Ancora lui. George Orwell, purtroppo per lui, è una griffe. Come ‘Che’ Guevara, come la pasta Barilla, come Armani. Di Orwell, tendenzialmente, tutti – senza essere intellettuali né lettori – conoscono due cose. Un libro che si intitola 1984 e che parla di un tizio che si chiama Grande Fratello; un libro che si intitola La fattoria degli animali dove ci sono degli animali che parlano. Il genio di Orwell, in effetti, è proprio quello: aver creato dei romanzi che hanno la valenza di un simbolo, la virtù di un segno. Sono immediatamente riconoscibili. Insomma, anche se non l’hai letto, sai chi è Orwell. Dramma plateale. Di Orwell, infatti, si ha una idea tendenziosa e parziale. Pregiudiziale. Orwell di volta in volta è il pupazzo della sinistra che risorge o è il guru della destra che non si arrende. D’altronde, “la nostra è un’età politica… al giorno d’oggi nessuno potrebbe dedicarsi alla letteratura con la stessa esclusiva concentrazione di un Joyce o di un Henry James”, scrive proprio lui, Orwell, in uno dei suoi saggi giustamente più noti e citati – ma notoriamente poco letti – Gli scrittori e il Leviatano, quasi un testamento, scritto nel 1948. Pieno di folgorazioni che giocano sulla contraddizione, che rompono gli stinchi del perbenismo (“ogni persona sensibile è disgustata dall’industrialismo e dai suoi frutti, pur sapendo che la sconfitta della povertà e l’emancipazione della classe operaia richiedono un’industrializzazione sempre maggiore”; “se uno scrittore è onesto può accadere che i suoi scritti e la sua attività politica si contraddicano”; “al giorno d’oggi è addirittura un brutto segno per uno scrittore non essere sospettato di tendenze reazionarie”), Orwell indica la via allo scrittore in piena era politica, la sua come la nostra. Gli scritti di uno scrittore “saranno sempre il prodotto della sua parte più sana, quella che si tiene in disparte, che registra le azioni che vengono compiute e ne riconosce la necessità, però rifiuta di farsi ingannare sulla loro vera natura”. Occhi come cani: ecco cosa deve avere uno scrittore. Paladino della contraddizione, Lancillotto nello scavare sempre e comunque là dov’è la rogna (pacifista di fatto, durante la Seconda guerra Orwell pende per l’interventismo: sbertucciato e criticato da diversi scrittori, sintentizza così la questione, “il pacifismo è oggettivamente filofascista. E’ una questione di elementare buonsenso: chi ostacola lo sforzo bellico di una delle parti in lotta aiuta automaticamente il nemico”, così nel 1942). Insomma, Orwell non lo acciuffi. Invece, tutti lo tirano per la giacca. Per questo, Nick Slater, sull’ultimo numero di Current Affairs, in un articolo informato e laconico (“Pronunciano il nome di Orwell in vano”), piglia a bordate quelli che devono citare lo scrittore inglese per dovere di status, di Stato, di parte politica. “Pochi morti bianchi godono di un’aura più benedetta di George Orwell”, attacca il giornalista. “Messo al fianco di Dickens e di Dostoevskij tra gli Scrittori-Che-Devi-Leggere-A-Scuola, gode di una popolarità tra la gente comune che non può essere attribuita semplicemente alla brevità dei suoi libri. Neppure la semplicità dei suoi libri è una ragione sufficiente. No, ciò che lo rende grande è la bolla universale di pensiero che scoppia sulla testa di ogni adolescente che si avvicini a 1984. Orwell aveva ragione riguardo alla cattiveria di Stalin, aveva ragione sulla ferocia di uno Stato totalitario. Era nel giusto quando parlava del lavaggio del cervello che subiscono facilmente le persone e aveva ragione quando metteva in guardia sulla tecnologia, che rende le cose peggiori. Questo è ciò che la gente sa di Orwell”. Il paradosso che mette in atto Slater è che “Orwell è venerato come un simbolo… per alcuni è un ‘santo laico’”, ma questo ha poco a che vedere con la produzione letteraria di Orwell. Che non può ridursi a slogan. Slogan che spesso vengono indossati come abiti pubblici dai politici, dai potenti di ogni sorta (Slater cita l’utilizzo smodato, e dichiaratamente promozionale, che Hillary Clinton ha fatto di frasi orwelliane). Ma perché tutti si abbeverano alla fonte di Orwell? “Perché è il tipo di rivoluzionario che ci piacerebbe vedere in giro. Umano, complesso, autocritico, imperfetto. Che parla la lingua della gente e non il linguaggio del populismo”. Con un piccolo, virale paradosso: citare Orwell, in un discorso politico, fa sempre effetto, è un colpo da biliardo retorico. Anche se il politico – spesso, sempre – dice cose che avrebbero fatto inorridire il citato, Orwell. “Ogni tiranno, o aspirante tiranno, o un entusiasta tiranno con un grammo di intelligenza, ha imparato a sbraitare il nome di Orwell, è conveniente e garanzia di successo elettorale”. La morale è doppia. Primo: la politica si nutre sempre, in modo spregiudicato, della letteratura. Ne ha bisogno, perché la letteratura costruisce un immaginario potente. Secondo: gli scrittori non ci stanno. Nessuna opera letteraria – se è tale – può ridursi nell’incavo di una parte, di un partito, di una poltrona, di una carriera.
Federico Scardanelli