
“Noi vogliamo esaltare il pugno”. La boxe: dagli urli marinettiani alla nuda disciplina
Cultura generale
Alessio Magaddino
Se avessero potuto decidere i futuristi, avrebbero sicuramente ideato una mostra celebrativa cercando di scatenare le critiche più efferate. Vale ricordare infatti che se di Futurismo si è cominciato a parlare dopo il lancio del Manifesto fondativo il 5 febbraio 1909 sulla “Gazzetta dell’Emilia” (lasciando finalmente ai francesi l’erronea data inaugurale del 20 febbraio su “Le Figaro”), non lo si deve certo alla diffusione dei primi testi sulle pagine della rivista “Poesia” – divenuta “Poesia Futurista” – o alla pubblicazione dei primi volumi quali, ad esempio, Revolverate di Gian Pietro Lucini con prefazione di Filippo Tommaso Marinetti (1909), che nel titolo stesso conteneva già tutto il loro spirito rivoluzionario. Testi ed articoli talmente antineutrali da poter essere condivisi solo con poche migliaia di persone. Ma Marinetti, antesignano comunicatore dell’era moderna, aveva già le idee chiarissime sul modo di allargarne l’impatto, seguendo il principio del “male se ne parli purché se ne parli” e quindi via alle eroiche Serate Futuriste (1910-1914) fondate sulla provocazione più manifesta, con risse regolari prima, durante e dopo le esibizioni, con relative, immancabili e indignate recensioni sui giornali di tutta Italia.
I Futuristi della prima ora – Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini (quelli della celeberrima fotografia parigina in marsina e bombetta) declamavano dai palchi dei migliori teatri italiani – niente cantine, per la rivoluzione – ricoprendo d’improperi gli astanti e il passatismo per rimanere poi in vigile attesa della loro reazione: Ringrazio gli organizzatori di questa fischiata, che altamente mi onora. Non ritenendo la provocazione verbale e fisica bastante, Marinetti venderà i biglietti migliori degli spettacoli due volte: con il medesimo posto assegnato al borghese di turno e al pescivendolo, sulla reazione del quale lasciamo libertà d’interpretazione. Se non si trattava di testi e comunicati, le serate erano dedicate anche all’Intonarumori, improbabile strumento polifunzionale a manovella, dove il Gorgogliatore, l’Ululatore, il Rombatore, lo Stropicciatore, il Sibilatore, lo Scoppiatore, il Crepitatore facevano inorridire anche i più accomondanti tra gli spettatori, scatenando autentici inseguimenti post serata, dove Boccioni rischierà il linciaggio dopo aver assestano una bastonata al marchese Merignoli fuori dal Costanzi di Roma, così come con i disordini innescati al Lirico e al Dal Verme di Milano, durante la serata al Verdi di Firenze, ricordata nella storia come la Battaglia del Verdi: Boccioni è uno dei combattenti più accaniti. Afferma di aver imparato lo Ju-Jitsu a Parigi da uno specialista giapponese.
Questi i futuristi.
La mostra Il Tempo del Futurismo, alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, aperta al pubblico dal 4 dicembre, ottantesimo anniversario della morte di Marinetti, fino al prossimo 28 febbraio, sta suscitando un chiacchiericcio più o meno organizzato da svariati mesi, per lo più fondato sui soliti pregiudizi ideologici che non fanno che replicare pedissequamente l’ostracismo feroce di cui ha sofferto il Futurismo dal 1945 ad oggi: la solita storia, nessuna novità. Nonostante questo, molta strada è stata fatta da quella data: prelevato nel 1986 dalle cantine con la mostra Futurismo & Futurismi a Palazzo Grassi a Venezia, riproposto su larga scala in occasione del Centenario della sua fondazione (2009), per poi essere sdoganato a livello internazionale con la monumentale mostra al Guggenheim Museum di New York nel 2014.
Ai futuristi questo battibeccare avrebbe fatto perlopiù sorridere, fatte le dovute proporzioni con la temperatura bellico/interventista di allora, ma torna utile per rendere sicuramente Il Tempo del Futurismo la mostra di cui più si è parlato a livello nazionale in questo periodo. Marinettianamente parlando: missione compiuta, quindi, si potrebbe dire oggi: hanno ancora vinto i futuristi, ha perso la critica.
Filippo Tommaso Marinetti strutturerà infatti fin dall’inizio il Futurismo per essere del tutto autosufficiente dalla critica e dal giornalismo, dotandolo di robusto Manifesto fondativo articolato in undici punti. Pubblicherà fin da subito il testo Contro i professori (1910) chiarissimo negl’intendimenti anti-critica, adottati anche da gran parte dei futuristi, che citeranno a più riprese il canagliume della critica e il pattume dei giornalisti o il loro filosofumo, auspicando il crollo di filosofi e storici, sibille a rovescio, con lo stesso Boccioni che descriverà i critici senza alcuna accondiscendenza:
“perdono subito il fiuto, questi bracchi del capolavoro e addentano a casaccio tutto ciò che urta la loro convinzione d’ieri sera!”.
