28 Giugno 2018

La Rai è un triceratopo e racconta un Paese allo sfascio, con trent’anni di ritardo sul mondo. Per risorgere, bisogna usare la regola di Fellini: assumere i poeti come sceneggiatori di fiction

Se i giornali sono in crisi, non servono più neanche per accartocciare il pesce, la televisione è nel baratro. Chi guarda ancora lo schermo, specie di monocolo divino, di ciclope delle meraviglie? Chi ca**o si fa ancora cullare dalle poppe di Mamma Rai? Direi, dai 40 in giù, quasi nessuno. Intorno ai 20, poi, è il niente. I miei studenti in università mi fanno da cavia, sono il mio oblò su questo pianeta che non mi appartiene, non mi appare. Su 36 giovanotti, nessuno guarda le reti istituzionali. Qualcuno ha Sky. Molti usano Netflix. Per cui. Cosa ce ne frega della Rai? La Rai è un triceratopo statale: serve per dare posti di lavoro. Si vede.

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Ieri, per caso, mi capita di ascoltare via radio la sintesi del ‘nuovo’ palinsesto Rai. Mi pare di essere vent’anni fa. Trent’anni fa. Cosa resterà di questi anni Ottanta. Invece. 2018. Ci sono: Bruno Vespa, Fabio Fazio, Antonella Clerici che fa Portobello e, udite udite, Mara Venir alla testa di Domenica In. Alberto Angela fa il gioco delle tre carte, porta Ulisse su Rai 1, Licia Colò torna a Rai 3 e Claudio Baglioni resta a fare il Festival di Sanremo. Urca, che novità, pare il cimitero degli elefanti risorti. La Rai, però, per quanto parzialmente, rappresenta l’identità del Paese. Un Paese che deve essere rassicurato, che deve essere solleticato con il solito, cibato con la solita minestra. Guai a innovare, a confondere i ruoli, a muovere le acque, anatema caschi sul capo del fomentatore di caos. Eppure. Noi esistiamo perché qualcuno ci sorprenda. Quotidianamente. Non vogliamo le pacche sulla spalla – pretendiamo lo schianto, qualcuno che ci pigli per le palle, eventualmente.

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M’importa altro, però. La narrazione che l’Italia dà di se stessa attraverso la rete pubblica. Rai, l’autunno caldo delle fiction, ulula un titolone di Repubblica.it. Più che altro, mi accaldo per l’incazzatura. Gli scrittori che rappresentano il nostro Paese sono i giallisti, i soliti (Maurizio De Giovanni, Antonio Manzini, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri), e poi… Umberto Eco e Elena Ferrante. Del primo si cura l’adattamento del Nome della rosa (nonostante il precedente, il film, ultravisto, ultranoto, di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery); della seconda (già beatificata al cinema da Mario Martone) un film per la tivù tratto da L’amica geniale. Insomma, la Rai crede, come sempre, nell’usato sicuro. Ma, davvero, questo Paese, narrativamente parlando, è risolto nel Nome della rosa, il vecchio che avanza, nel Commissario Montalbano e nei romanzi della Ferrante? Siamo ancora fermi qui? Il film sul Nome della rosa è del 1986; il film tratto dal romanzo della Ferrante è del 1995; il primo romanzo ‘di Montalbano’ è del 1994. Vedete? Ve lo dicevo. La Rai è ferma a trent’anni fa.

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Che fare? Facile. Abbiamo un mucchio di narratori di talento, con un talento che sa adattarsi ad ogni ‘genere’, che schiaffeggia, non vogliamo più farci malmenare da Morfeo, il dio del sonno. Dico quelli che piacciono a me. Flavio Santi, Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Massimiliano Parente, Isabella Santacroce, Vitaliano Trevisan, Andrea Temporelli. Cominciare a ‘trattare’ televisivamente i loro testi sarebbe già un passo per svecchiare questo Paese marmorizzato nella noia.

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Altrimenti. Resta la regola di Federico Fellini. Ho rivisto Otto e mezzo. Impressionante. Narrativamente, intendo. Sembra girato domani. Te credo. Fellini aveva una regola. Si circondava di poeti. Otto e mezzo, ad esempio, è scritto con Ennio Flaiano, uno scrittore al di là dei generi, un poeta della narrativa. Amarcord lo ha scritto con Tonino Guerra. Il suo Casanova lo ha scritto insieme ad Andrea Zanzotto. Per La dolce vita chiese aiuto a Pier Paolo Pasolini. La voce della Luna l’ha scritto Ermanno Cavazzoni. E poeti contemporanei come Valerio Magrelli e Rosita Copioli potrebbero intrattenervi con una fioriera di aneddoti ‘felliniani’. Fellini, per rivoluzionare il cinema mondiale, aveva bisogno dei poeti. Ecco. Mamma Rai dovrebbe assumere i poeti come sceneggiatori di fiction. Subiremo meraviglie. Figuriamoci. I poeti non vogliono il posto sicuro, si beano sul rasoio dell’insicurezza. (d.b.)

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