28 Maggio 2024

Saggio su Alice Munro, o della scrittura come matricidio

Di lei Michael Cunningham scrisse, in un articolo del 2006 apparso sulla «Virginia Quarterly Review»: «Non conosco nessun altro scrittore altrettanto capace di delineare i labirinti dell’animo umano, l’incredibile complessità e ambiguità delle emozioni». E Jonathan Franzen, che le dedicò due anni prima un celebre saggio sul «New York Times Book Review»:

«È una dei pochi scrittori a cui penso quando dico che la letteratura è la mia religione».

A scoprirla per primo fu però John Updike, che nel 1996 paragonò i suoi racconti a quelli di Tolstoj, mentre Cynthia Ozick la definì «il nostro Čechov».

Ma Alice Munro è Alice Munro, inutile tentare paragoni. Potremmo sottolineare diversi aspetti della sua scrittura: l’impeccabile senso musicale della frase o la stupefacente abilità nel «racchiudere in poche pagine l’intera complessità epica del romanzo» (come si legge nella motivazione del Nobel per la letteratura assegnatole nel 2013), il nitore dello stile, che rifugge da ogni sperimentalismo più vistoso o il controllo totale dei mezzi espressivi, l’imprevedibilità di comportamento dei personaggi (quasi sempre donne) o l’assenza di sentimentalismo unita a una rara capacità di compassione. Potremmo esaltare tutti questi aspetti, ma ancora avremmo detto poco sull’arte di questa «maestra del racconto breve contemporaneo».

Ogni volta che la rileggo, ogni volta che mi capita di reimmergermi nel suo universo narrativo – quell’universo che la scrittrice canadese, scomparsa lo scorso 13 maggio a 92 anni, ci mostra come sotto una lente d’ingrandimento, rivelando il tessuto intricato della vita, il continuo annodarsi del reale e delle sue implicazioni – mi torna in mente un racconto di Henry James, intitolato «La figura nel tappeto». Qui un giovane critico letterario è ossessionato dall’intento di decifrare «il filo», la chiave interpretativa nascosta in tutte le opere del suo scrittore preferito. Lo stesso scrittore lo incita a indagare, come in un rebus, quella «figura» che tiene insieme la sua opera, quell’idea che la giustifica e su cui essa è costruita, spiegandogli che è questa ricerca che la critica letteraria deve perseguire. Così, si ha l’impressione che anche l’opera di Munro nasconda una cifra segreta, una figura nel tappeto che il lettore è chiamato a scoprire, proprio come il giovane critico del racconto di James. Ma che cosa s’intende per cifra e «figura» di un’opera, se non la sua struttura, da intendersi però non nel senso dell’architettura, come comunemente viene intesa, ma piuttosto della sua geometria nascosta, dell’ordine di connessioni che ne definiscono il senso complessivo. Quello che segue, pertanto, non ha alcuna pretesa saggistica, ma è solo una raccolta di note sparse, di appunti messi insieme da un lettore che cerca appunto di individuare il «filo», la struttura segreta di un’opera, procedendo per campioni parziali – appena cinque racconti – con l’intento – la presunzione, forse – di poterne ricavare, per via induttiva, un qualche valore generale, per decifrare, cioè, la sua cifra nel tappeto. O forse è, più semplicemente, un atto d’amore e di riconoscenza nei confronti di una grande scrittrice che ha accompagnato un lungo tratto della nostra vita.

*

«Nell’estate del 1979, entrai in cucina, a casa della mia amica Sunny nei pressi di Uxbridge, Ontario, e vidi un uomo in piedi davanti al tavolo di lavoro, intento a prepararsi un tramezzino al ketchup». 

Così inizia «Ortiche», racconto compreso nella raccolta «Nemico, amico, amante…» («Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage», 2001), in un medias res tipico della narrativa di Munro, all’apparenza neutro, obiettivo, dimesso: un uomo, uno sconosciuto, intento a prepararsi il sandwich nella cucina della casa dell’amica della narratrice. Ma già dal secondo capoverso troviamo una spia che rompe l’apparenza naturalistica del racconto:

«Ho poi girato in macchina sulle colline a nord-est di Toronto con mio marito – il secondo, non quello che mi ero lasciata alle spalle quell’estate – e ho cercato la casa con svogliata insistenza, ho provato a rintracciare la strada su cui si affacciava, ma non ci sono mai riuscita».

Il tempo narrativo si modifica, quasi impercettibilmente, con la sola variazione del verbo, che cambia dal passato remoto al passato prossimo (nell’originale la variazione è ancora più sfumata, con un passaggio dal past simple al present perfect: «I walked» – «I have driven»), e con quello straordinario inciso, che funziona come una scatola cinese temporale. Dunque si capisce che l’incipit, con l’indicazione della data – «Nell’estate del 1979» – è già un flashback rispetto a un presente più vicino, quello in cui la narratrice torna, insieme al secondo marito, in cerca di quella casa dell’amica in cui è stata anni prima. Subito dopo, si apre uno di quegli spazi bianchi tipici della narrativa munriana. Spazi che spalancano abissi di tempo, in avanti o indietro.

