29 Maggio 2020

“Nel caos degli sguardi, sulle rive di un delirio”. Dialogo con Giovanni Sepe. “La poesia non serve, non deve servire, è rallentamento, è pausa”

Della poesia di Giovanni Sepe colpisce innanzitutto la naturalezza del linguaggio, che prende forza dal parlato e dal quotidiano e si arricchisce di una musicalità personale che va oltre la metrica. Nella silloge Il peso della luce, edita da Controluna nel 2018 e che avrebbe meritato maggior attenzione, ogni aspetto della vita, famiglia, lavoro, relazione di coppia trova collocazione sull’altare nella poesia.

Questo avviene in modo spontaneo e per nulla artefatto, grazie a una scrittura domestica, popolare, eppure non prosastica, anzi profondamente lirica. Sepe sembra indagare l’esistenza umana senza la pretesa di arrivare a una verità, se non nella concretezza delle cose. Il titolo stesso ci fa capire che il completo svelamento, la luce, porta con sé un peso, una sofferenza, poiché ciò che illumina al tempo stesso addolora.

Come afferma Giuseppe Cerbino nella prefazione, Sepe ha quella “competenza quasi istintiva di chi non cambia registro tra il piano del parlato e quello poetico, come se nella vita parlasse esattamente come i suoi versi testimoniano

Nel corso di questa intervista, mi sono resa conto che è proprio così.

A cosa serve la poesia?

La poesia non serve e non deve servire, inteso in un senso generale o sociale. Serve al poeta più che agli altri. Può apparire strano ma è l’unica materia in cui la creazione in primo luogo è goduta dal creatore stesso. E non cambia né la vita né il mondo ed è giusto così, poiché si muove in un mondo accanto.

Chi è il poeta?

Il poeta questo sconosciuto. Forse la stragrande maggioranza delle persone, fruitori o meno di poesia, ma in modo particolare i non fruitori hanno l’idea secondo la quale poeta sta per sognatore ed invece credo sia proprio l’opposto: il poeta è spesso senza sogni o meglio addentrato alla vita tanto da rielaborarla. Il poeta insomma è uno che dice come vede e non sempre vede come dice. È decisamente da sfatare il mito secondo il quale egli abbia maggiore sensibilità o sentimenti più profondi. Al massimo è un neonato che scopre la lingua in cui stare. “Ha una madre preziosa e un padre non suo” cito un verso di una mia poesia per dirti che costui deve restare nella propria lingua pur magari accettando uno stile sempre in movimento. La poesia non è sostanzialmente sentimento, se così fosse i cimiteri e i reparti maternità sarebbero pieni di poesia.

Come ti sei accostato alla poesia?

Ho iniziato a scrivere poesie, senza rendermene conto quasi, quando ho tolto gli occhi dal mondo. Quando mi è arrivato chiaro che la voce che ripetevo a me stesso forse andava liberata da me stesso.

Lui è Giovanni Sepe

Come definiresti la poesia?

È inutile cercare una definizione di poesia, posso solo dire che definito ciò che non lo è, la poesia non è nemmeno il contrario di esso. È sicuramente una produzione di versi, i quali devono scandire un ritmo e il fine del verso non per forza coincide con il senso logico di una frase compiuta. In poesia entrano in gioco significati e significanti, e questi ultimi hanno più peso dei primi, per il semplice fatto che non hanno lingua, e danno suono e ritmo al verso. Quindi la poesia, a mio avviso, è forma: è cioè un modo di dire cose magari complicate con semplicità o anche il contrario, ma sempre offrendo spunti e immagini con parole mai casuali e frettolose, ma dosate a quel dire, incastrando il senso ai suoni.

La poesia è fuga o incontro?

