Dopo il primo romanzo, fu preso sotto l’ala di Maxwell Perkins, il più importante editor americano, quello che aveva scoperto Fitzgerald e Thomas Wolfe, che aveva lavorato intorno ai romanzi di Hemingway e di Caldwell. Aveva 28 anni, preferì il silenzio. La scelta fu sigillata dal fuoco. Brillante, imberbe, virtuosamente cinico, s’era messo a scrivere il secondo romanzo. Non lo convinceva. Gli diede fuoco. Ma il fuoco, si sa, da Virgilio a Kafka, da Gogol’ a Rimbaud, polverizzando non fa che sancire il genio.
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“Dovevo trovare una nuova spinta, una nuova ragione per raccontare una storia diversa. Altrimenti, tutto diventava tecnica – fredda, meccanica tecnica… Lo sbaglio fu di tagliarmi i ponti alle spalle”, disse lui, esattamente trent’anni dopo.
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Il titolo più roboante di questa storia è “Roth. Quello buono”. Il titolo più corretto, comunque, sarebbe, “Il caso letterario del secolo. Più estremo di Salinger”. Nel 1934 Henry Roth pubblica Call It Sleep, “Chiamalo sonno”. Il ragazzo è nato nell’attuale Ucraina, allora Impero austroungarico, atterra a Ellis Island a due anni, nel 1908, la sua storia sembra una specie di C’era una volta in America, rigorosamente kasher. Di quel libro parlano piuttosto bene, anche se vende pochissimo, Scribner’s mette l’opzione sul secondo, punta su quello scrittore. Che sceglie di deludere tutti, di eludere ogni attesa. Henry Roth chiude con la letteratura, diventando “uno dei casi letterari più sconcertanti del Novecento americano”. Campa, lavora, si sposa, nel 1939, con Muriel Parker, pianista. Si trasferisce nel Maine, fa decine di lavori diversi, dal boscaiolo all’insegnante di latino all’assistente in un ospedale psichiatrico. “Per anni, Roth era stato semplicemente l’allevatore d’anatre della zona; poi s’era sparsa la voce che quell’uomo gentile e solitario aveva scritto uno dei capolavori del Novecento, e Augusta – ritrovatosi con la sua celebrità locale – aveva tentato, ma senza successo, di strappare Roth alla sua vita ritirata e modesta”, scrive Mario Materassi, faulkneriano di platino, ferreo amico di Roth, di cui ha tradotto l’opera somma, e per cui ha curato il volume, esemplare, Rothiana. Henry Roth nella critica italiana (Giuntina, 1985).
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Chiamalo sonno è il prototipo del romanzo dell’adolescente smarrito nel cosmo americano, la ricerca spavalda dell’oro della vita. Lo leggi al fianco di Truman Capote e di James Agee, di Salinger e di Kerouac. Quando Chiamalo sonno è pubblico, Faulkner ha appena stampato Luce d’agosto, Hemingway Morte nel pomeriggio, Steinbeck Pian della Tortilla e Nathanael West Signorina Cuorinfranti. Quando Philip Roth nasce alla letteratura, con Letting Go, nel 1962, un piccolo editore newyorchese ristampa Chiamalo sonno. Trent’anni dopo, il romanzo fa l’effetto di un meteorite che perfora il canone americano. Irving Howe promuove il romanzo sul “New York Times Review of Books”; Avon piglia l’occasione e stampa il romanzo in tiratura micidiale, il libro vende un milione di copie. Il ‘caso’ esplode. Nel frattempo, Materassi, pioniere del meraviglioso romanzesco, traduce il libro per Lerici.
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“Poteva anche chiamarlo sonno. Era soltanto in prossimità del sonno che ogni battito delle ciglia poteva provocare una scintilla contro l’esca confusa del buio, accendere negli angoli oscuri della camera una tale miriade di vividi zampilli di immagini – un luccichio su barbe inclinate, l’ineguale scintillio su dei pattini, la secca luce sugli scalini di pietra grigia di un ingresso, lo splendore a diminuire delle rotaie, la lucentezza oleosa dei fiumi lisci nella notte, il brillio di sottili capelli rossi, di facce rosse, il brillio sulle palme aperte e tese di legioni e legioni di mani che si precipitavano verso di lui. Poteva anche chiamarlo sonno…”. Che bellezza, che scrittura, che gioia narrativa, di chi, con polvere d’argento, misuri il profilo di tutte le cose, le notevoli e le infime, le chiare e le invisibili, senza vagliarne il senso, accontentandosi di quella lucentezza che rode il punto osseo della vita.