La scena, adesso, si sposta nella casa di campagna dell’infanzia della narratrice, un ulteriore, stavolta lungo flashback, in cui viene descritto l’incontro di lei bambina di otto anni con il quasi coetaneo Mike McCallum, figlio di un perforatore di pozzi, e l’innamoramento della giovane protagonista per questo ragazzino, e i loro giochi insieme, la complicità e la vicinanza, fino all’improvvisa e inattesa partenza di Mike, con il conseguente senso di vuoto e di smarrimento che prova lei, sentendosi abbandonata. Da qui un altro spazio bianco, un altro salto temporale in avanti, di nuovo in quell’estate del 1979 che ha aperto il racconto («Sunny venne a prendermi all’autobus di Uxbridge»), un racconto che adesso si dipana lento, avvolgente, con all’interno un altro piano temporale che vi si incunea: il tempo in cui, cioè, la narratrice ha conosciuto l’amica, a Vancouver, entrambe sposate, entrambe incinte, e il tempo in cui lei ha poi lasciato il marito, la casa, le due figlie e si è trasferita a Toronto, «nella speranza di poter vivere una vita senza ipocrisie, privazioni e vergogna».

La narratrice – un trasparente alter-ego di Munro stessa – fa la scrittrice, ha avuto delle ambizioni, e adesso cerca una «stanza tutta per sé», uno spazio di autonomia femminile, ma si accorge che nella sua scrittura poco o nulla è cambiato dopo quel radicale cambiamento:

«Ciò che scrivevo non era migliore di quanto ero riuscita a scrivere nella vita di prima, mentre le patate bollivano e il bucato sbatacchiava nel cestello, obbediente al programma di lavaggio. Solo più abbondante, e non peggiore, tutto qui».

Finché, proprio quando sembra che questa digressione abbia perso il rapporto cronologico con l’azione principale, ci ritroviamo esattamente al punto di partenza, dove scopriamo che l’uomo intento a prepararsi il tramezzino al ketchup nella cucina della casa dell’amica, descritto nell’incipit, non è altri che Mike da adulto, il primo amore della protagonista, sparito improvvisamente e mai più dimenticato. A questo punto sembra iniziare una nuova storia, con il discreto e seduttivo riavvicinamento tra i due, il sentimento che rinasce, con quell’antico senso di complicità, come se il tempo non fosse mai trascorso. Ma nei racconti di Munro da un momento all’altro si può accendere una luce inattesa, che ne ribalta la trama. Sono epifanie, attimi rivelatori che si compiono quasi sempre alla fine, perfino nelle ultimissime righe. Ed ecco, allora, che l’epifania si rivela con un ennesimo passaggio indietro del tempo narrativo. E coincide, in questo caso, con un buco nero, con «lo spazio chiuso, centrale, vuoto e senza calore» che abita la coscienza di Mike, l’uomo che – scopriamo solo alla fine – ha ammazzato involontariamente il suo bambino, un anno prima, investendolo con la macchina mentre faceva marcia indietro nel viale di casa.

La rivelazione di questo segreto sconvolgente avviene durante una giornata trascorsa insieme in un campo di golf – quel campo di golf nominato all’inizio del racconto, e che sembrava annotato lì senza altra intenzione («il campo da golf l’ho trovato – credo sia quello giusto»), quando una tempesta di vento e di pioggia coglie alla sprovvista i due e li costringe a ripararsi e nascondersi «sotto gli arbusti e l’erba alta che cresceva tra il campo da golf e il corso del fiume». È un momento di intimità esaltante per la protagonista: l’uomo e la donna si tengono per mano, si stringono, si abbracciano, e finalmente si baciano. Poco prima, mentre lui giocava a golf, lei era stata sorpresa da una sensazione illusoria, e regressiva, di quel loro stare insieme:

«Ecco allora cosa si aspettava da me, che gli offrissi una consapevolezza amplificata ed espansa della sua persona. Una consapevolezza più serena, si potrebbe dire, la sensazione rassicurante di qualcuno che foderasse di calore umano la sua solitudine».

Si scopre, invece, che il motivo per cui sono lì, da soli, in quel momento, è del tutto diverso: l’uomo vuole rivelarle una verità che non ha detto a nessun altro, una verità che esclude definitivamente la donna dal suo orizzonte emotivo ed esistenziale. La verità su quel figlio di tre anni che ha ucciso per sbaglio. La verità, cioè, che la vita è perdita secca. Verità urticante, in definitiva, come le ortiche su cui è caduta poco prima la coppia per ripararsi dalla pioggia, e che hanno lasciano segni rossi sul corpo. La narratrice si era illusa che l’uomo le chiedesse accudimento, consolazione, proprio come quando da piccoli giocavano alla guerra: il gruppo dei bambini combatteva con le palle di fango e le bambine fabbricavano per loro le munizioni e li accudivano se venivano feriti.

«Accettavo senza riserve, e devotamente, ruoli che tra noi non occorreva spiegare né assegnare: io l’avrei soccorso e ammirato, lui mi avrebbe impartito ordini, sempre pronto a elargirmi protezione».

Una rigida e patriarcale separazione dei ruoli sessuali che la narratrice, da adulta, aveva decisamente rifiutato, facendola crollare consapevolmente con il divorzio e l’abbandono della casa coniugale, per una ricerca di emancipazione, che adesso, nell’estasi di questo amore riemerso dal passato, sembra voler rinnegare, fantasticando di nuovo su quel ruolo ancillare, accudente, da «infermiera», che aveva incarnato nel gioco infantile.

La storia di quel gioco, che Munro ha descritto durante il lungo flashback dell’infanzia, preannuncia, dunque, ciò che succederà, ovvero uno sconvolgimento molto più drastico e radicale, che non ha più niente a che fare con i ruoli sessuali, l’emancipazione, le convenzioni sociali: «Mike sapeva con esattezza – come io non potevo sapere e nemmeno lontanamente immaginare – che cosa sia il fondo». Di fronte a questa distanza, la narratrice prende coscienza di qualcosa che non aveva mai considerato prima:

«Dissi: – Non è giusto –. Mi riferivo alla distribuzione di questi castighi casuali, di questi colpi devastanti e maligni. Peggiori in circostanze del genere, forse, che non quando avvengono fra mille disgrazie, nel mezzo di una guerra o di un’altra catastrofe umana».

Quello che è successo a Mike è peggio di ciò che può capitare in una guerra. Quella guerra che, simulata, da bambini li aveva uniti in una fantasticheria d’amore, di un amore che adesso «si mantiene vivo come una goccia di miele, una risorsa sotterranea. Con il peso di questo nuovo silenzio venuto a sigillarlo». È a questo punto, forse, che la narratrice diventa la scrittrice che sarà, dal momento che si è affacciata su quel baratro, attonita, e ha capito che dovrà imparare a indagare nel silenzio che custodisce quel baratro, a disigillarlo attraversando un dolore insensato, insensato come la vita stessa, perché in fondo «i misteri, come i pozzi – dice Mike – sono solo dei buchi in terra».

*

«Una donna di cuore», che inaugura la raccolta «Il sogno di mia madre» («The Love of a Good Woman», 1998), si apre – ancora una volta – con un’indicazione di tempo e luogo («Da una ventina d’anni a questa parte, a Walley…») e una descrizione quasi puntigliosa degli oggetti di una piccola comunità rurale riuniti in un museo locale («fotografie, zangole da burro, finimenti per cavalli, una vecchia poltrona dentistica»), tra cui una particolare attenzione viene dedicata a «una scatola rossa con la scritta D. M. WILLENS, SPECIALISTA IN OPTOMETRIA», e alla descrizione dettagliata dei due strumenti contenuti: un oftalmoscopio e un retinoscopio. Perché tanta attenzione nei confronti di questi oggetti così apparentemente insignificanti? Non facciamo nemmeno in tempo a darci una risposta che ci troviamo catapultati indietro di vent’anni, «in un sabato mattina all’inizio della primavera del 1951», insieme a tre ragazzini che scorrazzano in un luogo abbandonato ai bordi di un fiume, tra vecchie assi di legno, pietre, cespugli di lillà, grandi meli nodosi e un mucchio di rovi.

Come nel racconto di Stephen King, «Il corpo» (1982),anche qui ci troviamo di fronte al rito di iniziazione di un gruppo di adolescenti che, durante una gita estiva, si imbattono in un cadavere. La differenza è che in questo caso il ritrovamento è casuale, ma altrettanto perturbante. Si tratta proprio del signor Willens, «specialista in optometria» (il proprietario di quella scatola rossa esposta nel museo di Walley), ritrovato morto all’interno dell’abitacolo della sua auto nelle acque del fiume. Adesso il lettore sa di trovarsi di fronte a un mistero da scoprire e il racconto si tinge inaspettatamente di noir. Proprio come i ragazzini di King, anche i giovani personaggi di questo racconto, dopo la scoperta del cadavere, perdono l’infanzia: «Assunsero anzi un’andatura da adulti – si legge -, a passo pressoché costante e secondo il tragitto più ragionevole, oppressi dal peso della meta da raggiungere e del dovere da compiere».

A questo punto, però, la scrittrice mette in atto la sua tecnica divagatoria, manipolando l’orizzonte d’attesa del lettore. Mentre ci aspettiamo che i ragazzini, appena tornati a casa, diano l’allarme, succede qualcosa di strano: nessuno parla e Munro si sofferma a descrivere il pranzo di ciascuno di loro, seguendoli rispettivamente nei loro rientri, e offrendoci uno spaccato dei loro interni domestici, della loro vita familiare. È la prima volta che nel racconto fa il suo ingresso il tema del cibo, che rivestirà un ruolo centrale nel prosieguo della storia. Munro ci informa sul cibo consumato solitamente dai cittadini di Walley («Braciole o salsicce di porco, bollito o pasticcio di carne. Di certo patate, fritte o in purè; ortaggi messi in composta per l’inverno, oppure cavali o cipolle al latte»), per poi dilungarsi a fornire informazioni precise sul pranzo dei tre ragazzini di rientro dalla gita, per diverse pagine, pagine in cui il cibo diventa l’unico argomento trattato per giustificare il silenzio, la rimozione della morte. Così che quando finalmente Bud, dopo aver passato con gli altri l’intera giornata in giro, si decide la sera a denunciare il ritrovamento del cadavere alla madre, «ci furono commenti sul fatto che i ragazzi fossero andati tranquillamente a mangiare senza accennare niente a nessuno».

Poi, con un nuovo cambio di tempo e di scena, ci ritroviamo dentro un’altra storia. Si resta sempre ammirati dal modo in cui Munro decide di ignorare le regole più elementari di un racconto tradizionale: dei tre ragazzini che all’inizio sembravano destinati a essere i protagonisti della storia, infatti, si perdono definitivamente le tracce, senza una spiegazione. Adesso il racconto è focalizzato su un nuovo personaggio, Enid, una giovane infermiera che assiste a domicilio una malata terminale. Munro accumula lentamente dettagli sulla sua vita, il suo passato, la sua famiglia, finché all’improvviso, quando il lettore ha già dimenticato l’origine del racconto, butta lì quasi per caso un nome:

«Imparò a fare dolci e a giocare a bridge, prendendo il posto del padre nella partita settimanale che sua madre faceva con i signori Willens della porta accanto».

