14 Febbraio 2019

San Valentino: ecco come lo festeggiamo! Meglio Umberto Palazzo, il Mogol delle passioni disperatissime, o il portiere della notte di Enrico Ruggeri?

“Un abbraccio convulso e poi la fuga”: i Santo Niente contro l’amore sanremese

La Vita è Facile

Un abbraccio convulso e poi la fuga.
La verità ha più sapore se è mangiata cruda.
Forse il correre dei giorni ha un suo motivo.
Forse sono diventato solo più cattivo.
Un abbraccio convulso e poi la fuga.
La verità ha più sapore se è mangiata cruda.
Tutti i fiori sono morti nel giardino
Sto in mutande e conto i passi del vicino.
La vita è semplice, se non ci sei tu
La vita è facile, ora che non ci sei più.
Un abbraccio convulso e poi la fuga.
La verità ha più sapore se è mangiata cruda.
I miei nervi non sopportano più niente.
Vi chiedo scusa: avrei voluto essere divertente.
La vita è semplice, se non ci sei tu
La vita è facile, ora che non ci sei più.

Quella devastazione umana e sentimentale che vive l’uomo del nostro tempo è – strano, ma vero – difficile che trovi rappresentazione nella lirica attuale, come nella canzone d’autore. La prima continua ostinatamente e incomprensibilmente a vertere sul bucolico, o a parlare del sentimento nella sua astrattezza, come se davvero vivessimo circondati dalla natura e il nostro modo di amare non mutasse con il mutare dell’antropologia intorno a noi. La seconda ripropone la solita melodia un po’ stucchevole e melensa, già ascoltata milioni di volte, quasi non ci fosse stato alcun cambiamento del sentire da Battisti in poi.

Uno dei pochi a raccontare il clima di disamore imperante, in musica, è stato Umberto Palazzo che, con il suo gruppo, i Santo Niente, passò veloce come un lampo e rombante come un tuono nel cielo della scena anni ’90. Quelli erano veramente bei tempi per la canzone italiana. Esisteva una proposta alternativa al mainstream, rappresentata per esempio dal CPI, Consorzio Produttori Indipendenti, che pubblicava tutta una serie di gruppi i quali, altrimenti, non avrebbero trovato spazio nei circuiti degenerati del commerciale. Sarà un caso che siano falliti? Non credo! Il mercato orienta verso l’idiozia, ma trova sempre nel pubblico l’humus giusto.

Palazzo è il Mogol delle passioni tristi e disperatissime. L’amore che descrive è desolazione e disastro, epica dimessa dell’unione ormai impossibile.Un abbraccio convulso e poi la fuga” è un verso che nella sua disarmante semplicità racchiude tutta la tragedia di questi incontri senza futuro, di relazioni veloci come un weekend low cost. Resta solo il malsano piacere dell’abbandono, un naufragare che non ha nulla di dolce ma sa di “fiori morti nel giardino”, di un Cristo che non ha neppure più la gloria della nudità in croce, ma sta in mutande a contare i passi del vicino. È il nulla realizzato a cui non giunge più in aiuto, per sdrammatizzare, neppure l’ironia (“Vi chiedo scusa avrei voluto essere divertente”).

In verità, è tutta l’opera dei primi Santo Niente a essere una gigantesca contronarrazione dell’amore sanremesianamente inteso e un impietoso sguardo sul campo di sterminio sentimentale in cui siamo rinchiusi. Da quei versi che descrivono un innominabile amore di periferia, in Cuore di puttana, (“Cuore di puttana è un gomito infernale,/ È un senso unico e nessuno sa quale […]/ Cuore di puttana è una consolazione,/ è sesso fatto con l’immaginazione./ Cuore di puttana è una somma persa al gioco,/ è un cin-cin con un bicchiere vuoto/ è rabbia che diventa isterica allegria”), all’amarezza prosciugata di ogni speranza in Pornostar (“la dignità infelice dei quartieri,/ taxi, whisky, sigarette, sesso./Luci al neon, poca allegria […]Le orge negli appartamenti al mare/ Per immaginarsi un’altra vita”). Sembra quasi di ascoltare un Nevermind, dove Bologna e Pescara sono più vicine a Seattle di quanto si possa immaginare.

Se Umberto Palazzo fosse un poeta e non un cantante, io credo che sarebbe Simone Cattaneo. La lirica che dice “Stanotte di fronte al televisore spento/ mi sono messo a ballare con una canna da pesca/ un lento tragico e romantico, ho spostato i mobili/ del soggiorno e al centro del pavimento ho ammucchiato/ quotidiani vecchi, cartoni di latte e qualche/ fazzoletto sporco. Poi ho dato fuoco a tutto/ e mi sembrava di partecipare a uno di quei veri balli/ studenteschi pieni di gioia e speranza nella vodka”, ha alla base un sentire non granché diverso. Entrambi si disfano sotto le percosse e gli scossoni di un mondo liquido. Entrambi si sentono incapaci di porre rimedio al bisogno d’amore disatteso e anelano con le ultime forze all’annichilimento, in un grido che si fa sempre più disperatamente flebile.

Matteo Fais

*La canzone “La Vita è facile” potete ascoltarla qui. 

***

Amare è una condizione dell’oscurità: il ‘sanremese’ Enrico Ruggeri lo ha capito benissimo

Il portiere di notte

Vanno via e non tornano più;
non danno neanche il tempo di chiamarli.
E non lasciano niente,
non scrivono dietro il mittente
e nelle stanze trovo solo luci spente.

Sapeste che pena, per chi organizza la scena,
restare dietro al banco come un cane
con la sua catena.

E lei che viene a notte fonda,
è così bella, è quasi sempre bionda.
È lei che cambia sempre cavaliere
e mi parla soltanto quando chiede da bere.

Ma la porterò via
e lei mi seguirà.
Prenoterò le camere
in tutte le città.
La porterò lontano
per non lasciarla più,
la porterò nel vento
e se possibile più su.
E quando ci sorprenderà l’inverno,
non sarò più portiere in questo albergo.

Sapeste che male quando la vado entrare;
non la posso guardare senza immaginare.

Ma è lei che non immagina per niente
cosa darei per esserle presente.
Ma lei non vede e allora parlo piano,
con la sua forma in un asciugamano.

Ma la porterò via,
non l’abbandonerò.
La renderò partecipe di
di tutto ciò che ho.
La porterò lontano
per non lasciarla mai
e mi dirà ‘ti voglio
per quello che mi dai’.

E quando insieme prenderemo il largo,
non sarò più portiere in questo albergo
e insieme, dentro al buio che ci inghiotte,
non sarò più il portiere della notte.

Si è certi che amare è sonnambulo, che è malia e abulia l’amore, che si ama dall’interno della notte, da terminali. Nella notte non ci sono fiori ma visioni, della notte tutto ferisce perché la notte è l’infinito luogo della finitezza, anche la luce nella notte, desunta a bagliori, ha carattere di coltello, è scavatura. Non c’è altro, di questa vita, che sfilettare margini di oscurità dall’amare – e poi inghiottirli, come il cuore di un dio in forma di cervo.

Negli anni Ottanta Enrico Ruggeri intinge nell’oro nero la canzone d’autore piazzando una sfilza di album indimenticati. Polvere (1983; ascoltatevi ancora & ancora la canzone omonima); Presente (1984), con una icona (Il mare d’inverno) e un pezzo che a me suona ancora speciale (Nuovo swing); e poi Enrico VIII, del 1986, disco regale – Enrico si sfotte nella posa del Tudor che separò la Chiesa romana da quella d’Albione per mere questioni di letto, di sesso: infine di mogli ne collezionò sei – dove appare, magmatica, la ballata stregata, Il portiere di notte. Ogni riferimento al mefistofelico film di Liliana Cavani con Charlotte Rampling (era il 1974) è cavare oscurità a oscurità… in ogni caso Ruggeri se ne esce con una sortita geniale, “il portiere di notte”, in verità – verso finale della canzone – è “il portiere della notte”, colui che, misticamente, apre i cancelli che consentono all’oscuro di dilagare, colui che sceglie l’ora precisa in cui l’alba accade, facendo ritirare la notte in fuga, come acqua.

L’amore come lo intuisce Ruggeri – che l’anno dopo, nel 1987, allo stesso tempo vince il Festival di Sanremo con la laccata Si può dare di più e firma la più bella canzone apparsa in quella edizione festivaliera, Quello che le donne non dicono, cantata da una Fiorella Mannoia in fiore – è sinistro e impossibile: il portiere lavora nel sottosuolo, tra le oscurità, e la donna che ama è una fiamma che lacera la notte – è bionda – ed è una strepitosa escort. Il portiere pattuglia un palazzo, sta sulla soglia della vita, mentre quella donna è l’emblema stesso della vita selvaggia, di ogni apertura plausibile, una notte finalmente perpetua di cui i due, congiunti, sono il chiavistello, la serratura. In modo pop Ruggeri ribadisce la morbosa verità annunciata da Dostoevskij nel Sogno di un uomo ridicolo, cioè che l’uomo ama solo nel dolore, che l’uomo ama il soffrire, che siamo amanti dell’impossibile e dello smodato (“Sulla nostra terra noi possiamo amare veramente soltanto con sofferenza e attraverso la sofferenza. Noi non siamo capaci di amare in altro modo e non sconosciamo altro amore. Io voglio la sofferenza per amare”). Filare la notte fino a esaurire la sua brama, e non resta che il crocevia bianco del giorno.

Del resto, amare è una notte oscura, lo enuncia Giovanni della Croce, e se dovessi proporre un disco per gli amanti, oltre a Ruggeri, suggerirei Morirò d’amore di Giuni Russo, era il 2003. Sembra incredibile ma la canzone che titola il disco è ‘sanremese’, partecipa all’edizione 53 del Festival, sotto la benedizione di Pippo Baudo, vinta dall’anonima Alexia. La canzone più bella del disco s’intitola La sua figura, con versi che sono tortura e schianto (“Sai che la sofferenza d’amore non si cura/ Se non con la presenza della sua figura”). L’ultima frontiera dell’amare è il modo scombinato con cui l’uomo si getta nella vertigine vorticosa delle stimmate, l’amore verso il dio notturno, il bramito di brama verso il Cristo che preda di notte. “Il penare per puro amore, mi dà vita, mi dà forze… nel profondo dell’annientamento mi vedo ponere”, scrive Veronica Giuliani, la mistica violenta. Pena, sofferenza, senso del nulla, annientamento sotto le spire di Dio: amare è questo. Non desiderare che la morte, purché sia amore – svolgere la notte in nozze.

Davide Brullo

*La canzone “Il portiere di notte” potete ascoltarla qui. 

Gruppo MAGOG