14 Aprile 2022

“È difficile spiegare quanto Harry Potter abbia significato per un bambino della mia generazione. Avevamo dieci anni ed eravamo maghi...”

Per Alice,
“I once was blind but now I see.”

Sono nato nel 1988 e Harry Potter è nato nel 1980. Harry ha dunque otto anni più di me, ma quando è uscito Harry Potter e la pietra filosofale, nel 1997, aveva appena compiuto undici anni e quindi ora ha solo due anni più di me. D’altra parte nel 2007, quando è stato pubblicato Harry Potter e i Doni della Morte, l’ultimo volume della saga, Harry aveva solo diciassette anni, mentre io ne compivo già diciannove; sono dunque più grande di Harry Potter di due anni, come sono maggiore di un anno rispetto a Daniel Radcliffe, il volto cinematografico di Harry e per molti – non per me – Harry Potter stesso.

Per me infatti Harry Potter ha il volto della prima edizione di Harry Potter e la pietra filosofale, un ragazzino gracile, con il tratto delicato di Serena Riglietti, non dissimile dalle illustrazioni dei libri di un altro grande scrittore di storie per bambini e ragazzi (e adulti mai cresciuti), il meraviglioso Roald Dahl. Daniel Radcliffe, che pure recita un ottimo Harry Potter, ha tuttavia un fisico troppo tirato e muscoloso per essere davvero il “mio” Harry Potter, come si vede in diverse scene dei film tratti dalla saga (ad esempio quando si butta in un lago gelato per recuperare la spada di Grifondoro, in Harry Potter e I Doni della Morteparte prima). Nondimeno, e purtroppo, negli anni il ricordo dei libri letti da ragazzino si va confondendo con le immagini dei film, visto che non solo non riesco più a rileggere nessun romanzo di Harry Potter ma rivedo sempre più spesso, almeno una volta l’anno, uno o più dei film tratti dai libri di J.K. Rowling, con una predilezione per gli ultimi capitoli della saga. Mi piacciono gli attori, Brendan Gleeson e Alan Rickman e Helena Bonham Carter su tutti, le musiche, le atmosfere, gli effetti speciali, il mondo incantato della magia talmente reale sullo schermo, la trama, il coraggio umano e l’ironia dei personaggi, la lotta fra il bene e il male, fra tenerezza e ambizione e spavento, Albus Silente e Severus Piton e la professoressa McGranitt e Hagrid; mi piacciono persino la magia nera e i “cattivi”, Bellatrix Lestrange, Voldemort, i Dissennatori e i Mangiamorte. Mi sono addirittura simpatici Dudley e Petunia e Vernon Dursley!

È difficile spiegare quanto Harry Potter abbia significato per un bambino della mia generazione. Avevamo dieci anni ed eravamo maghi; i nostri genitori non leggevano Harry Potter, noi sì. Gli altri, gli adulti, erano semplici “babbani”, mentre noi eravamo speciali, eroici, maghi, prescelti. Ricordo che io e mia sorella – che a differenza mia non ha mai “tradito” Harry – indossavamo i cappotti dei nostri genitori, troppo larghi per noi, come degli abiti magici, stringendo dei sassolini nei pugni e poi scagliandoli attraverso le lunghissime maniche, come se spuntassero dal nulla; era magia vera, era la realtà. Cercavamo dei rami sottili e robusti per farne delle bacchette magiche all’altezza di Ollivander; imparavamo incantesimi di ogni sorta e filastrocche oscure, sortilegi per difenderci dal Male, da Voldemort, il Signore Oscuro. Eravamo felici e buoni. Credevamo nel coraggio e nella dignità e non nella doppiezza né nella vigliaccheria. Credevamo nell’amicizia.

Ho scritto di aver tradito Harry Potter, ed è esatto. Ben presto, crescendo, fin dai tredici anni, smisi di leggerlo e amarlo e lo rinnegai. Leggevo altri libri, senz’altro migliori. Una folle ossessione per Jack London mi allontanò dalla magia di Harry, e poi fu semplicemente troppo tardi; la letteratura, la vera e grande letteratura – che in taluni casi è snob o feroce o troppo “disperata” per poter essere ingenua e libera (l’ingenuità e la libertà delle nostre prime letture!) – mi catturò e cambiò la mia esistenza. Abbandonai J.K. Rowling, sostenendo che i suoi libri fossero scritti male, con dialoghi artefatti, e divenni sempre più cupo e solo, certamente più colto ma forse anche più triste, certamente più consapevole ma forse anche meno libero. Era la fine della mia lunga infanzia; fu la fine della mia prima adolescenza. Non ho mai letto, se non a sprazzi, dopo, malgrado la prosa piatta, quando ormai avevo litigato con la mia amatissima sorella (che ha continuato ad amare Rowling e che è diventata un’astronoma, mestiere in fondo non distante dalla magia di Harry, fra buchi neri e onde gravitazionali e materia oscura), gli ultimi due volumi della saga di Harry Potter, che ora mi interessano soprattutto per motivi tecnici, legati perlopiù alla trama e non al linguaggio, non allo stile, di sicuro non ai troppo prolissi dialoghi, visto che i personaggi di Rowling parlano e pensano e si muovono tutti allo stesso modo e non riesco a seguirli per più di tre o quattro pagine senza annoiarmi. C’è di meglio da leggere, certo. A Rowling non farebbe male una cura Woolf, che a differenza sua sapeva scrivere.

La letteratura deve essere snob. Lo stile è tutto, sulla pagina e nella vita, e in fin dei conti anche se letta solo come “letteratura per ragazzi”, stilemi a parte, Rowling non è una scrittrice di valore; le sue pagine non hanno la magia e l’inventiva di Roald Dahl né lo stile di Michael Ende e dopotutto il suo Harry Potter è un “prescelto” come tanti, come l’Uomo Ragno, come il Neo di Matrix, come il Bastiano de La storia infinita. Altro che originalità! Harry Potter è un fenomeno mediatico e nient’altro, poco più interessante dei noiosi e chiassosi film di Guerre stellari o della Marvel e meno bello e malinconico dell’E.T. di Spielberg. Ogni volta che ho provato a rileggerne (o leggerne) qualche passo, per nostalgia della mia infanzia o per raffrontarli ai film, i libri di Rowling mi sono “tombés des mains”, come dicono i francesi, mi sono caduti dalle mani. La verità è che la prosa di Rowling è banalissima.

Non c’è da stupirsi allora se inorridii quando mi accorsi, meditando sulla struttura del mio primo romanzo edito, che il mio inizio aveva qualche somiglianza con l’inizio di Harry Potter. Il mio eroe, di cui qui non voglio scrivere, non era orfano e non era un bambino maltrattato; ciononostante il giorno del suo compleanno, come lo stesso Harry Potter – seppure in modo diversissimo: io sono stato pazzo –, scopriva di essere il prescelto. Harry Potter è richiamato da Albus Silente e dalla scuola di Hogwarts, il mio eroe è richiamato da un nonno che non ha mai conosciuto (e che è vissuto in manicomio) e da un misterioso Ordine dei cavalieri estinti. Chi lo avrebbe mai detto! J.K. Rowling! E io che credevo di rifarmi a Morante e Rimbaud e Rosselli e Bolaño! Devo ringraziare Harry?

Per salvarmi, per rassicurarmi, mi sono rifugiato nella letteratura, come al solito. Ho riletto un passo di Claudio Magris, autore senza il quale non sarei l’uomo che sono. Ricordavo che da qualche parte Magris cita più o meno sprezzantemente Harry Potter; e infatti scrive, in uno dei saggi di Alfabeti: “Ora invece si assiste a un’equazione tra successo e valore. Non a caso un importante agente letterario, Luigi Bernabò, ha scritto sul Corriere: ‘Questo è il tempo di Dan Brown’, l’autore di quella pretenziosa pizza che è Il Codice da Vinci. Secondo tale oggettiva diagnosi, questo romanzo o altri quali La profezia di Celestino o le puntate di Harry Potter appaiono non solo invidiabili successi, ma espressioni del nostro tempo più veritiere e profonde, poniamo, di Mania di Del Giudice o di Underworld di DeLillo – due libri anch’essi famosi, celebrati e venduti, ma con qualche zero in meno”. Sì! Viva DeLillo e Del Giudice e Magris (e Kafka e Bolaño e Rosselli e Morante e Proust e Broch e Rimbaud) e abbasso Brown e soprattutto abbasso Rowling! Abbasso Harry Potter! La letteratura deve essere un’esperienza innanzitutto estetica e poetica e poi narrativa – ma con stile. Dan Brown non ha stile. J.K. Rowling non ha stile. Questo mi andavo ripetendo sfogliando altri libri che amo, però sprezzantemente, dicendomi che non solo Brown ma anche Rowling e in generale tutti o quasi gli autori di genere difettano di stile e nerbo e ritmo e dunque di vita e di letteratura. Mi riesce insopportabile persino Maigret, benché ami molto Simenon. Per giunta i romanzi di Harry Potter sono stati sconfitti dai film che ne sono stati tratti, e ormai, nonostante quanto ho scritto nel secondo paragrafo di questo pezzo a tratti delirante e forse triste, fatico a ricordare l’Harry Potter della mia infanzia, le illustrazioni di Serena Riglietti, frapponendolo al volto di Daniel Radcliffe, un attore. Questo pensavo e questo penso.

Eppure qualcosa in me – un dissenso letterario e quindi giusto – protesta, non è d’accordo con le parole di Magris e con il mio stesso disprezzo. Perché il mondo di Harry Potter incanta e resta, tanto nei romanzi quanto nei film. Perché alcuni momenti dei suoi libri mi emozionano, come quando tutto sembra perduto e Neville Paciock sfida Voldemort (“Mi unirò a te quando l’inferno gelerà”), e alcune scene dei film sono stupende, come quella in cui Harry sfila l’Horcrux dal collo di Hermione e la invita a ballare un lento alle note di O’Children, la commovente canzone di Nick Cave: “Hey, little train, wait for me! I once was blind but now I see!” E poi J.K. Rowling ama Morrissey e gli Smiths, che amo anch’io. E poi, a dirla tutta, delirando veramente, magnificando Rowling, si potrebbe scrivere un saggio sul tema del doppio – o sul tema del sosia, “che mosse tante volte la sempre fortunata penna di Stevenson”, come diceva Borges – in Harry Potter.

Voldemort è la nemesi di Harry e quindi, sebbene per opposizione, il suo doppio. Il male è il volto mostruosamente deforme e osceno che il bene non sa di poter mostrare. Credo che questa frase non dispiacerebbe a Magris. Non siamo stati Harry Potter, dunque, o per meglio dire non siamo stati gli Harry Potter che sognavamo di diventare da bambini; e tuttavia non siamo stati neppure Voldemort, il che non è poco. Non abbiamo saputo “vincere”, ma non siamo stati nemmeno sconfitti dal male, cioè dal cinismo o dalla viltà o dall’ambizione o dalla mancanza di immaginazione e di gioia. Continueremo a sognare e invecchieremo. Quanto alla magia e all’infanzia, che non dimentichiamo, rimane la nostalgia dei tanti sogni di ciò che non abbiamo saputo essere, come Harry Potter, un bambino senza genitori, fragile e coraggiosissimo, un eroe che sarebbe piaciuto ai figli che un tempo eravamo convinti di volere per sempre e che oggi invece (e purtroppo) non vogliamo né possiamo avere più.

Edoardo Pisani

 

Gruppo MAGOG