I signori Willens! Ovvero lo «specialista in optometria» che sarebbe stato trovato morto nella sua vettura molti anni dopo nel fiume dai tre ragazzini in gita, e la sua consorte. Il riferimento al cibo («Imparò a fare dolci») introduce immediatamente il tema della morte, con la riapparizione del signor Willens. Lo ritroveremo, questo riferimento al cibo, molte pagine avanti, laddove si dice che Enid, ormai protagonista assoluta del racconto, «faceva lo zabaione senza aggiungervi nemmeno un pizzico di vaniglia e lo somministrava a cucchiaiate alla signora Quinn». Non a caso, il cibo adesso viene associato all’agonia della donna assistita, che alla fine del capitolo, a sua volta, reintroduce il leitmotiv del racconto: «Lo sai che il signor Willens è stato qui, in questa stanza?».

La complessa struttura del racconto si sta rivelando, con l’ennesimo passaggio indietro del tempo narrativo, laddove l’azione si sposta in quella stessa stanza ma diversi anni prima, quando il signor Willens viene ammazzato brutalmente dal marito della signora Quinn, che lo ha sorpreso in una situazione equivoca con la moglie (in realtà le stava solo analizzando la vista con il suo strumento ottico, ma stando «quasi addosso» alla donna seduta sul dondolo, con una mano sulla sua coscia scoperta, per mantenersi in equilibrio). Dopo l’aggressione il corpo dell’uomo, riverso sul pavimento, appare esanime:

«La roba che gli colava dalla bocca non pareva nemmeno sangue. Era rosa, e per dire esattamente cosa sembrava, sembrava la schiuma che sale dentro il tegame quando si fanno bollire le fragole per la marmellata».

Il binomio cibo-morte torna nella descrizione del cadavere del signor Willens: adesso il filo del racconto si lega al suo inizio, e tutto si dipana finalmente riempiendo i buchi, le omissioni, gli spazi vuoti che la scrittrice aveva disseminato lungo il percorso. E tuttavia «Una donna di cuore» non è un racconto noir, e dunque non può risolversi con la scoperta dell’assassino e del suo movente. La narrazione, infatti, prosegue, con un salto in avanti, al punto esatto in cui era stata lasciata prima della rievocazione del delitto: Enid ora sa, perché la signora Quinn le ha confessato l’omicidio, e sa anche che la sua paziente ha reso la confessione perché sta per morire.

«Il dottore chiamò mentre stava servendo il pranzo alle bambine: gelatina di frutta e un piatto di biscotti spolverati di zucchero colorato, più bicchieri di latte nei quali aveva sciolto cioccolata liquida».

La schiuma della marmellata di fragole nella scena del delitto si è trasformata adesso in una gelatina di frutta: poche ore dopo la signora Quinn giace nel letto senza vita. Per arrivare al nucleo segreto del racconto, però, ancora una volta, dobbiamo giungere alla parte finale, quando Enid torna a casa della defunta signora Quinn per prendere commiato dalla casa che ha frequentato per tanto tempo, e prende forma nella mente della donna qualcosa che al lettore si svela solo in quel momento: la sua passione segreta, inconfessata per Rupert, il marito della signora Quinn, l’assassino di Willens, l’uomo con cui in tutto quel tempo Enid aveva scambiato solo furtivi dialoghi, una presenza piuttosto fugace in quella casa. Una passione talmente ossessiva che la spinge a mettere in dubbio la confessione della donna:

«La mente di una persona malata, di una moribonda, si può riempire di ogni genere di lordura e organizzare il tutto nel modo più convincente».

Qui il racconto si tinge di una ambiguità davvero jamesiana, dal momento che il punto di vista di Enid impedisce al lettore di discernere, di fare chiarezza. Lei, la «donna di cuore» che ha dedicato tutta la sua vita ai malati, adesso è pronta a sacrificarsi, a immolarsi pur di accertare la verità, pur di scoprire, cioè, se Rupert è innocente o colpevole. Enid è pronta a farsi ammazzare dall’uomo, offrendogli l’occasione di un altro delitto perfetto, organizzandolo a suo beneficio – con un’uscita in barca – dal momento che è intenzionata a rivelare a Rupert ciò che sa, per metterlo alla prova. Il nucleo del racconto, dunque, è proprio in questa passione repressa di Enid, che coincide con il sacrificio di sé. Munro accompagna i due fin sulla riva del fiume, dov’è ormeggiata la barca, e chiude il racconto nel silenzio di una sospensione assoluta, nell’attesa di Enid, mentre Rupert sta spostando la barca tra i cespugli.

Finale apertissimo, ma in fondo qui non interessa tanto l’esito di quella sfida assurda, quanto la disponibilità patologica della donna al sacrificio, quel ruolo accudente, da «infermiera», e dunque subordinato, che Munro aveva già demolito in «Ortiche», smascherandone la connotazione regressiva, masochistica che esso assume nel personaggio della narratrice. E tuttavia, per chi ha seguito con attenzione le spie tematiche del cibo che la scrittrice ha disseminato nel racconto, non sarà difficile capire che cosa succederà a Enid di lì a poco e dunque capire, anche, qual è il destino che Munro riserva al personaggio (e la dimensione rituale, iniziatica di quel destino): poco prima dell’attesa sulla sponda del fiume, infatti, Enid osserva i nugoli di moscerini che di tanto in tanto riempivano l’aria, e con una quasi impercettibile ironia, Munro ci offre una chiave cifrata sul finale del racconto: «Insetti non più grandi di grani di polvere il cui movimento continuo non impediva loro di spostarsi tutti insieme in una massa a forma di nuvola o di colonna. Come riuscivano a farlo? E come sceglievano il punto in cui ritrovarsi, anziché un altro? Doveva avere a che fare con la presenza di cibo. Anche se pareva impossibile che si nutrissero, mai fermi, nemmeno per un istante». 

