Guido Piovene (1907-1974), scrittore e giornalista, era un uomo misurato nei gesti e nelle parole. Più portato alle riflessioni che alle affermazioni, per molti versi sembrava scrivere per se stesso piuttosto che per il pubblico. Un personaggio di grande cultura e raffinatezza, ma di altrettanta pigrizia e indecisione a tutto. Forse un portato delle sue origini nobili.
Per fortuna al suo fianco c’era la moglie Mimì. Oltre che essere la sua prima lettrice, era lei a trattare con gli editori, gli agenti letterari e gli amministratori dei giornali, a organizzare ogni aspetto della loro vita e degli innumerevoli viaggi che hanno compiuto insieme. Che fossero nel loro splendido appartamento di Palazzo Belgioioso nel centro di Milano o sotto il sole a 40 gradi nel Sahara, Mimì era sempre accanto al marito, elegantissima, perfettamente truccata e pettinata, senza mai un capello fuori posto, perfetta e immutabile nel tempo. E poi se non ci fosse stata lei a fargli da autista su una favolosa Buick nera non sarebbe mai nato il primo dei suoi leggendari reportage di viaggio, il De America del 1953.
Qualche anno più tardi, senza più la Buick nera ma sempre con Mimì al volante, nacque il magnifico Viaggio in Italia del 1957, nel quale Piovene racconta, come forse nessun altro ha mai saputo fare, il passaggio per molti versi drammatico della società italiana da contadina a industriale. E poi tanti altri viaggi, ça va sans dire uno di fianco all’altra, in Francia, in Russia, per arrivare fino a L’Europa semilibera, uscito nel 1973, un anno prima della morte dello scrittore.
A oggi Piovene resta un maestro insuperato nella nobile, e purtroppo ormai decaduta, arte della scrittura di viaggio; osservava con grande lucidità e poi descriveva ciò che vedeva senza pregiudizi ideologici, ma sfruttando la sua innata abilità di subacqueo delle sensazioni sapeva cogliere ogni aspetto sociale, umano, politico ed economico del luogo che di volta in volta si presentava davanti ai suoi occhi. Viaggiare per capire più che per vedere: una lezione da tenere a mente in un’epoca in cui tutti viaggiano e vedono senza capire niente.
Leggendolo, l’impressione è che Piovene fosse un uomo afflitto da un eccesso di intelligenza. Nel senso più nobile dell’espressione. Intendo dire una di quelle persone con il dono, o la disgrazia per certi versi, di penetrare fin troppo a fondo nelle cose e soprattutto nella natura umana. Emblematica in questo senso anche la malattia neurologica che lo colpì e afflisse i suoi ultimi anni di vita. Alla fine, aveva il corpo completamente paralizzato, ma la mente ancora presente, indomabile e lucidissima fino agli ultimi istanti. Primo oggetto di questa continua opera di scavo e di analisi che ho appena citato è stato se stesso. Non è certo un caso se uno dei romanzi più belli di Piovene, Le furie uscito nel 1963, è una vera e propria resa dei conti con i fantasmi del passato personale e ideologico, un faccia a faccia senza indulgenze con le sue ossessioni. In una lunga passeggiata per le vie della sua Vicenza, che giustamente è stata definita il grembo materno dal quale forse non si è mai veramente allontanato, Piovene piano piano vede scorrere davanti a sé le pagine della propria vita, a partire da quelle più oscure come l’adesione al fascismo, le simpatie per il generale Franco durante la Guerra di Spagna, il tradimento delle vecchie amicizie, i rapporti con la madre. Di fatto, una passeggiata nel dolore del ricordo.
L’intelligenza e la capacita di analisi hanno portato Piovene a mantenere sempre un atteggiamento di distacco e di scetticismo che spesso è stato giudicato male. Non si trattava di snobismo o di pavidità come da più parti è stato detto, ma semmai di una presa d’atto che non tutto può essere capito e soprattutto che non tutto può essere detto. Più dei fatti gli interessavano i labirinti dell’animo umano; la sua formazione cattolica lo portava, si può dire naturalmente, ad addentrarsi nelle ambiguità della colpa, del piacere, del peccato. Già, ma vaglielo a spiegare a quelli che hanno sempre pronta una spiegazione razionale per tutto, che non hanno mai dubbi e ripensamenti. Loro sanno, o credono di sapere, quello che è bene e quello che è male. Tranciano giudizi con l’accetta, vanno avanti come bulldozer. Piovene invece era uomo di fioretto, un maestro del chiaroscuro e delle mezze tinte.
Lettere di una novizia, il libro che gli ha dato la fama, pubblicato nel 1939, è un esempio lampante di come Piovene sapesse muoversi in quell’autentica terra di nessuno che è la coscienza umana. Il romanzo, scritto in forma epistolare, è composto da quarantadue lettere che ruotano intorno alla drammatica vicenda del noviziato di Rita, una giovane borghese, e al mistero della sua improvvisa crisi di vocazione. È ambientato in un convento tra i colli del vicentino, la terra di origine dello scrittore e che rappresenta uno sfondo perfetto per la storia. Quel Veneto, sospeso tra mare e montagna, che costituisce lo scenario ideale e simbolico delle contraddizioni e delle indecisioni dei vari personaggi. Lettere di una novizia è il romanzo capolavoro dell’ambiguità e dell’arte di non conoscersi, come spiega bene lo stesso autore nella nota introduttiva:
«I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra loro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo. Ognuno capisce se stesso solo quanto gli occorre; ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati, pronti a mutare seconda la sua convenienza».
In tutta la sua opera, e credo anche nella vita, Piovene ha dedicato grande attenzione a questo atteggiamento; per definirlo a volte ha utilizzato l’espressione “malafede”, ma perlopiù ha fatto ricorso al vocabolo “diplomazia”. Dal momento che non era certo uomo solito a usare le parole a vanvera, il termine “diplomazia” per lui aveva un significato ben preciso:
«Noi uomini moderni non possiamo aspirare alla stupenda ignoranza di alcune zone pericolose dell’animo, che garantiva la vita dei nostri antichi. Noi siamo costretti all’acume. Appunto per questo occorre moderarlo continuamente di una pietà guardinga… Ognuno di noi, come medico, nel suo animo deve saper rischiarare o abbuiare, ricordare o, se occorre, lasciar cadere nell’oblio, e regolare la chiarezza interiore con una specie di umana diplomazia. Diplomazia, ma quella stessa che insegna a nascondere anche nel nostro segreto le cose meno degne dell’animo nostro».
Dunque, una visione lontanissima da quei moralismi fanatici, tanto in voga allora come oggi, incapaci di cogliere le pieghe dell’anima e le tortuosità dei sentimenti, e che hanno sempre portato solo a dei disastri. Il suo elogio della “diplomazia” rivela una grande pietà per le miserie umane, per le nostre debolezze e i nostri egoismi.
Quanto alla speranza, ammesso che esista, Piovene la affida alle ultime parole che Rita, la protagonista delle Lettere di una novizia, pronuncia prima di morire: