
“Ho vissuto una vita che non può essere vissuta”. Vicente Huidobro, un poeta in guerra
Poesia
a cura di Alessandro Bernardini
Capita sovente che per essere dei veri rappresentanti del proprio tempo non se ne debba aver coscienza. Altrimenti si diventa meri esecutori di maniera, autori che applicano pedissequamente una serie di principi codificati da sé stessi o da altri. In tal senso, l’opera narrativa e poetica di Viviana Viviani brilla proprio grazie a un suo certo intuito un po’ naïf. Non è dunque facile capire se l’autrice voglia raccontare questo mondo o se esso utilizzi Viviana come veicolo per essere trasposto. A mio avviso, la sua necessità di dire certe cose e di dirle in un determinato modo nasce in lei da uno scontro con la realtà che non lascia alternative. Ed è proprio perché la scrittrice non avverte su di sé – essendo un ingegnere – l’immane peso di una tradizione, che diventa un fardello da cui è impossibile sgravarsi, se può aprirsi alle innovazioni stilistiche che questa contingenza storica richiede per essere messa su carta. I suoi racconti, per esempio, presentano elementi di assoluta contemporaneità, spunti che potrebbero essere associati alla postmodernità o al realismo terminale (la corrente letteraria che teorizza la predominanza, nel nostro tempo, dell’oggetto sulla natura e la sovrapposizione dei popoli).
In particolare, gli scritti che presentiamo si segnalano per un abile gioco di natura ipertestuale in cui, appunto, la pagina si accompagna a video, o ad articoli di giornale – entrambi falsi, ma assolutamente verosimili. Questi costituiscono una parte determinante nella narrazione rivelando o mettendo in scena oltre il testo, in un’ottica di narrazione totale – in cui è addirittura l’autrice a farsi attrice delle sue stesse fantasie (come si vedrà nel video posto in chiusura al primo racconto). Siamo spinti così a interrogarci ancora sull’annosa questione di quanto l’arte imiti la vita e di quanto la vita sia arte. Viviana Viviani mette in scena tutto questo immedesimandosi con un assassino e una cam girl, dimostrando peraltro un’attenzione particolare, soprattutto con quest’ultimo personaggio, per le figure più rappresentative e meno esplorate di questa realtà liquida e inafferrabile che quasi nessuno si è voluto prendere la briga di raccontare. (Matteo Fais)
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Calypso
Anna è sola, come ogni sera, nuda davanti allo specchio, che le rimanda il volto pallido, gli occhi piccoli, le ciglia invisibili, le labbra sottili. Raccoglie i capelli sulla nuca, perché spariscano più facilmente sotto la parrucca. La chioma scura e lucente di Calypso giace sparsa sul letto, come una grossa medusa spiaggiata.
Intinge le dita nel fard e traccia due linee rosse sulle guance, nette come i segni di guerra di certe tribù africane. Le sfuma sulle tempie, poi con l’eyeliner e il rossetto disegna sul viso scialbo grandi occhi e labbra carnose. Si avvicina allo specchio: la luce diretta della webcam, assieme a quella soffusa della stanza, farà di quella maschera un volto perfetto.
Indossa la parrucca e porta avanti i lunghi capelli neri di Calypso a coprire i seni piccoli e scarni. Così sembro proprio una ninfa, pensa. Si guarda le cosce, da sempre troppo grosse, e pensa che sdraiata di sbieco sembreranno più sottili. Indossa il push up e il perizoma e si guarda allo specchio di nuovo. È pronta.
Anche il PC è pronto, sulla sedia di fianco al divano. Anna si collega al sito. Sono già tutte lì: sexygirl, sexyeva, sexylady. Nomi tutti uguali, in un tripudio di tette e culi, alle finestre del grande condominio virtuale.
Anna digita la password ed entra nella stanza di Calypso. Si adagia sul divano, tra i cuscini, nella solita posizione ormai studiata nei minimi dettagli: stesa su un fianco e appoggiata su un gomito, le gambe leggermente piegate, le spalle appena incurvate a far apparire più florido il seno. Con una mano tiene il mouse, l’altra è libera di giocherellare con i capelli e il perizoma.
Regola il colore e il contrasto e l’effetto dei chiaroscuri regala al suo corpo spigoloso forme più sinuose e compatte. Poi clicca on e sullo schermo appare Calypso.