*

«Silenzio»,nella raccolta «In fuga»(«Runaway», 2004), conclude il trittico di racconti formato anche da «Fatalità» e «Fra poco», la cosiddetta «trilogia di Juliet», che rappresenta anche il vertice dell’arte narrativa di Alice Munro (da questo trittico nel 2016 Pedro Almodóvar ha tratto il film «Julieta»). Sono racconti che possono essere letti autonomamente, ma che insieme costituiscono un romanzo breve. Se si leggono in un senso o in un altro la prospettiva del significato cambia. Protagonista è Juliet, che l’autrice segue dalla giovinezza fino all’età matura, seppure con ampi spazi di vuoto tra un racconto e l’altro.

Il terzo racconto, in particolare, narra della sparizione di Penelope, la giovane figlia di Juliet, avuta dalla relazione con Eric, l’uomo che – come scopriremo in uno dei tipici flashback munriani – è morto durante un’uscita in mare sul suo peschereccio travolto da una tempesta, a Whale Bay, lasciando la compagna da sola a crescere la ragazzina adolescente. Penelope ha lasciato casa per sei mesi da trascorrere in una comune New Age, lo Spiritual Balance Center, a Denman Island, ma quando invia un messaggio alla madre, invitandola ad andare a trovarla, Juliet si mette in viaggio e arrivata nella chiesa sconsacrata che ospita la figlia, viene a sapere da una donna, non senza sgomento, che la ragazza non è più lì. E non si sa dove sia.

Un paio di settimane dopo, Penelope si fa viva con uno strano e anonimo biglietto di auguri (nel giorno del proprio compleanno). Poi più nulla, fino all’anno dopo, con l’arrivo di un biglietto analogo al primo. Juliet durante l’assenza della figlia si consuma tra rabbia, sensi di colpa, propositi di voltare pagina. Medita di cambiare casa, se non fosse che resta aggrappata alla speranza di ricevere ancora qualche lettera da Penelope. Ma dopo cinque anni i biglietti di auguri smettono di arrivare. La vita continua, Juliet si trasferisce, perde il lavoro (è una giornalista televisiva di qualche notorietà), si trascura, ha diversi amanti, finché le uniche notizie che avrà della figlia, alla fine del racconto, le riceverà da un’amica di Penelope incontrata per caso per strada a Vancouver. Da lei saprà che la figlia vive nel nord-ovest del Canada, che è sposata, probabilmente con un uomo benestante, ha cinque figli e conduce una vita da borghese.

Ma cosa si nasconde dietro il lungo e ostinato «silenzio» di Penelope? Ancora una volta, per avere una risposta, occorre seguire il trattamento del tempo nella prosa di Munro. Nella digressione al centro del racconto che ci porta al passato, alla morte di Eric, scopriamo infatti che Juliet, invece di raggiungere la figlia tredicenne – in vacanza in campeggio – per comunicarle la tragica notizia e organizzare con lei il funerale, ha preferito tacere e cremare il cadavere dell’uomo con pochi amici intimi in spiaggia, negando di fatto a Penelope l’elaborazione del lutto. È, dunque, il silenzio di Juliet ad aver provocato l’insanabile spaccatura tra madre e figlia? La donna si arrovella attorno a quest’idea, tormentata dal senso di colpa, ma quel silenzio, legato alla rimozione della morte, non può essere la vera risposta. «Quella ragazza è un enigma, punto e basta. Tanto vale dirselo», pensa a un certo punto Juliet.

L’arte di Alice Munro rifulge soprattutto nelle reticenze, nelle omissioni. In fondo la vita è molto più banale e per questo più tragica di quel che pensiamo. Forse una figlia si allontana da una madre semplicemente perché «non sa che farsene» di lei, perché non la sopporta. La scrittura di Munro sembra volerci mostrare, qui, quanto possa rivelarsi precario e fragile il legame tra un genitore un figlio. Quanto sia facile, cioè, «perdere» quel legame. È qualcosa di perturbante, come un baratro celato sotto i nostri piedi, che crediamo poggiati su una superficie ben salda. O forse c’è altro, nella storia di Juliet, che si nasconde oltre il tessuto della tragica banalità della vita? Una diversa forma di tragicità, quella che gli antichi greci chiamavano Nemesi. E se Juliet stesse pagando per un’altra colpa? Per scoprirla, questa colpa, questa hybris, bisogna tornare al racconto precedente, «Fra poco», dove Munro racconta di una visita che Juliet fa per qualche giorno ai suoi genitori, insieme alla piccola Penelope di tredici mesi. La madre è malata, ma lei si accorge di non essere capace di provare pietas per lei, di non essere capace di accudimento (ancora una volta appare centrale, ma stavolta in senso negativo, il tema dell’accudimento).

«Lei però non aveva protetto Sara – leggiamo alla fine del racconto – Quando Sara aveva detto Presto rivedrò Juliet, Juliet non aveva saputo trovare risposta. Possibile che non ne fosse stata capace? Cosa c’era poi di tanto difficile? Basta dire “sì”. Avrebbe significato così tanto per Sara, e per lei, di sicuro, talmente poco. E invece le aveva voltato le spalle e aveva portato il vassoio in cucina, dove aveva lavato e asciugato le tazze e anche il bicchiere della gazzosa all’uva. Aveva riordinato ogni cosa».

Juliet aveva riordinato ogni cosa in cucina, ma non dentro di lei, scoprendosi indurita dalla «carelessness». Quel mancato «sì» a Sara, alla madre, in realtà, è il vero «Silenzio» a cui allude il titolo del racconto successivo, quello in cui lo scontro generazionale verrà ribaltato da sua figlia, che a sua volta abbandonerà la madre, punendola con il suo silenzio. Ora sappiamo che dietro la figura dell’Amante da accudire (che era emersa in «Ortiche» e in «Una donna di cuore») si nasconde la Madre. E se nei racconti precedenti la donna accudente deve essere uccisa (simbolicamente o realmente) ora, al contrario, uccidere la Madre è l’unico modo per sopravvivere. 