La poesia è proprio esserci: è esserci totalmente. Anzi, dirò di più: è rallentamento, pausa, fino a dilatare non lo spazio, ma proprio il tempo per stare maggiormente nello spazio. Credo che sostanzialmente le parole siano esistenza, volontà di esistere racchiudendo in esse il mondo. Ma, ahimè, non tutto del mondo corrisponde ai requisiti semantici della lingua. C’è una parte dell’universo inesprimibile, questa parte, non nominabile, appartiene al pensiero. I più grandi pensatori sono stati dapprima abili argomentatori, ciò vale a dire che tanto più incisiva è l’espressione tanto più forte il pensiero penetra le coscienze, e le conoscenze, umane. Sebbene ci sia la possibilità di un pensiero muto, finché esso non sarà veicolato dalle parole giuste resterà un inesprimibile guizzo che muore. Senza parole la morte ci vive accanto.

Cos’è per te l’ispirazione?

Chi crede che la poesia sia, per il poeta, evasione, fa un errore grossolano. La poesia, in particolar modo durante la creazione, è sosta. L’idea secondo la quale essa ‘arrivi’ è sbagliata, approssimativa. Si decide di scrivere un testo poetico e non si è per nulla posseduti dall’ispirazione, tanto meno da un getto incontrollabile: preferisco parlare di intuizioni, esigenza vocativa. Trovo invece ingenuo e furbo insieme il poeta che si dice ispirato: nel primo aggettivo risiede la scarsa probabilità di trovare un pubblico poco attento, mentre nel secondo l’alienazione da ogni responsabilità. Nessuna poesia è già scritta. Pertanto chi scrive una poesia, invece, deve mettere in campo onestà e perizia. È da sfatare il mito secondo cui si scrive sotto dettatura, mai avviene tale prodigio. Per cui il poeta non può dichiararsi incosciente o, nel peggiore dei casi, posseduto dalle parole.

Come deve essere una buona poesia?

Innanzitutto una buona poesia deve essere coerente, avere coerenze interne, vuoi per immagini vuoi per il campo semantico dei termini. In altre parole occorre scegliere, perché di una scelta si tratta, parole che siano legate senza stonare l’immagine proposta. Il suddetto lavoro è da intendersi in maniera molto ampia. Una cosa molto importante è restare nelle proprie parole, quelle cioè di cui si dispone e si ha padronanza, parole familiari. Non è però sbagliato rinnovarsi ed usare termini per motivi sonori soprattutto, ma che siano misurati, quindi adatti al contesto.

Definiresti le tue poesie “sentimentali”?

Il sentimentalismo, e non parlo di emozioni, è deleterio, seppur accattivante, e facilmente raggiungibile, non offre spunti, suggestioni e talvolta per i più esigenti è noioso, assillante. In ultimo aggiungo che la poesia è sempre autoreferenziale, per quanto si voglia snobbare tale definizione. Lo è per il semplice fatto che dietro le parole c’è sempre e comunque un ‘parlante’. Autoreferenziale è, perciò, da non intendersi privata, ma che parte dall’esperienza personale fino a ricercarne la simbiosi con il mondo.

Ce ne regali una?

A mia madre…
Non avrei altro intorno,
se non fosse necessario
ripararti il cuore,
che pareti e miserie.

Faccio il gioco del ditale
disertando questo spazio gelido.
E mi ritrovo a inseguire la memoria
e il ritmo del pedale
di una vecchia Singer,
dipanare cotone e speranza,
ticchettando melodia.

Mentre m’incuriosiva vedere
quale prodigio celavano
quelle mani farfalla
che volavano in casa
su ogni cosa acerba,
trovandoci miele.

Ora che i vestiti non si rammendano
e le tue mani tremano
come farfalle impaurite.

Ed ora, ne scelgo una io…

Delle piccole creature
che abitano il mio animo
non farò parola.
Le porto nel caos degli sguardi,
sulle rive di un delirio
dove tacciono preziosamente
in minuscoli silenzi.

Viviana Viviani

*In copertina: una fotografia di Karl Valentin, grande attore tedesco

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