Le città sono concetti in cemento, acciaio, vetro. Il tentativo – illusorio, labirintico – di dare una forma a ciò che fugge e muta, incessantemente. Buenos Aires. ‘Aria buona’, più o meno. Vago da solo, la mattina. Estate. 28 gradi. Le città sudamericane hanno asfaltato il selvaggio. L’uomo ha sedotto e assopito e sottomesso una natura che urla, che si muove. Buenos Aires è come un giaguaro con selle di cemento sulla schiena e una museruola d’acciaio a sedare i denti. Le città sudamericane, in genere, sono brutte. Buenos Aires ha il fascino di un luogo irreparabile: gente è giunta fin qui, alla foce del Rio della Plata, costellando ciò che si muove, senza sosta, il fiume, l’appariscente speranza delle foreste, di edifici inevitabili e ‘parigini’. Buenos Aires – dicono i cittadini, con un ego geograficamente infinito – è una città ‘europea’. Forse è il lato grottesco di una città europea. Se chiedo a una amica che conosce l’Europa, qual è l’anima dell’argentino di Buenos Aires – animale particolare, che non ha nulla da condividere con l’argentino di Santa Fe, con quello di Cordoba o della Pampa – mi dice che qui conta la passione, la virilità, l’audacia. Una certa spregiudicatezza nell’amare, un certo sprezzo verso le convenzioni, una certa retorica infantile del potere – visibile nella struttura urbanistica della città e nei monumenti, spesso spocchiosamente celebrativi. Ieri camminavo in Avenida del Libertador. Nei pressi sorge la Biblioteca Nacional. Vicino al Museo Nacional de Bellas Artes c’è una scultura. Non ha alcuna importanza per la storia dell’arte. La ha scolpita un francese, ai primi del Novecento. Raffigura un centauro. Il centauro, però, ha la testa piegata sulla spalla sinistra, ha gli occhi chiusi, sospira. Feroce e triste allo stesso tempo. Ecco Buenos Aires, mi dico. Una creatura difforme, che ha il corpo selvaggio e la testa che sogna, che si rammarica, che non ha paura di avere paura.
Buenos Aires ha una straordinaria tradizione di narratori. In particolare, il genio si risolve in racconti brevi, fulminei come una coltellata. Il sangue scorre visibile, ovunque: Buenos Aires, con i suoi edifici artatamente ‘europei’, può crollare da un momento all’altro, come una costruzione artificiale, inessenziale, infine. Forse Buenos Aires è una mongolfiera. Se Horacio Quiroga è l’anima selvaggia – sottoterra – di Buenos Aires, Julio Cortázar è quella astratta e metafisica. Roberto Artl, crudo e cruento, è più significativo del mondo labirintico di Borges. Diversi anni fa Liliana Heker, tra i massimi scrittori viventi di Buenos Aires – una rigorosa esteta nell’arte raffinata e impossibile del racconto breve – ha interpellato Borges. ‘Cosa le suggerisce la parola morte?’. Attacca lei. Attaccando il maestro – Borges è come la testa del centauro francese trapiantato in Argentina, dove tutto è possibile perché nulla è. Borges risponde. ‘La parola morte? Mi suggerisce… una grande speranza. La speranza di non essere più. Sono certo, come mio padre, che insieme al corpo muore anche l’anima. Qualche volta, mi sento un po’ triste – capita a tutti; sopra tutto se sei un uomo solo, cieco, che ha qualche amico prezioso, ma non troppi, un uomo timido come me; sì, a volte mi sento triste. Eppure, mi consolo pensando. Già, si tratta proprio del pensare e della speranza. Morirò e finirà tutto, non posso desiderare altro, sono grato alla norte, che è la parente stretta del sogno, che è la cosa più grande che può darci la vita’. L’intervista, inedita in Italia, fitta di epigrafi tipicamente borghesiane – ‘Direi che il concetto di Dio è la massima invenzione della letteratura fantastica: è più strana l’idea di Dio che quella del Golem’ – dimostra che Borges è lo scrittore meno argentino di Buenos Aires. Eppure, per capire Buenos Aires bisogna entrare negli occhi del centauro. Morire mille volte. E scarcerare il giaguaro sommerso da tonnellate di avidità in cemento.
Davide Brullo