*

Sullo stesso tema di «Silenzio», ovvero la sparizione improvvisa e immotivata di un figlio, e le conseguenze che tale sparizione procura nella vita di una madre, Munro scrive cinque anni dopo un altro racconto, «Buche-profonde», compreso nella raccolta «Troppa felicità» («Too Much Happiness», 2009). Vale la pena ricordare che Philip Roth, a questo stesso tema del conflitto generazionale aveva dedicato forse il suo romanzo più famoso, «Pastorale americana», in cui una figlia adolescente lascia la casa paterna dopo un atto di ribellione distruttivo e terroristico. Munro, però, rispetto al grande scrittore americano, ricorre a mezzi più sobri, più scarni, ma non meno efficaci, come dimostra in questo racconto in cui Kent, il figlio di Sally, scappa di casa dopo sei mesi di college, inviando poco dopo una lettera in cui informa i genitori che sta lavorando in un negozio alla periferia nord di Toronto. Inutili i tentativi del padre e della madre di persuaderlo a tornare a casa e riprendere gli studi. Kent, poi, si licenzia e non lascia più notizie di sé, proprio come la Penelope in «trilogia di Juliet», e dopo tre anni di silenzio manda ai genitori una lettera delirante dove afferma di voler «esplorare il mondo della realtà interiore oltre che esteriore», e di sentirsi libero grazie alla sua esperienza infantile di «pre-morte», che lo ha condotto a una nuova nascita. Kent si riferisce a un episodio traumatico vissuto molti anni prima, un episodio che ha aperto il racconto: un picnic in un bosco con tutta la famiglia, durante il quale il bambino cade in un crepaccio, spezzandosi entrambe le gambe. Qui, però, a differenza che in «Silenzio», l’incontro tra madre e figlio avviene – anche Kent vive in una comune hippy o di una non meglio precisata setta spirituale, nella cantina di un caseggiato abbandonato dove c’è stato un incendio – anzi tutto il racconto, si può dire, si condensa e concentra in questo incontro, ma l’effetto è ancora più drammatico, perché sancisce una distanza incolmabile tra i due, una disappartenenza definitiva, come se l’incontro non fosse avvenuto affatto.

Di nuovo, Munro sembra aver presente l’incontro tra padre e figlia in «Pastorale americana», quando lo Svedese rivede dopo qualche anno la figlia Merry ventunenne, diventata una giaina, seguace cioè di una piccola setta religiosa indiana. Anche Merry, come Kent, vive di elemosina, anche lei appare come trasfigurata, forse malata. Lo stesso stupore, lo stesso sgomento accomuna i due incontri, ma ancora una volta l’economia dei mezzi è ciò che distingue Munro da Roth (l’incontro in «Pastorale americana» prosegue per pagine e pagine, con l’abituale sfoggio rothiano di varie tecniche narrative, dal punto di vista circoscritto al discorso diretto che si alterna con i monologhi interiori del padre, dai discorsi indiretti al compendio delle disavventure della ragazza negli anni della latitanza). Munro, invece, è laconica, ricorre quasi esclusivamente al discorso diretto, con qualche breve focalizzazione interna, benché il risultato dell’incontro sia quasi lo stesso. «Chi sei tu?» grida a un certo punto lo Svedese alla figlia in «Pastorale americana». E poi: «Quella era sua figlia, ed era inconoscibile». Allo stesso modo Sally domanda al figlio, che adesso si fa chiamare Giona (come il profeta ribelle a Dio): «Che cosa sei?, Che cos’è quello che fai?». In entrambi i casi i figli rappresentano un mistero impenetrabile («Quella ragazza è un enigma, punto e basta» diceva Juliet, in «Silenzio»).

Qui a «uccidere» la madre è un figlio che rivendica il suo spazio interiore – uno spazio che non riuscirà mai a trovare – ma la madre stavolta non ha colpe da espiare (se non quella distrazione che aveva procurato al figlio da bambino la caduta nel crepaccio), e tuttavia è come se il suo stesso essere madre contempli un destino di sconfitta. E se in «Silenzio» il nucleo della narrazione era dislocata altrove (nel precedente racconto, con il rifiuto opposto alla madre), qui è divenuto irrintracciabile, sciolto dalla trama stessa del racconto: il risultato è un vuoto ancor più desolante, perché privato di qualsiasi motivazione, un vuoto che sta a indicare ciò che da sempre Munro va disvelando, ovvero che la vita è perdita, fallimento, dolore. Se lo Svedese di Roth impara «la lezione peggiore che la storia possa insegnare: che non c’è un senso», a un epilogo apparentemente analogo giunge anche Sally, quando allude alla possibilità che l’allontanamento del figlio non sia dovuto ad alcun conflitto: «Disprezzarla. Macché. Non è quello il punto. Niente di personale». In quel «niente di personale» è contenuto qualcosa di beffardo. A Sally, però resta la possibilità di aggrapparsi a una flebile speranza, legata proprio a quel silenzio – ancora una volta un silenzio – opposto dal figlio alla sua ultima frase, prima di congedarsi dal loro incontro, quel «magari ci sentiamo» rimasto senza risposta. O, in definitiva, alla speranza – molto più concreta – che «l’età si dimostrasse sua alleata, trasformandola in una persona che lei ancora non conosceva».

A differenza del nichilismo di Roth, dunque, dove il cortocircuito tra padri e figli, il mancato riconoscimento generazionale, si configura come un collasso della civiltà, Munro affida alla vita stessa, al suo imprevedibile svolgersi, la possibile soluzione di quello stesso conflitto. Il tempo, nell’imponderabilità del suo passaggio, può rendere tutto più semplice o più complicato, configgerci al nostro dolore, rivelandolo ancor più selvaggio e indomabile di quanto pensassimo, o diventare nostro alleato, trasformando, alla fine della vita, la caduta nelle «buche-profonde» del nostro destino (proprio come quei «buchi in terra» a cui aveva accennato Mike in «Ortiche»), in una insperata, laica quanto arbitraria redenzione, in qualcosa, cioè, che può salvarci dal «disastro assoluto». Ma, paradossalmente, è proprio questa assoluta casualità a cui Munro sospende il futuro della sua protagonista, questa inesplicabile oscillazione tra salvezza e condanna, a rendere la poetica della scrittrice canadese ancor più estrema di quella di Roth, se è vero, come credeva l’ebraista Gershom Scholem, che perfino il nichilismo può essere una costruzione idealistica, uno stadio, a suo modo, metafisico, seppur mascherato dallo scetticismo.

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Ma come si procede nella scrittura dopo aver raggiunto una tale lucidità, uno sguardo così intransigente e disincantato sulla vita e sul mondo, sulle relazioni umane? I quattro racconti finali dell’ultima raccolta della Munro, «Uscirne vivi» («Dear Life», 2012), non sono più storie, ma autobiografia dichiarata («Credo siano le prime e le ultime cose – e le più private – che ho da dire sulla mia vita»). Ecco, allora, come si procede: rinunciando alla «fiction», per scrivere invece finalmente la vita e «solo la vita», senza infingimenti, senza diaframmi, senza più maschere. Ciò che sembra interessare di più alla scrittrice, alla fine del suo percorso, è la «verità della vita rispetto alla narrativa consueta», come aveva scritto in «La vista da Castle Rock» («The View from Castle Rock», 2006), il libro precedente, dove era già delineato questo nuovo approccio alla scrittura. Ma che tipo di memoir è quello che qui Munro imbastisce? Non si tratta di semplice autobiografia, ma piuttosto di un sovvertimento dell’idea stessa di autobiografia: una scrittura, cioè, basata sulla verità autobiografica del «sentire», più che su quella dei «fatti».

Ne vengono fuori quattro istantanee dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autrice vissute a Wingham, nell’Ontario rurale, con una madre socialmente ambiziosa che fa la maestra e mostra i primi sintomi del morbo di Parkinson e un padre incline alle punizioni corporali, che gestisce una fattoria di volpi per il commercio delle pellicce. Sono racconti dalla forma particolarmente libera e flessibile. Nell’ultimo, «Dear Life» («Uscirne vivi», nella traduzione italiana di Susanna Basso), a un certo punto l’autrice accenna a un vicino di casa, di quella sua casa di frontiera, per così dire, quasi simbolicamente posta a metà tra il centro abitato e la natura:

«Di là dal fiume c’era un boschetto di sempreverdi, quasi sicuramente cedri, ma troppo lontani per stabilirlo. E ancora più in là, sul versante di un altro colle, si ergeva, di fronte, una casa, piccola per la distanza, che non avremmo mai visto da vicino o da dentro e che a me pareva una casetta di nani da fiaba. In compenso, sapevamo il nome dell’uomo che ci abitava o che ci aveva abitato un tempo, perché a quel punto poteva già essere morto. Roly Grain, cosí si chiamava, ma non ha altra parte in quello che vado scrivendo, nonostante il nome da gnomo che si ritrova, perché questa non è una storia, ma solo la vita».

Che cosa vuol dire quel «solo la vita» che si oppone alla «storia»? L’idea implicita che ciò di cui sta scrivendo è qualcosa di meno – di meno strutturato, meno logico – rispetto alla narrativa tradizionale che ha le sue regole da rispettare, ma allo stesso tempo è anche qualcosa di più, in quanto ciò che muove le fila della scrittura adesso ha a che fare maggiormente con un processo inconscio. Così questo personaggio, che sembra solo una comparsa emersa dal fondo della memoria, ha proprio per questo il potere di reindirizzare e trasformare la narrazione. Il nome da gnomo, che abita una casetta da fiaba, introduce infatti il tema segreto del racconto, dopo il consueto incipit topografico in cui la narratrice descrive la casa dove viveva e una successiva parte iniziale divagante, che pesca nei ricordi del periodo scolastico.

Subito dopo il citato accenno al vicino di casa, il lettore si trova allora di fronte a un cambiamento repentino, come un nuovo incipit:

«Mia madre ebbe due aborti spontanei prima di avere me, perciò la mia nascita, nel 1931, dovette essere stata motivo di una certa soddisfazione».

Dove ci sta conducendo Munro? Il fulcro del racconto non è nemmeno, come potrebbe sembrare, nella ricostruzione successiva del fallimento del padre come allevatore di volpi argentate, o della cura che la figlia cerca di offrire a quel fallimento (ancora una volta quella predisposizione infermieristica, edipica, da cui la scrittrice dovrà liberarsi), ma, inaspettatamente, in un episodio che viene rievocato in un certo momento di questa narrazione così ondivaga, così all’apparenza fuori fuoco: un episodio legato a una persona vissuta molto prima, «una vecchia svitata che di cognome faceva Netterfield». Mrs Netterfield, così si dice, aveva cercato di colpire con un’accetta un povero fattorino che le aveva portato a domicilio una spesa da cui mancava il burro. Aneddoto circonfuso da un’aurea quasi leggendaria. Senonché questo aneddoto ne richiama immediatamente un altro, per associazione:

«Era una bellissima giornata autunnale. Mi avevano messa a dormire in carrozzina fuori sul piccolo prato nuovo. Mio padre era via quel pomeriggio – forse era andato ad aiutare suo padre alla fattoria vecchia, come faceva ogni tanto – e mia madre lavava i panni all’acquaio».

