L’algoritmo che interpreta Shakespeare e Dante. Il fonosimbolismo nell’epoca dell’IA
Politica culturale
Matteo Veronesi
Ha preso il largo. E ora fa paura. Se lo vedi. Fa un po’ paura anche lui. Il libro lo possiamo prendere da due lati. Il primo è quello che è. Magellano (Castelvecchi 2018, pp.238, euro 17,50) è l’ultimo romanzo di Gianluca Barbera ed è – per espressa necessità estetica dell’autore – un libro ‘di avventura’, uno di quei romanzi che hanno il salino sulle pagine e il vento di Robert Louis Stevenson nella frase. Vi si narra, per la penna di Juan Sebastián del Cano, “detto el Perro, il Cane… nocchiero sulla Trinidad, al fianco di Ferdinando Magellano”, qualche decennio dopo, la storia, livida e bellissima, del più audace dei navigatori, “unico a meritare il titolo di circumnavigatore del globo e scopritore di nuovi mondi a oriente per l’onore e la gloria della Corona di Spagna, lui che era nato in terra di Portogallo, dalla quale dovette fuggire come un qualsiasi ladruncolo, nottetempo, in groppa a un somaro”. Secondo modo di leggere il libro. L’autore, in modo sornione, dice di voler fare la parte del redivivo Salgàri. Meglio: compie una voluminosa riflessione dentro il romanzo come “forma d’arte popolare, tutt’al più borghese”. Giusto. Così io mi domando perché, in modo del tutto ingiustificato, romanzi pallosi come quelli di Paolo Giordano o straordinariamente inutili come quelli di Antonio Manzini vendano moltissimo, mentre un romanzo come quello di Barbera, di catastrofica bellezza, venda molto meno. E qui, per fortuna, il fato, il tifone – per citare Joseph Conrad, autore per il quale abbiamo mutato la penna in rampone e il cuore in barometro – mi sconfigge. Magellano vende. Dopo una settimana dall’uscita, classifica Ibs.it, è al secondo posto per la serie romanzi storici. Un risultato sorprendente. Contando che Castelvecchi, editore ricco di gloria, non è Mondadori, Einaudi, Rizzoli. Gianluca Barbera ha il fisico di Orson Welles, è capace di esaltarsi fino ad assalire, in solitaria, una città; ed è in grado di altrettanto feroci depressioni. Impulsivo, imperioso, imperiale. Bisognerebbe scrivere un libro su di lui. Più che Magellano, Barbera è l’Achab della letteratura italiana contemporanea. Con una certa dose di spavalderia, sta fiocinando le balenottere editoriali, battendo tutti.
Magellano. Perché lui? E non, per dire, James Cook. O Marco Polo. O Shackleton.
Basta leggersi le relative vicende. Quella di Magellano è una storia drammatica già fatta e compiuta. Con un inizio, uno svolgimento e una fine praticamente perfetti. Una tragedia che sembra uscita dalla penna di Shakespeare. Con spettri, tradimenti, morti violente, sensi di colpa, figure titaniche e rivalità insanabili. Me la sono trovata in mano già confezionata. Dovevo solo scriverla (più facile a dirsi che a farsi), iniettandovi ampie dosi di visionarietà, di umorismo capovolto, del mio amore per l’incompiuto e per il monologo torrenziale. Niente di tutto questo in Marco Polo e gli altri.
Magellano. Che fonti hai usato? Intendo. Nel libro c’è un poco una mimesi del linguaggio australe, austero dei vagabondi viaggiatori. Voglio sapere fonti storiche e letterarie (a me è venuto in mente il Golding di ‘Ai confini della Terra’, per dire).
La relazione di Pigafetta, in primis, per l’impasto. Poi la biografia su Magellano di Stefan Zweig, che mi ha fornito l’idea centrale. E quella del navigatore francese Jean-Michel Barrault, che per scriverla ha ripetuto ai giorni nostri il viaggio di Magellano: quel libro è stato il mio cannocchiale sulle cose di mare e sulle questioni geografiche. Poi ho letto Carletti, Varthema, Vespucci, Colombo e altri grandi libri di viaggio. E ancora Salgàri, molto Conrad, Melville, Ransmayr, Fergus Fleming, e soprattutto quel marchingegno perfetto che è “L’isola del tesoro” di Stevenson. In fondo, il mio “Magellano” è sì un romanzo ambientato nel Cinquecento, ma l’immaginario è quello ottocentesco, forse. E a tratti quello di oggi.
Cosa significano, in esergo, Diogene Laerzio e Robert Musil. Sintomo, al di là del senso, delle tue variopinte letture.
La frase di Diogene rappresenta l’idea di spingersi oltre le umane possibilità. Come Alessandro, che incapace di arrestarsi giunge fino ai confini della terra, ai piedi dell’Hindu-Kush e alle valli del Gange. Musil fa da contrappeso. Introduce l’elemento ludico, serve a dare le scariche elettriche al libro. A soffiargli dentro la vita. Il fuori e il dentro, dunque.
Hai detto: voglio essere un Salgàri oggi che l’ennesimo Gadda di domani. Confermi? E ti chiedo. Che fine ha fatto la grande narrativa italiana ‘d’avventura’? Penso a uno come Vittorio G. Rossi. Roba sorpassata, in pasto ai grandi bestelleristi anglomani, anglofoni?
Con tutto il rispetto per Gadda (che amo), confermo: vorrei occupare il posto che fu di Salgàri. Tutti guardano a modelli alti. Ma il romanzo è innanzitutto una forma d’arte popolare, tutt’al più borghese. Io voglio ridare dignità al romanzo di avventura. Impresa difficile perché chi vi si cimenta deve vedersela col cinema e con le fiction tivù. Ma il romanzo ha armi segrete che il grande e il piccolo schermo non possiedono: basta leggersi il mio “Magellano” per capire di cosa parlo.
Come si fa, narrativamente, a entrare nei peripli di un uomo, nel suo cuore?
Basta mettere in scena se stessi o il proprio peggior nemico. Il mio Magellano è tratteggiato su un mio ex datore di lavoro tirannico e folle, che in qualche misura ricorda l’eroe (negativo?) del mio romanzo. Il suo antagonista, ossia Del Cano (non proprio uno stinco di santo), ovviamente sono io. Mentre Pigafetta, che oscilla tra l’uno e l’altro, è un mio amico d’infanzia.
I capitoli del libro sono aperti, spesso, da frasi ‘sapienziali’, per così dire, che vanno a costituire una specie di manuale stoico. “Il presente è solito trattare il passato con la stessa negligenza con cui il futuro tratta il presente. E l’eternità è tutta racchiusa nell’attimo”; “Conosci il tuo abisso e saprai ogni cosa”; “Molte cose che crediamo di descrivere in realtà le creiamo a mano a mano che le descriviamo”; “La scienza nautica è solo una delle possibili spiegazioni del mondo acqueo, non certo una sua descrizione. Che il sole sorgerà anche domani resta solo un’ipotesi”; “Una mente libera rifiuta ogni legame con leggi che non siano quelle che essa stessa si impone, dal momento che ogni autorità costituita non è che usurpazione, e ogni legge calata dall’alto o proveniente dall’esterno ha le sue radici nel sopruso e nell’imposizione”. Gesto narrativo voluto? Resurrezione della tua defunta idea di farti filosofo?
Con questi attacchi volevo dare al romanzo un sapore sei-settecentesco. Pensavo ai moralisti francesi, per intenderci. Ma il pensiero è a tratti quello stoico, in effetti; che del resto mi è appartenuto a lungo. Insomma, molti secoli sono racchiusi nel mio romanzo, che ho cercato di far parlare in una lingua universale.
Perché si viaggia e viaggiando – come capita a chi narra la storia – si finisce per tradire?
Io non viaggio molto. L’ho fatto da ragazzo. Ora preferisco viaggiare intorno a una stanza. Proprio come Salgàri (sperando di non fare la sua fine).
Non è che “Magellano” diventerà il primo di una serie di libri avventurieri? Cosa stai scrivendo?
Hai indovinato. I prossimi saranno: Jesse James (un western alla Tarantino, o se preferisci alla Leone e Corbucci). Poi Casanova e Marco Polo (qui, però, dovrò inventarmi qualcosa: forse tutto prenderà il via dalla sua prigionia a Genova).
Letteratura italiana contemporanea. Come siamo messi?
È un periodo che sono di buon umore e voglio dirne bene. Perché no, in fondo. Molte cose si muovono. E forse non si sono mai fermate. A volte è il pessimismo a farci straparlare. Viva la letteratura italiana contemporanea! Ho tanti amici scrittori di talento.