02 Gennaio 2018

Al Bano & Romina francobollano il 2017. Ecco perché siamo un Paese con 30 anni di ritardo rispetto al resto del mondo civilizzato (e siamo editorialmente razzisti)

Nostalgia canaglia. La nostalgia è diventato il crisma di questo Paese bastonato dalle banalità. E la nostalgia è davvero canaglia, è una turba di cani bastardi, scagliati a fiumi contro le nostre pudenda. Proprio così. Siamo passati da un popolo di poeti e di navigatori a un popolo di castrati. Proprio così. Dopo aver insegnato al mondo occidentale la poesia (Dante, Petrarca), dopo aver insegnato al resto del mondo la pittura (Giotto, Michelangelo, Caravaggio), dopo aver colonizzato, con genio, il mondo che conta (Marco Polo, Cristoforo Colombo), ci siamo ritrovati, l’ultimo dell’anno, ad ascoltare Al Bano e Romina che duettavano da Mamma Rai canticchiando Nostalgia canaglia. In atto, ho pensato, ci deve essere una strategia per rimbecillire i teleutenti. Per la cronaca, Al Bano – sempre più grosso e sempre più insopportabile – e Romina – la bellissima figlia di Tyrone, non più trombabile – hanno cantato Nostalgia canaglia nel 1987, sul palco dell’Ariston, a Sanremo. Vinto, se v’interessa, dal trio Morandi-Tozzi-Ruggeri con Si può dare di più. Il trio di anziani spopola ancora, ciascuno a suo modo, tra palco, radio e tivù, anche se sarebbero da pensionare, e l’Italia da trent’anni a questa parte ha smesso di dare qualcosa, qualsiasi cosa, alcunché, altro che di più. Insomma, l’Italia è in ritardo di trent’anni dal resto del mondo civilizzato, culturalmente parlando, un fuso orario che ci ha resi tutti fusi, stanchi, svuotati, svalvolati. La lettura banalmente antropofagica dell’ultimo dell’anno televisivo – davvero non abbiamo una valida alternativa ad Al Bano & Romina? – esplicita una verità profonda. Un tempo eravamo l’ombelico del mondo, ora siamo un Paese di provincialotti. Pigliate l’editoria. Ci riempiono di narrativa sostanzialmente anglofona, quando da Albione non c’è nulla di nuovo dall’era di James Joyce e di Virginia Woolf e quando tutti sanno che negli States non si fa altro che riscrivere ciò che hanno già scritto Ernest Hemingway, Salinger e William Faulkner. Lasciamo perdere la narrativa italiana, un recinto di polli d’allevamento, di galletti con la cresta in tiro da Moravia in su, non c’è romanzo che valga la profondità metafisica di Mario Luzi e di Eugenio Montale, che sovrasti la rapacità linguistica di Andrea Zanzotto o la capacità sintetica di Ungaretti e di Saba. Voglio dire: non c’è qualcuno che abbia il coraggio, la voglia, l’ardore di dirci cosa si legge in Vietnam, quali sono i massimi scrittori indonesiani, quali poeti scrivono in Nuova Zelanda, quali storie si stanno scrivendo in Congo, in Nigeria, in Bangladesh, in Uruguay, negli altri mondi così pieni di storia e saturi di dolore? Editorialmente parlando, tranne rarissimi casi – Iperborea, ad esempio, che da 30 anni stampa autori ‘nordici’, le Edizioni Anfora, che sondano la narrativa ungherese, Crocetti che stampa i neogreci, Sur che si da ai latinoamericani e Calabuig – restiamo sontuosamente razzisti, italocentrici, ancora&sempre vittime dell’immaginario americano. Come è possibile, cosa è successo a un Paese che sapeva imporre le proprie fantasie perché si era sperimentato nel resto del pianeta? Servi dell’ovvio, incapaci di azzannare il nuovo e di percorrere il rischio, francobolliamo il Capodanno con Al Bano & Romina. Valiamo questo, mica tanto. Nostalgia canaglia.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG