23 Maggio 2019

Chi chiederebbe, oggi, a gran voce, di cambiare il finale di “Casa di bambola”? Nel giorno della sua morte, visita a Oslo nella casa dello scandaloso, “femminista” Henrik Ibsen

“Si prega di non discutere di Casa di bambola”. Questa curiosa postilla corredava i cartoncini d’invito ai ricevimenti delle buone famiglie scandinave, ci ricorda il filosofo napoletano Benedetto Croce. Ma cosa c’era di così tanto sconveniente nel parlare di Casa di bambola? Per rispondere a questa domanda, qualche tempo fa, mi sono fatta un giro nella casa di Henrik Ibsen, a Oslo (ai tempi del drammaturgo chiamata Christiania), precisamente all’Ibsen Museet (ovviamente in Henrik Ibsensgate, al numero 26), vicino al Palazzo Reale, qualche centinaio di metri dal Teatro Nazionale della capitale norvegese.

Passeggiando per la città mi domando: oggi chi si scandalizzerebbe per Casa di bambola? Chi chiederebbe, a gran voce, di cambiarne il finale? Casa di bambola, Et dukkehjem, fece il suo sconvolgente e clamoroso ingresso nei teatri europei nel dicembre del 1879, Henrik Ibsen diventa Henrik Ibsen proprio a partire da Nora, la contestata protagonista di quest’opera, la giovane moglie di Torvald Helmer. Per salvare la vita e la salute del marito, la giovane moglie aveva contratto un prestito da uno strozzino, Krogstad, all’insaputa di Torvald. Il gesto d’amore della donna viene disprezzato, sacrificato sull’altare del conformismo borghese di cui il marito rappresenta la quintessenza. Nora, agli occhi di Torvald, se prima era una “allodola”, una “testolina vuota”, un “passerotto sventato”, ora è una moglie indegna. Quando poi il marito si decide a perdonare Nora, salvate le apparenze, è ormai troppo tardi: la moglie scopre, improvvisamente e irreparabilmente, di vivere nella finzione di una bambola che sta nella sua casa, come una marionetta. La ricerca d’identità la spinge ad allontanarsi dalla famiglia e dai suoi stessi figli, diventando agli occhi di tutti, una madre snaturata.

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Diremmo, forse, in parole povere, tradendo lo stesso Ibsen, una femminista. La trappola del perbenismo borghese non può essere svelata e messa in scena, la donna deve rimanere relegata alla tradizionale condizione di moglie e madre, angelo del focolare, nonostante un marito, Torvald, meschino e schiavo delle apparenze? La rappresentazione teatrale esce ben presto dal teatro per rivelarci una nordica società retrograda: Ibsen è costretto a cambiare il finale nella sua messa in scena tedesca, perché l’attrice che interpreta Nora si rifiuta di recitare la parte di una madre ritenuta snaturata. Ibsen dichiara, il 3 gennaio 1880: “Casa di bambola ha sollevato una fortissima reazione; le fazioni si fronteggiano bellicose; l’intera grossa tiratura del libro, 8.000 esemplari, è andata esaurita nel giro di due settimane e si sta già preparando una ristampa. Oggetto della contesa non è il valore estetico del dramma, ma il problema morale che pone. Che da molte parti sarebbe stato contestato lo sapevo in anticipo; se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera”.

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Ibsen, il fondatore del teatro moderno, nella sua casa di Oslo, scrive

Oslo è oggi una città estremamente accogliente, si vedono moltissimi giovani, tanti bambini e, girando a zonzo per lo spettacolare Parco Vigeland, non si può che riflettere sull’umanità, ammirando l’altissimo obelisco realizzato con un intreccio di corpi umani. Inoltre, non si può fare a meno di pensare che il dramma di Nora sia stato scritto ad Amalfi. In sella a una bicicletta, torno in centro e, non senza qualche esitazione, trovo l’Ibsen Museet, in un elegante palazzo bianco e rosso, l’appartamento di Ibsen al primo piano.

È novembre e l’appartamento è molto riscaldato. Henrik Ibsen era nato il 20 marzo 1828 a Skien ed è morto a Oslo (Christiania), il 23 maggio 1906. Pare che abbia vissuto qui gli ultimi undici anni della sua vita. Che cosa dicono di noi i nostri ultimi undici anni? Secondo me, sono un agile compendio della nostra vita e della nostra opera. Il modo di vivere si cristallizza in rituali, piccole manie, abitudini confortanti. Leggere e scrivere. Nonostante la paralisi degli ultimi anni. La storia del museo non è molto antica perché di fatto è nato nel 1990. Uno scrittore affermato deve curare sapientemente il proprio arredamento perché potrebbe diventare oggetto di culto postumo. Bisognerebbe astenersi dall’acquisto delle librerie Billy dell’Ikea? Oppure contattare un architetto per realizzare una casa che ci assomigli, alla Malaparte? Certamente se uno si chiama Heinrik Ibsen deve sapere che prima o poi la sua casa verrà fatta a pezzi e diventerà un museo ricomposto, un po’ ad Oslo, un po’ a Grimstad. “Dopo la morte di Suzannah Ibsen nel 1914, il figlio Sigurd Ibsen donò lo studio e la camera da letto del padre alla città di Kristiania, alla sala lettura del museo della contea di Skien e alla sala da pranzo di Grimstad, dove si trova la farmacia che Ibsen aveva lavorato era stato trasformato in un museo già nel 1909”. Tuttavia, visitare la casa museo è pur sempre visitare un sepolcro. Cercare il calco di un’esistenza. Dove vive solo la polvere e la notte c’è un silenzio sinistro.

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La giovane e graziosa guida, che parla in uno strano inglese, ci racconta che l’impianto di riscaldamento è l’unico intervento che è stato fatto alla casa del drammaturgo. Per forza: in ogni stanza, vedo una stupenda stufa di maiolica. Chissà che impegno costante alimentare tutte quelle stufe, giornalmente. E quanta legna! Per il freddo della Norvegia meridionale, occorreva di sicuro un’accensione continua. Ibsen non si dimentica di mettere un po’ di tepore persino nel celebre dramma. Atto primo: “stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso. Nel fondo, la porta di destra dà sull’ingresso, quella di sinistra sullo studio di Helmer. Tra le due porte un piano. Altra porta al centro della parete di sinistra, e, più in avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo, poltrone e un piccolo sofà. Sulla parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, più verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti poltrone e una sedia a dondolo. Tra la stufa e la porta un tavolinetto. Alle pareti acqueforti. Scaffale con porcellane e altri soprammobili artistici, piccola libreria con volumi finemente rilegati. Tappeto. La stufa è accesa: è una giornata d’inverno. Si sente suonare e, poco dopo, aprire la porta di ingresso”. Le stufe ora sono spente. Il gruppo di visitatori non è molto nutrito, eppure è domenica, i passi che possiamo compiere sono molto piccoli, non possiamo calpestare il pavimento con piastrelle molto pregiate, oppure i tappeti che sembrano bisognosi della robusta passata di aspirapolvere, il living è recintato da regali cordami. L’arredo è ricco, sontuoso direi, il mobilio di legno, morbide tende a sipario alle finestre, il salottino di velluto verde, alle pareti oli su tela e acqueforti. Ibsen amava scrivere al tavolino sotto la finestra. Dalla finestra si guarda la strada, naturalmente.

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Pare che Ibsen avesse un caratteraccio, pungente e aspro, e persino in punto di morte alla cameriera avesse detto: “al contrario”, per contestare il fatto di sentirsi poco bene. La graziosa giovane guida non fa che parlare di Peer Gynt, un’opera del 1867, scritta dopo un viaggio tra Ischia e Sorrento. A Casa di bambola solo pochi, brevi, cenni. La visita è finita, della vita di Ibsen mi ricordo soprattutto le alterne vicende, il lavoro in una farmacia, il fatto che avesse una virilità accentuata sin da giovane e che indossava sempre un bel cappotto, un cappello a cilindro e i guanti. Dentro il cappello teneva sempre uno specchietto. Persino seduto allo scrittoio del suo studio è ritratto con il cappotto. Forse non è che facesse così caldo nella sua casa di Oslo. Al pianterreno della casa c’è il classico negozio di souvenir, vendono riproduzioni della sua penna d’oca. Le cartoline in esposizione lo ritraggono, in bianco e nero, con uno sguardo fiero e uno di biasimo, un’occhiata in tralice, la barba socratica in due bande, gli occhialini con le lenti ovali, con una sottile montatura. Mi sono comprata una piccola calamita tutta nera che ritrae Ibsen di profilo, la sua ombra inequivocabile, formata da cappello, cilindro e bastone, la morbida curva del suo ventre. Del fondatore del teatro moderno, resta l’ombra goffa, l’uomo ridotto a personaggio senza volto, da calamita, che oggi forse non scandalizza più. Si è finito, forse, per non discutere più di Casa di bambola.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG