L’ultimo romanzo di Jean-Marie Gustave Le Clézio, Avers, appena pubblicato da Gallimard, accade sessant’anni dopo il primo, Le Procès-verbal, stampato nel 1963 pur sempre da Gallimard. Stigmatizzato da un successo critico precocissimo – Le Clézio nasce nel 1940, il suo primo romanzo ottiene il Prix Renaudot, andato, prima di lui, a Céline e a Louis Aragon – Le Clézio è ornato con il Nobel per la letteratura nel 2008. Pubblicato con stanca costanza, Le Clézio non riscuote i successi di altri colleghi di Francia, che siano Houellebecq, Carrère o Annie Ernaux. Chi lo ha letto, sa che è passato da una gioventù da ispirato sperimentatore a una vita di viaggi, di libri-reportage dal passo lento: Désert (1980) è forse il più bello.
Le Clézio non ha il passo del capolavoro, del libro assoluto: per lo più, si occupa di mondi perduti, di lingue marginali, di luoghi minacciati dall’onnipervasiva ‘globalizzazione’. Non entra nei fatti ‘d’attualità’, per questo resta, in fondo, nonostante i galloni, un romanziere per pochi. Affascinato dalla cultura mesoamericana, nel 1976 ha tradotto Les prophéties du Chilam Balam, libro sacro per la tradizione Maya; insieme a Jean Grosjean, suo remoto maestro, ha diretto per Gallimard, dal 1990 al 2007, la collana “L’aube des peuples”, raccogliendo, dall’Africa all’Islanda, dalla Micronesia alla Persia antica “i testi che hanno fondato le grandi civiltà del passato”. Chi ama i percorsi laterali, apprezzerà Vers les icebergs, prosa poetica pubblicata da Le Clézio per Fata Morgana nel 1978, poi ripresa da Mercure de France:
“Erriamo, erriamo persi sulla grande distesa opaca dove non ci sono parole, senza sapere dove andiamo, senza guida di lume, abbandonati, e chi potrà mai venirci a cercare?
Gli occhi sono motori per andare nell’altro senso, verso il futuro, verso i paesi sconosciuti, presso le rive del sogno, cose di quella natura”.
L’ultimo romanzo di Le Clézio, Avers, ha un sottotitolo e quel nome, ambiguo. “Novelle degli indesiderabili”. Così Le Clézio definisce i suoi racconti. Note, nuove, notizie, novelle. Il novelliere. Gli indesiderabili: i marginali, quelli dal desiderio distorto, in perpetua torsione dal resto. Questi indesiderabili spesso sono bambini. “Non so quale sia la salvezza del nostro mondo. Mi piace credere che i bambini conoscano parte del segreto, ed è per questo che dobbiamo ascoltarli e capirli prima che sia troppo tardi”, ha detto lo scrittore. Il lavorio del romanzo – in forma canonica, secondo il canone, appunto, dei novellieri medievali: pura storia – è anche un tributo alle lingue. Da orafo del linguaggio, Le Clézio si è fatto scrittore che setaccia le lingue: “Amo ogni lingua, frutto di secoli di incroci, invenzioni, assonanze, rivolte, amori. Della lingua francese prediligo le ambiguità, le inflessioni, perfino l’ortografia aberrante, ma ci sono alcune lingue che continuano a istruirmi: nella lingua Embera (di Panama) pensare (krinchabua) significa letteralmente guardare per terra, mentre in lingua bretone (parlata ormai da pochissimi) per istruire alla pazienza diciamo Amzer zo, il tempo esiste!”.
Avers è il dritto della moneta: il suo rovescio è il destino dei protagonisti di queste storie, in bilico tra i mondi. Avers, forzando le etimologie, è l’avversione, l’avversario, gli averi – la ricerca del proprio avere nell’avversità. L’obolo di Caronte. La moneta nel pozzo, che tintinna un attimo prima che si calcifichi il desiderio.
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Avers
Maureez Samson
Da sempre, ascoltava il rumore del mare sbriciolarsi sui frangenti. Nella baia malgascia le onde sono vicine, si posano sui ciottoli neri, tutte insieme, in un unico schianto morbido, senza respiro, come il brusio di un motore. Come il motore della piroga di suo padre, gli sovviene, anche se non lo sente più da anni. Sulla parte anteriore della canoa Tony Samson aveva scritto il nome della figlia a grandi lettere rosse, MAUREEN, ma l’ultima lettera, la N, era affogata in qualcosa che sembrava una Z. Da allora il nome della figlia era diventato Maureez. Gli pareva più bello. Maureez faceva ridere i bambini. Lei ne difendeva il suono e li fissava, era piccola, bassa. Mio papà se ne è andato, se ne è andato dal paese verso il mare…
Poi un giorno dal mare non è più tornato. Lo ha aspettato sulla riva, dal cuore del vento, giorno dopo giorno, di notte. Finché Lola non le ha detto: “è come è, non tornerà più, è inutile sperare: dispera”. Lei si rifiutava, fu costretta a obbedire, a rannicchiarsi nel letto contro il muro, per non sentire Lola russare, come se niente fosse, come se tutto fosse norma. Ma da allora, nulla è stato più lo stesso. Lola è diventata cattiva, picchiava Maureez per una cosa o per l’altra. Si è messa con un altro uomo, Zak, un buono a nulla che passava il tempo a bere, stravaccato sul vecchio divano in terrazza, a fissare il mare.
Maureez non aveva conosciuto la madre, morta poco dopo la sua nascita. Il padre, Tony Samson, non si è risposato, ma ha scelto quella donna, Lola Paten, che Maureez ha cominciato a odiare non appena ha appreso i confini della parola odio. Lola le parlava con durezza, le stortava le braccia, la obbligava a fare il bucato. Quando Tony Samson non ha fatto ritorno dal mare, la vita in casa è diventata impossibile. Lola lavorava in un albergo, al porto, Zak beveva la sua birra e cominciò a fissare Maureez con uno sguardo strano. Un giorno la afferrò per una gamba, borbottando parole incomprensibili, disgustose. “Vieni, vieni con me, facciamo un balletto a quattr’occhi!”. Come puoi dire una cosa del genere a una bambina? Cosa vuol dire balletto?
Quando rientrò a casa, parlò a Lola. Era certa che Zak la avrebbe intontita di bugie, le avrebbe detto che era stata lei, la bambina, a sedurlo. Se ne andò a letto senza cena, rannicchiata. Lola russava. Dopo, le cose si sono complicate. Non appena Lola usciva per andare al lavoro, Maureez la seguiva con la borsa piena di libri e quaderni: al posto di andare a scuola, prendeva le vie che davano verso le campagne.
Quando diventò più grande, fece la sua scelta. Si tagliò i jeans e la maglietta, troppo corti, per aggiustarli. Le ragazze la prendevano in giro per via di quegli abiti. Decise di farla finita con la scuola. Un giorno si alzò presto, sistemò la biancheria nella tinozza di zinco, mise un po’ di riso e di verdura in un panno, poi nel fondo dello zaino. Fece per andare a scuola. Ma non appena Lola scomparve alla sua vista, iniziò a correre tra i cespugli, sulle alture, e la città si allontanava.
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Queste sono le pietre che Maureez conosce. Conosceva ogni pietra della baia malgascia, ogni ciottolo, i colori, le qualità: quelli neri e quelli pallidi, quelli con le striature rosse e quelli maculati, i grigio-azzurri, i verde scuro, ogni forma delle rocce, quelle rotonde e simili a sfere, quelle appuntite, quelle scavate da bruchi di ruggine. Con Tomy, fin da piccola, passeggiava ogni mattina lungo la baia per cercare i sassi adatti. Quando sollevava una pietra, ammirava le piccole bestie in fuga: i granchi trasparenti, gli scolopendri, gli insetti neri che si tuffano nelle pozze. Per il padre, preferì una pietra pesante, liscia, tonda, utile come peso per le reti.
Maureez era inebriata dall’odore del mare, forte, aspro, che fa tossire; un odore familiare, che rassicura. Come un tuono, le onde della barriera vibravano fino alla spiaggia. A volte la pioggia crollava d’improvviso, dal nulla: una pioggia fredda, che punge il volto, le gambe, ma lei non cercava riparo, restava al fianco di suo padre, guardava l’acqua che gli colava ovunque, le rughe come burroni, si aggrappava ai suoi capelli.
Tony non era vecchio, ma aveva i capelli grigi. Quando glielo disse, ha sorriso. Disse: il bianco ti cola dai capelli! Maureez aveva gli stessi capelli di suo padre: folti, ricci, indomabili. A scuola l’insegnante le aveva detto che doveva stringerli in trecce. Suo padre glielo aveva vietato. Noi siamo i Samson, siamo del Mozambico, non nascondiamo i capelli, non abbiamo bisogno di trecce.