La madre, d’improvviso, si precipita dall’acquaio di casa verso l’esterno, passando dalla porta di servizio, prende in braccio la figlia, lasciando coperte e carrozzina dov’erano, e torna in casa chiudendosi la porta di cucina alle spalle. Che cos’era successo? La donna ha visto Mrs Netterfield precipitarsi risoluta verso la loro casa e ciò è bastato a precipitarla nel terrore. Presa la figlia e portatala in casa, la donna scorge poi dall’interno, mentre tiene la bambina in braccio, la vecchia frugare nella carrozzina e poi fare il giro della casa e affacciarsi alle finestre, e poi raspare e battere alla porta, finché, sfuriata la rabbia, non decide di andarsene.

Questo episodio, che la madre ha ripetuto più volte alla figlia, anche con qualche variazione, questa storia di una strega che cerca di rapire una bambina (la strega delle fiabe, introdotta dallo gnomo evocato dal vicino-comparsa di poche pagine prima), è in effetti il racconto di un salvataggio, di una seconda nascita («L’attimo dopo che mia madre si era precipitata a prendermi in braccio, perché ne uscissi viva, come diceva lei»). Ma Munro nelle pagine successive decostruisce la mitologia di questa narrazione, con la scoperta casuale, ora che si è trasferita da anni a Vancouver, dell’esistenza di una figlia della vecchia Netterfield che ha abitato con i suoi genitori fino al matrimonio in quella stessa che era poi diventata, dopo vari passaggi di proprietà, la casa di famiglia della narratrice. «Possibile che mia madre non l’abbia mai saputo? Che non sapesse che i Netterfield avevano abitato lì e che perciò la vecchia stava guardando dalle finestre di quella che era stata casa sua? È possibile». La narrazione materna, dunque, si rivela – inconsapevolmente o meno – falsa, o almeno è mendace quel senso di rischio, e così anche il conseguente «salvataggio» (la rinascita, la riaffermazione dell’autorità materna), che è stato tale solo nella mente della madre, nel suo stesso racconto inaffidabile. Quando la narratrice arriva a questa scoperta, a questa consapevolezza, la madre, dice, a cui avrebbe voluto comunicarla, non è però più «raggiungibile». E con questo ultimo passaggio, si arriva alla chiusura del racconto, e alla sua ultima rifrazione:

«Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il funerale. Avevo due bambini piccoli e non avrei saputo a chi lasciarli, a Vancouver. Avremmo fatto anche fatica a spendere i soldi del viaggio, e mio marito era il tipo che sdegna le formalità, ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo così anch’io».

Ancora una volta il silenzio, l’omissione, l’assenza si frappone tra una madre e una figlia (come il silenzio opposto da Juliet alla madre morente). Ma questa volta si è verificata, prima, come detto, una dissacrazione del racconto materno. Dissacrazione legata a sua volta a una manipolazione di quel racconto. In fondo l’aneddoto della bambina salvata dalla carrozzina non è altro, da parte della madre, che un tentativo di rovesciare, di riscrivere il mito dell’abbandono del neonato, lasciato esposto agli eventi (come Edipo, o Mosè). Di fronte a questa manipolazione, la figlia vuole opporre la sua verità, lo smascheramento di una madre castrante (è lei, la madre, che, nel primo dei quattro racconti finali, «L’occhio», costringe la figlia a guardare in faccia il cadavere della baby-sitter ed è sempre lei, in «Voci», a reprimere i primi risvegli di sessualità nella figlia, portandola via da una festa danzante per la presenza di una prostituta; è lei, la madre di cui la figlia odiava «gran parte delle cose che diceva, soprattutto se le pronunciava con quella voce vibrante e infervorata dalla convinzione»). Ma stavolta Munro va ancora più a fondo con il bisturi della sua scrittura. «Di certe cose diciamo che non si possono perdonare – scrive riferendosi alla sua mancata partecipazione al funerale della madre, in quella che sarà l’ultima frase, la più impietosa possibile, che scriverà prima di congedarsi dalla letteratura – o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo».

Nessun senso di colpa per l’abbandono della madre, quasi come se la figlia volesse vendicarsi di un abbandono vissuto nella verità autobiografica del «sentire» ma negato dalla fiction dei «fatti», dalla sua ricostruzione.

Forse la scrittura di Munro non è altro che questo continuo meditare attorno a un matricidio necessario, attraverso l’opposizione di una verità individuale a una verità materna manipolata, all’archetipo della Madre Salvatrice. Un matricidio necessario per quanto non porti a nessuna libertà, a nessun significato. E mai come in questi ultimi racconti la scrittrice canadese è riuscita a rappresentarla, questa inutile necessità, in maniera così nuda e diretta, senza doversi incarnare in qualche personaggio, ma semplicemente attingendo a quel tempo ritrovato della sua infanzia. Come il Prospero della «Tempesta» che rinuncia alla magia, alla fine della sua opera Alice Munro riconosce che la letteratura è il luogo dove l’arte e la vita devono coincidere senza più trucchi, senza quello che gli inglesi chiamano «vanishing act», e che il «segreto» su cui fino ad allora i suoi racconti si sono poggiati deve mostrarsi nel disvelamento della vita stessa, nella rottura dei confini, nel giocare a carte scoperte per una definitiva, e non misericordiosa, non consolatoria, resa dei conti.

Fabrizio Coscia

Gruppo MAGOG