Calypso è la bambola perfetta che Anna non sarà mai. Calypso non sbaglia, dice le cose giuste e gode ogni volta. Poi non dimostra certo i quarant’anni di Anna, ma almeno dieci di meno.
Il primo a entrare nella stanza è jacktheripper. Lui c’è sempre, è un abitudinario.
“Ciao” scrive nella finestra della chat.
“Ciao, caro” risponde Calypso “come stai?”
In alto a destra compare il credito a disposizione: tre euro e venti centesimi. Troppo poco per portarla nella chat privata.
“Hai giocattoli?” chiede lui.
“No, oggi no” risponde Calypso “sono io il giocattolo”.
Jacktheripper inizia a caricare credito: quattro e trenta, nove e quaranta, venti e dieci. Il momento preferito di Calypso, l’erezione monetaria. Pagano per vederla nuda. Lei che, per strada, nessuno si gira mai a guardare.
La spia rossa della chat privata si accende e Calypso sfila lentamente il reggiseno, poi toglie il perizoma, lo fa scivolare a terra e inizia a sfiorarsi.
“Hai audio?” scrive jacktheripper.
Quello è il solo momento in cui Anna si vergogna, perché la voce è l’unica cosa sua che non le riesce di togliere a Calypso. Ma bisogna andare fino in fondo, così accende il microfono e inizia a gemere.
Jacktheripper fa in fretta e non ha grosse pretese: un’onesta sega al giusto prezzo di due euro al minuto.
Dopo averlo congedato, Calypso reindossa la biancheria, torna nella chat pubblica e trova duro85.
“Ciao, sei quella dell’Odissea?” scrive lui.
È uno nuovo, vuole chiacchierare.
“Sì, la ninfa Calypso, al tuo servizio”.
“E come si chiama la tua isola?”.
“Ogigia, giovane navigante”.
Quello è il solo momento in cui Anna si diverte, quando tornano fuori i suoi studi letterari, sprecati per tanti anni in un ufficio tecnico. E poi la troia intellettuale fa sempre effetto.
“E perché non ti sei chiamata Circe?”, scrive duro85. Deve essere uno studente, pensa Calypso, e sorride, o forse è Anna a sorridere.
“Perché non posso trasformarvi in porci, lo siete già”.
Duro85 riempie la finestra della chat con una risata scritta così in maiuscolo da far quasi rumore, poi se ne va. Non bisogna farli ridere, pensa Calypso. Dopo, non si eccitano più.
Alla fine arriva Ulisse. Ulisse prima aveva un altro nick, si chiamava Coito.
Una volta gli era caduta la connessione e Calypso gli aveva chiesto se era un coito interrotto, lui aveva riso ma non se ne era andato, anzi era tornato più volte. Poi aveva cambiato il nick in Ulisse, soltanto per lei.
Parlano spesso, specie a tarda ora, quando la chat pubblica rimane deserta o quasi. Anna gli ha detto anche di quell’altro suo Ulisse, che si chiama Andrea e che non vede ormai da qualche mese.
Anche lui era rimasto sette anni, proprio come Ulisse sull’isola di Ogigia. Sette anni in cui Anna non gli aveva offerto l’immortalità, ma una cena e un letto due mercoledì al mese, quando la moglie faceva il turno di notte. E al posto della zattera per il ritorno, la promessa che sarebbe stata lì ad aspettarlo, pronta a riaccoglierlo.
Le sue mani facevano sentire bello il suo corpo e questo le mancava, oltre alla sua voce un po’ roca, al suo odore di fumo e menta, all’attesa di quei mercoledì.
Tutti sanno dell’attesa di Penelope, ma di quella di Calypso nessuno parla mai. Le attese delle amanti non valgono niente e non interessano a nessuno.
Il nuovo Ulisse, quello della chat, è un informatico di quarantacinque anni, anche lui da poco rimasto solo. Ha chiesto tante volte a Calypso di incontrarsi dal vivo, ma Anna ha sempre rifiutato. Meglio continuare a unirsi così, senza rischi, senza impegni, senza l’ingombro dei corpi.
Ulisse entra in privato, ha molto credito. È sempre generoso. Apre la finestra cam dell’utente e si mostra a sua volta.
“Sei eccitata?” scrive.
“Sì, tanto” risponde Calypso, gettandogli un rapido sguardo: è grosso, muscoloso, ha un tatuaggio sulla spalla. Non mostra il viso.
Come sono stupidi gli uomini a volte, pensa Anna, si illudono di farti godere senza nemmeno mostrare gli occhi. Poi rimpicciolisce la finestra di Ulisse fino a farla sparire quasi completamente, ingrandisce la propria su tutto lo schermo e inizia a spogliarsi.
Anna guarda il corpo sinuoso di Calypso, perfetto e senza odore, luminoso come quello di una Dea. Gioca con i ciuffi della parrucca, poi scende ad accarezzare le vene appena in rilievo intorno ai seni e la peluria bionda e fine della linea alba, fino l’interno delle odiate cosce, osservando come in uno specchio Calypso che si passa le mani tra i capelli lucenti e sul corpo di porcellana, senza vene né peluria né alcun genere di difetto umano. Poi vede Calypso sorridere di gioia e si accorge di sorridere a sua volta.
Anna, Calypso e Ulisse raggiungono il piacere nello stesso istante, un attimo prima che la connessione inizi a tremare, scomponendo per un attimo Calypso in piccoli rettangoli, prima di cadere.
Ulisse e Calypso scompaiono insieme e Anna, rimasta di nuovo sola, controlla i guadagni della serata. Cinquanta euro, non male in meno di un’ora. Li sta mettendo da parte per fare qualcosa, forse un viaggio, chissà quando. Ma Anna non lo fa solo per i soldi: lo fa perché le piace essere Calypso.
Controlla le foto del profilo: in nessuna è riconoscibile.
Ha creato Calypso in poche ore e prima o poi, in un solo secondo, la distruggerà. Tasto destro, cancella profilo, conferma.
Un giorno Anna riprenderà a uscire di casa e troverà un uomo con cui andare a cena, al cinema e forse con cui vivere.
Allora Anna ucciderà Calypso, con un solo clic.
Se non accade prima il contrario.
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Il massaggiatore
Credo di poter affermare senza falsa modestia che il mio centro estetico è il migliore della città. Forse proprio perché non ho mai avuto in me la bellezza, sono diventato così bravo a riconoscerla e a custodirla nelle donne. Certo, il mio aspetto è inusuale, ma le mie clienti vi sembrano ormai assuefatte, anzi, alcune le direi persino intenerite dalla mia stranezza. Lo so, l’impatto iniziale non è facile. D’altra parte ci sono abituato, fin da ragazzino. Quando a quindici anni raggiunsi i due metri e i duecento chilogrammi pensai che il mio corpo maledetto non avrebbe mai smesso di crescere. E con esso la mia vergogna.
In più una malattia rara fa sì che non vi cresca alcun pelo, nemmeno sul viso. Nemmeno la barba, nemmeno le ciglia. Un corpo enorme, liscio, da neonato gigantesco. Non ne sopporto neppure la vista. Mi spoglio al buio. Mi lavo in penombra e non ho specchi. L’unica parte di me che riesco a guardare sono le mie mani, le dita lunghe e affusolate, i polsi forti, i palmi accoglienti. È come se in loro si concentrasse la grazia di cui tutto il resto del mio involucro è completamente privo. Sono fortunato in fondo, è l’unica parte di me che non potrei evitare di avere sempre sotto gli occhi. Guardo le mie mani e vedo bellezza, dimentico il resto e divento le mie mani.
D. arrivò un tardo pomeriggio, dopo l’università. Ricordo il suo sguardo la prima volta che mi vide. So che avrebbe voluto scappare, solo per educazione non ci riuscì. Mi piacciono le ragazze ben educate, che per gentilezza nascondono la paura che hanno di me. All’inizio era tesa, poi però si è tranquillizzata, ha capito che non costituivo un pericolo. Era serena quando si è spogliata e si è sdraiata sul lettino dei massaggi, ad aspettare le mie mani. Ora è una cliente abituale, non può più fare a meno di me.
D. è bellissima. Le mie mani scorrono sul suo corpo perfetto, dal collo alle spalle, giù lungo la schiena fino alle punte dei piedi. Poi le chiedo di girarsi e lei obbedisce. Non si vergogna di mostrarmi i seni poco più che da ragazzina. Tiene gli occhi chiusi, sorride. Le mie mani scivolano sulla sua pelle, perfezione su perfezione, senza incontrare mai un difetto, un ostacolo.
È difficile spiegare quel che provo nel massaggiare D., direi che ne traggo piacere, ma anche un senso di disturbo. È qualcosa che deve avere a che fare con la mia paura degli spazi ampi, e con il grido.
Esco di casa qualche volta, di solito quando non posso evitarlo, ma avverto subito una vertigine e poi il grido, quel grido che ho da sempre dentro di me, salire dal fondo dello stomaco, dove lo tengo rinchiuso, e arrivare su fin quasi alla gola. Ad ogni passo ho paura che venga fuori, così tutti si accorgeranno di me e mi guarderanno come io non voglio.
Qui invece, nella mia casa, nel mio centro estetico, mi sento al sicuro, so che il grido rimarrà ben intrappolato. Perché qui tutto è contenuto, accogliente, stretto addosso a me. E mi sento di nuovo come quando ero piccolo, quando sembravo ancora un bambino come gli altri, prima che il mio corpo iniziasse a espandersi a dismisura, insieme a tutto quello che ci cresceva dentro e che non potevo fermare. E quando c’era ancora mia madre.
Nemmeno le persone mi fanno paura, quando sono qui dentro, perché arrivano una alla volta e vengono per me. Solo quando sono davanti a D., allora un po’ di timore ce l’ho. Il suo splendore è come uno spazio troppo ampio in cui mi disperdo, mi acceco. La sua bellezza emana troppa luce per i miei occhi senza ciglia.
A me la bellezza piace di più cercarla negli anfratti, nei dettagli, dietro gli ostacoli. Per questo le mie clienti preferite possiedono uno o due al massimo di quelli che io chiamo nidi di bellezza.
C. ad esempio ha piedi perfetti, piccole dita bianche come perle. Quando le dita delle mie mani si intrecciano a quelle dei suoi piedi la bellezza si ricongiunge alla bellezza. Sembra impossibile che quei piedi riescano a reggere il suo corpo grosso e sgraziato, a portarlo in giro per le strade, dove nessuno mai lo guarderà con desiderio, mentre l’unica parte degna di essere vista rimane nascosta. Le dico sempre, almeno d’estate, indossa sandali alti, aperti, hai piedi così belli! E lei risponde, ma chi li guarda, i piedi di una come me?
N. è arrivata un mattino, con le borse della spesa. Ha quarantasei anni e seni di porcellana per miracolo scampati al tempo, persi in un corpo cadente e rugoso più di quanto la sua età giustifichi. Hanno risucchiato tutta la bellezza in sé, lasciando avvizzire il resto. Ma N. non li mostra, non indossa mai scollature. Teme che il fulgore dei seni non faccia che accentuare la bruttezza di tutto il resto e li nasconde. Tutto questo è davvero triste, uno spreco di meraviglia.
M. ha la schiena di seta, in un corpo ruvido come carta vetrata. Ma lei nemmeno lo sa, nessuno gliel’ha mai detto, e non lo imparerà da sola perché non ama il suo corpo e non lo accarezza mai. Tanto meno la schiena, che è nascosta e difficile da raggiungere. Ha avuto un uomo, di cui parla poco e al passato, ma pare non essersi mai accorto della bellezza della sua schiena. Ci sono persone che hanno le mani cieche.
S. è giovane, ma ha i lineamenti del viso mischiati alla rinfusa e gambe e braccia ossute come rami secchi. La sua bellezza è la più difficile da trovare, sta tutta in un quadrato di pelle sopra l’ombelico, dove una voglia a forma di nebulosa è circondata da una perfetta costellazione di nei. Un piccolo big bang, uno spazio infinito e minuscolo che solo io ho trovato.
Ci sono persone che a nessuno verrebbe in mente di spogliare, per vedere se hanno qualcosa di bello. Le mie mani invece sì, scorrono con amore e dedizione sui loro corpi inerti, e quando incontrano un nido di bellezza lo sanno riconoscere. Allora gli girano intorno, lo sfiorano, lo seducono. Poi vi si tuffano e lo possiedono, se ne impadroniscono per preservarlo, per sempre.
D. ha appuntamento tra poco. Devo dirle, in qualche modo, di non venire più. La vastità della sua bellezza mi fa soffrire. Sento già il grido che inizia a salirmi dentro.
Viviana Viviani