore annaspa. “Se dieci anni prima mi avessero detto Moro avrebbe cambiato la mia vita, avrei riso: invece è stato così. Dopo la morte di Moro, io non mi sento più libero di immaginare”. 1982. Sciascia. Intervista. Quarant’anni dopo, per entrare nel corpo ulcerato dell’Italia, bisogna passare per Sciascia. (d.b.)