
Nessuno tocchi Baudelaire, il poeta infinito
Letterature
Rubina Mendola
Pierre Reverdy ‒ appartato e prolifico poeta ‒ ha lasciato un’impronta profonda nella poesia contemporanea. Di lui so nulla, ma l’istinto che tutto vela e disvela, e tutto offre alla discoperta dell’ignoto, non poteva risparmiarmi di approfondire, traducendo, i suoi versi. Nella fattispecie, la poesia Solitude (la trovate a pagina 87 della raccolta Main d’oeuvre. 1913-1949, Gallimard, 2018).
Sotto la testa le modanature in legno ancora poco dettagliate
Nella mano l’acqua trasparente dei fiumi
E in tutte le direzioni i raggi del sole sollevano le palpebre
i bordi dell’orizzonte
dove tremano i cipressi
Una linea di uomini simili
conduceva al monastero dalle porte mal chiuse
Più lontano che tra le due rocce e la montagna
che fa rotolare i cespugli fino al fondo del burrone
Tutti i rami fanno gesti
con un movimento incerto
Tutti gli uccelli corrono e parlano insieme
Non si vede nella notte che una sola apertura
E non è quella che brilla davanti a me
Ma poiché abbiamo spento invano tutte queste porte
Possa il cielo rimanere pallido come le guance dei morti
e le mani della croce
Il fuoco della casa si alza sopra gli alberi
E la fiamma si mescola al suono di altre voci
È una solitudine popolata, in realtà, quella di Reverdy. Non è certo quella del poeta che ora vi scrive e tenta un azzardato commento, arrischiando nell’equilibrio della scrittura il proprio disequilibrio. Io, restando fermo e fedele alla vocazione, o nella stanza-studio o da qualche altra parte a Torino, insceno il sabba con i morti immortali, eludendo il silenzio con il ritmo di una canzone. Reverdy, tutt’altro, animato dalla meraviglia della natura, racconta l’immaginifico silenzio di acque trasparenti, di schegge di sole, di margini all’orizzonte con cipressi tremuli.
Il poeta francese, intravedendo sai e monasteri, burroni di montagna e rami che insicuri sembrano parlarci, oltre che una comunità di uccelli, ci avvisa che, attraversando la notte, una sola apertura potrebbe indicarci la luce della via. Ma, nonostante tutti questi simboli siano apparsi invano: “Possa il cielo rimanere pallido come le guance dei morti/ e le mani della croceˮ, un’altra luce, un’altra apertura permane nel buio della notte, ed è quella di un focolare, la cui “fiamma si mescola al suono di altre vociˮ.
Nient’altro dunque potrà essere più auspicabile del fatto di trovarsi in una casa e in buona compagnia: di una donna, come di amici, si presume. Ed anche la mia casa, ora sola e pigra, presto vorrà ospitare qualche amico poeta, se solo si azzardassero a tentare di ravvivare la fiamma dell’incontro, permettendo al fuoco di alzarsi incredibilmente sopra la folta testa degli alberi.
Giorgio Anelli