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In ogni caso, il ‘caso’ non finisce qui. Anzi, per certi versi, il ‘caso’ da qui si dirama, si inalbera. Nel senso che Henry Roth, in esilio da ogni norma, dimostrando che il gesto letterario è al di là di ogni ragionevolezza, torna a scrivere, dal 1979, non più un romanzo, ma un ciclo, “Alla mercé di una brutale corrente”, inaugurato da Una stella sul parco di monte Morris (1989), continuato con Una roccia per tuffarsi nell’Hudson (1995). Gli ultimi due tomi, Legàmi (1996) e Requiem per Harlem (1998), sono editi postumi, Henry Roth è morto nel 1995. “A distanza di mezzo secolo, Roth non si riconosce più nel ragazzo che, in tre intensissimi anni, scrisse quel capolavoro che è Call It Sleep. Oggi egli parla di CIS (come lo chiama) con distacco, quasi con divertita incredulità. Oggi Roth guarda al futuro – anche se, con il suo insopprimibile humor, gli non manca mai di scherzare sulla incongruità di questo suo contare sul poco tempo che, presumibilmente, gli è ancora concesso”, scrive Materassi nella postfazione a Chiamalo sonno, ora, da tempo, in catalogo Garzanti.
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Incongruità mi pare la parola magica. Lo scrittore è lì. Incoerente. Inarginabile. Imprendibile. Una sorpresa a se stesso – si crede qui, nel cubo di cemento di una vita inalterata, e si scopre altro, altrove.
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Questo aspetto è effettivamente affascinante: lo scrittore disconosce, tiene a distanza il proprio capolavoro – cioè, il se stesso che lo guarda dal gorgo del tempo, inesorabile – e cerca, con affanno fantomatico, di sostituirlo con un ciclo, quasi analogo – si parla di un bimbo ebreo che cresce nella New York dei primi decenni del Novecento – ma con una scrittura del tutto diversa, antilirica, ragionata (e un nuovo protagonista, il computer ‘Ecclesias’). Henry Roth riprende a scrivere a 73 anni, e continua, fino a morirne, cercando di redimere, così, un silenzio di decenni. Sembra, davvero, lo sforzo di un uomo che voglia conficcare il pitone del tempo in una bottiglia di Coke. E uccidersi, con uno stuzzicadenti, risorgendo. Non ignoro che in me funzioni anche il cardiopalma della casualità: HR nasce l’8 febbraio e riprende a scrivere nel 1979. Io sono nato l’8 febbraio del 1979. Niente va sottovalutato.
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Molti anni fa, Henry Roth si confessa a Materassi. “Non so che roba sia, né so se la pubblicherò mai. Ma ci lavoro molto”, dice, dicendo dei romanzi a cui lavora, come una navigazione nel fango, perché c’è necessità dell’enigma, dell’inconsapevole, dello sconosciuto – sconfiggendo ogni teoria da scuola scrittoria – quando si scrive. “Non riesco a pensare a una struttura, a un piano, a un disegno. Il momento l’avessi, non potrei più scrivere: mi sentirei in trappola”. Già. E scrivere è schivare le norme, costruire una trappola per il lettore. In Chiamalo sonno il ragazzino protagonista, David Schearl, è stupefatto dal capitolo 6 di Isaia, l’attimo in cui “uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò le labbra, disse: ‘Ti ho toccato le labbra, ogni colpa è scomparsa, ogni peccato espiato’” (Is 6, 6-7). “Chi sa se Isaia urlò quando il tizzone lo toccò”, si domanda David. Henry Roth ha masticato l’urlo – poi si è messo a scrivere ciò che gli dettava l’angelo. I grandi scrittori, di solito, scrivono maneggiando il fuoco, pasteggiano ad angeli. (d.b.)