05 Marzo 2025

I “cinarchetipi” di Giulio Aristide Sartorio, “uno dei maestri di domani”

In Flores et humus, summa teorica di Sartorio pubblicata nel 1922, c’è una codificazione che il pittore fa del proprio immaginario artistico e creativo: distingue due stili a cui corrispondono principi e mentalità differenti che riassume nei termini di «gotico» e «mediterraneo». Il gotico è lo «stile dell’energia»[i] e si sviluppa verticalmente, secondo un principio ascensionale che ha permesso la nascita della vetrata e del quadro che, come apertura, si apre su una profondità prospettica o interiore. Lo stile mediterraneo, che incarna «il pensiero, la libertà della mente»[ii], si estende invece per orizzontale e ha dato vita al fregio, alla pittura decorativa murale. 

Il gotico è ciò che corrisponde a una visione di simulata profondità già di per sé tesa dal movimento, mentre il mediterraneo è racconto, combattimento con la forza di gravità, l’epica della tradizione classica dove l’azione tragica si manifesta, paradossalmente, nelle figure instabili, in bilico sulla punta dei piedi, scosse dal vento della ninfa direbbe Aby Warburg.

G.A. Sartorio, Sagra (dittico), 1906-1923, Milano, Fondazione Cariplo 

Gli uomini dei fregi sartoriani ondeggiano: sono così flessuosamente antieroici che la loro magra gabbia toracica, con le costole in vista, fa da elemento ritmico e istituisce, assieme alle complesse pieghe dei tessuti e l’irruzione violenta di animali selvaggi, il dinamismo e la vitalità che a livello continentale si esprime con l’esaltazione delle tortuosità vegetali dello Jugendstil

Lo stesso Marinetti definisce Sartorio nel 1899 come «uno dei maestri di domani»[iii] che ha espresso «in una maniera audace l’emozione nostalgica delle nostre Anime vaganti nello spazio e nel tempo»[iv]. Si spiega così la sua attrazione per i pavimenti cosmateschi e le colonne tortili dove il tempo collassa nel loro dispiegarsi ornamentale: primo germe visivo di una necessità di mettere in moto le composizioni che poi si tradurrà nel cinematografo, il mezzo che, in termini sartoriani, rappresenterebbe l’incontro del «gotico» con il «mediterraneo», quelli che definisco i cinarchetipi

G.A. La Sibilla, 1922

Cinematografo e colonna tortile: immagini in cui il «mediterraneo» si dà nel «gotico».  

L’esperienza diretta con il cinematografo lo impegna dalla Prima guerra fino al 1921: Sartorio afferma che questo nuovo mezzo di espressione necessiti di una «letteratura della visione»[v], eco dell’Imaginifico dannunziano. Sartorio possiede infatti un modo di somatizzare le immagini per cui esperienza, vista, corpo e creatività «s’inficiano del più mirabolante veleno sinestetico»[vi]

Per il fregio del Parlamento, Sartorio aveva utilizzato il metodo della proiezione delle diapositive su tela per poi intervenire pittoricamente cercando la resa plastica delle immagini: è la versione tecnica di ciò che Jean Moréas aveva espresso nell’articolo Le Symbolisme (18 settembre 1886) con il suo «rivestire l’Idea d’una forma sensibile». Se noi lanciassimo un sasso contro i corpi che affollano Diana d’Efeso sentiremmo suonare a vuoto, avvertiremmo lo schermo, vedremmo con il tatto la pellicola che costituisce la loro pelle: ecco la superficie che prevale sull’interno del volume come avviene nella scultura di Rodin, Medardo Rosso e Monet. 

G.A. Sartorio, Diana d’Efeso, 1895-1899, Roma, GNAM

L’uomo, secondo Sartorio, vive immerso nei sensi e l’arte ha lo scopo di eccitarli. Non deve stracciare nessun velo di Maya, ma rimanere in visibilio di fronte quel coagulo di immagini di puro piacere. Lui stesso afferma che la sua intima convinzione è quella che ha ritrovato nei testi orientali dei Veda e della scuola cirenaica: 

«Noi viviamo nei sensi; oltre i sensi sta il buio insondabile, e l’arte che raffina i sensi è la migliore esortatrice della vita, la fa tollerare ed amare»[vii].

Sartorio definisce le religioni come «forme embrionali dell’arte, destinate a tranquillizzare le masse»[viii], mentre le arti plastiche, tra cui la pittura, «sono una religione laica, pratica, un esponente delle idee della razza desiderosa di vivere»[ix]: è in atto quel processo di reincantamento magico dell’esperienza il cui punto massimo sarà la guerra e l’organizzazione delle masse in strutture ornamentali. 

L’arte fa amare la vita e l’ornamento partecipa alla gioia della libertà plastica, del piacere estetico, anche dell’antinaturalismo in cui si incontrano giapponismo, arte orientale, bizantina, in continuità con la cultura sensuale che si rifà a Dioniso e Nietzsche: filosofo che, assieme a Schopenhauer, Heine e Wagner, Sartorio considera come propugnatore di «idee chimeriche, pittoriche e improbabili»[x].

Tutto è in tensione per la Gesamtkunstwerk, da qui l’esperienza totalizzante della guerra per cui partirà volontario e dei tableaux vivants realizzati con il conte Primoli. Se già il lavoro sulla fotografia e il cinematografo tende a insistere sulla deformazione, l’esperienza totalizzante della guerra, dei corpi che si disfano in cadaveri e perfino si potenziano attraverso imbracature, maschere e apparati tecnologici aprono la possibilità di un nuovo scoperchiamento imaginifico fatto di espressionismo, fisionomie stracciate, corpi tesi per rivitalizzare la superficie, allungamenti in cerca di azione. 

G. A. Sartorio, Montello, 1918, Roma, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

Il chiasso ritmico delle figure e la loro lotta con lo spazio e con le dimensioni faranno dire ad Alfedo Melani che l’opera di Sartorio è tutta «rumore e superficialità»[xi]: questa, se non avesse avuto gli argini della forma, sarebbe diventata come quegli schermi televisivi che, in assenza di segnale, dissolvono le immagini nello sfarfallio elettrico di un mucchio di neve. 

Gabriele Romani

*In copertina: Giulio Aristide Sartorio, Studio per “La Gorgone e gli eroi”, 1890-1899


[i] G.A. Sartorio, Flores et humus, Città di Castello, Il solco, 1922, p.7. 

[ii] Ivi, p.8. 

[iii] F.T.Marinetti, ‘L’Exposition internationale de Venise’, La Vogue, vol. III, 1899, p. 38 [mia traduzione dal francese].

[iv] Ivi, p. 31. 

[v] G.A. Sartorio, ‘Sull’Arte dello Schermo’, Cine Mondo, n. 45, 5 agosto 1929, p.6. 

[vi] M. Marinoni, ‘Visibilità e superficie del tragico. Il pathos dell’immagine in d’Annunzio (dai Taccuini al Libro segreto)’, Arabeschi, n.8, luglio-dicembre 2016, p. 74.

[vii] G.A. Sartorio, Flores et humus, op. cit. p.3.

[viii]Ivi, p.5.

[ix] Ibidem.

[x] G. A. Sartorio, ‘La rappresentazione del Faust di Goethe’, Rassegna contemporanea, I, n. 12, dicembre 1908, p. 463. 

[xi] A. Melani, L’ornamento nell’architettura, op. cit., p.474.

Gruppo MAGOG