Né meno caustico sarà Carlo Carrà con il suo scritto demolitorio Contro la critica, pubblicato nel ’13. Temperatura che sarà importata in Francia da Guillaume Apollinaire che dirà senz’alcuna remora: merda ai critici, ai pedagoghi, ai professori, agli storici, ai filologi nel Manifesto dell’Antitradizione futurista (1913). Ostilità manifesta che sarà ripresa poi alla lettera da Carmelo Bene, il più marinettiano tra le personalità d’alto profilo del secondo dopoguerra.
Tutto chiaro il programma futurista, quindi, senza necessità di suggerimenti, pareri o interpretazioni altrui. Ma soprattutto sarà la figura di Umberto Boccioni, fugacemente conosciuto da Marinetti sotto la pensilina della Stazione Centrale di Milano nel 1910 – grazie all’intercessione di Libero Altomare (pseudonimo di Libero Mannoni) – a renderci il Futurismo come lo conosciamo oggi, declinato in opere pittoriche e scultoree. I suoi due Manifesti sulla pittura (1910), sulla scultura (1912) e architettura (1913-14) – restato accidentalmente in un baule fino al 1971 – nonché il basilare testo critico Pittura e scultura futuriste (1914), ci presentano un Movimento che rifiuta altre intromissioni interpretative, ingaggiando un feroce corpo a corpo con i critici e i giornalisti. Dal 1910 fino alla sua morte nel 1916, Boccioni diverrà il plenipotenziario critico del Futurismo.
Futuristi che si organizzeranno quindi le loro mostre, a partire da quella fondativa firmata da Boccioni al Padiglione Ricordi di Milano nel 1911 – visionariamente in uno spazio industriale – scrivendone poi autonomamente, presentandosi vicendevolmente le opere, rilanciando novità seminali per il Novecento fino alla morte di Marinetti, nel 1944. Che dire infatti delle Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla (1912) che inaugurano l’Astrazione a livello mondiale, l’Arte dei Rumori e le partiture-per-pause di Russolo, l’Arte Meccanica, l’Aeropittura, il teatro Sintetico, i Testi-poemi murali del poeta Carlo Belloli, antesignani della Poesia Visuale, il Teatro di Popolo Attore teorizzato da Giovanni Acquaviva e molto, molto altro ancora…
Alla luce di questo, si è assistito ai balletti televisivi degli esclusi dalla curatela, pressoché privi di un minimo curriculum argomentativo, o le rivendicazioni “degli altri” che avevano il progetto vincente nel cassetto, o dei prestatori che prestano (e cosa sennò?) e poi ritirano le opere, che avrebbero divertito la tribù futurista – efficacissima anche nello sberleffo (nel più ottimistico dei casi) – ma sicuramente non sarebbero stati presi seriamente, rispondendo più alla celebre frase di Nanni Moretti: Che dici ci vengo? Mi si nota di più se vengo […] o se non vengo per niente, che a meriti autentici. Guarda caso, “incidenti” sempre dichiarati occasionali quindi, caroselli-avanti-e-indietro che non hanno precedenti con progetti espositivi di altra natura e che accadono per l’ennesima volta proprio sul Futurismo: ma che straordinaria coincidenza! Da non credere.
La mostra conta 350 opere e oltre 150 documenti e, secondo precise dichiarazioni, avrebbe potuto contarne 650, ma dico io con cognizione di causa, anche altre centinaia, nonché altrettante migliaia di documenti tra Manifesti, edizioni, proclami, bollettini, volantini etc. etc. Bizzarro è leggere poi che, senza cimentarsi – dicono inutilmente – nella costruzione di un nuovo progetto a Roma, si sarebbe potuta importare una mostra già confezionata proveniente dal Krӧller-Müller Museum di Otterlo: sfugge perché si sarebbe dovuto celebrare il Futurismo dai Paesi Bassi (sic…), con l’Italia che vanta – come detto – oltre 150 capolavori specifici nelle sole collezioni della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanee di Roma, che divengono oltre 200 con il Museo del Novecento di Milano, che divengono oltre 300 con le collezioni del Mart e della sublime Casa Depero di Rovereto e via via con altri Musei a Torino, o periferici come a Portogruaro – che vanta rarissimi capolavori di Russolo –, collezioni private imponenti come quelle di Danna e Giancarlo Olgiati, rispondendo ad un Futurismo che conta oltre novemila artisti operativi censiti da un Archivio specifico in due volumi edito da Vallecchi.
Quanto agli “altri” artisti esposti, si può finalmente dire che l’impressionante, monumentale, inquietante Caduta degli Angeli di Previati, oppure che il Sole nascente di Pellizza da Volpedo e la stessa Lampada ad Arco di Balla annichiliscono il 90% dell’Impressionismo francese, che ci viene riproposto da decenni come irraggiungibile. Lampada ad arco che costerà – a dimostrazione dell’incontentabilità teorica di Boccioni – l’esclusione di Giacomo Balla (per mano dello stesso Boccioni) dalla seminale mostra dei futuristi alla Galleria Barnheim-Jeune di Parigi nel ’12 – e, di conseguenza, anche l’assenza dalla celeberrima foto dei futuristi in bombetta – pur essendo paradossalmente pubblicata in catalogo: nel capolavoro, troppa distanza teorica dal Dinamismo per poter sfidare i cubisti (e Picasso) a casa loro. Boccioni dixit.
Si capisce ancor meno lo sdegno di critici internazionali quali Günther Berghaus, che attacca frontalmente un progetto definendo miserevole, architettato da una cricca politica prima di averlo visto realizzato, facendo sorgere una domanda spontanea magari dalla gola profonda dello stesso Boccioni: ma cosa diavolo avrebbe potuto proporre di così originale rispetto ad un Movimento del tutto autonomo dal punto di vista teorico, che ha scritto, declamato, suonato, ballato, poetato, fotografato, cucinato, costruito, scenografato, teorizzato, cose che voi umani non potreste immaginarvi? Che ha profetizzato l’irruzione della modernità nell’arte, nella società, nella cultura, spazzando via i rimasugli di una tradizione ornai esausta?
Per i futuristi i critici che ne parlano oggi e ne parlarono allora, o che organizzano mostre a loro dedicate, sono semplicemente degli abusivi e non sarebbero né accondiscendenti, né benevoli nei loro confronti, come la schedatura di molti di loro in Questura come agitatori “attenzionati” dimostra storicamente con assoluta chiarezza.
L’anticonvenzionalità così strutturata non si riorganizza a piacere secondo schemi inventati alla bisogna.
Per celebrare il Futurismo si può disporre agevolmente di un bacino nazionale di opere e scritti pressoché infinito, un potenziale già organizzato nei dettagli con Manifesti, volumi e testi di conferenze – su tutte quella di Boccioni a Roma nel 1911 – che risultano illuminanti e preveggenti più di qualsiasi deduzione postuma, come la volontà degli stessi futuristi aveva espresso con toni difficilmente equivocabili. Come fidarsi degli “esperti” che lo hanno ignorato per oltre mezzo secolo, oscurandolo per poi saccheggiarlo propinando originalità artistiche che non erano altro che evidenti riformulazioni del già fatto, del già visto? Di quelli che non hanno ancora contestualizzato storicamente l’Astrazione italiana, ignorandone la primogenitura evidente di Balla, nonché il suo gemellaggio con il Futurismo grazie a Franco Ciliberti che lo emanciperà sul versante spirituale, evolvendo dal Dinamismo e dalle Compenetrazioni boccioniane?
Fino a ieri (e anche oggi) si è assistito a teorie bizzarre sostenute per decenni che fanno via via concludere il Futurismo con la morte di Boccioni e Sant’Elia nel ’16, ignorando l’Aeropittura, cancellando Dottori, Crali, Fillìa, Mino Rosso etc.; oppure nel ’18 con la fine della Grande Guerra, o come dichiarato dalla stessa Benedetta Cappa Marinetti: Rifiutai recisamente di limitare l’esposizione (alla Quadriennale) al 1914. Distinzioni che attribuiscono intenzioni e tendenze ignote agli stessi autori, diciture inesistenti quali Primo e Secondo Futurismo, quando, come ormai assodato, il Futurismo ha un unico corpus declinato in un periodo straordinariamente lungo (1909-1944), impensabile per qualsiasi altra Avanguardia o Movimento del Novecento.
Operazione di prefabbricazione critica facilmente riuscita, ad esempio, con il Cubismo, privo di struttura teorica, di fatto invenzione del giornalista Louis Vauxcelles; oppure con l’anarchico Dadaismo, disorganico per scelta e distantissimo dall’idea stessa di Movimento; elementare con Marcel Duchamp, primo a non prendersi realmente sul serio, la cui opera verrà riorganizzata dalle fondamenta mezzo secolo dopo la sua uscita, al punto da dotarla di una doppia datazione al 1964. Ebbene, tali alchimie divengono impossibili e quindi forzate con il Futurismo, strutturato con migliaia e migliaia di pagine che dettagliano ogni singola intuizione, ogni singolo passaggio e che contestualizzano il Movimento rispetto alle esperienze artistiche coeve, come l’illuminante testo di Boccioni sul Cubismo dimostra in modo inequivocabile.
La mostra di Roma è imponente, muscolare, sprigiona energia creativa ad ogni capolavoro e celebra il Futurismo per la sua stessa natura: in questo senso il curatore Gabriele Simongini ne è il consapevole coordinatore più che l’interprete, il detonatore di un Movimento autenticamente esplosivo che ha dettato la linea (e, in parte la detta ancora) a buona parte delle espressioni artistiche del Novecento, dove la stessa Arte Povera – riconosciuta come unico movimento internazionale dopo il Futurismo – ne è debitoria dal versante teorico sia rispetto ai Manifesti di Boccioni che al testo Arte Polimaterica (verso un’arte collettiva) di Prampolini, dove viene teorizzato ante litteram il Polimaterismo – antesignano dell’installazione – come categoria artistica autonoma, preconizzata dalla scultura aperta e dall’opera-ambiente di Boccioni.
“Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi e le opere pittoriche saranno emanazioni luminose, gas colorati, che sulla scena d’un libero orizzonte commoveranno ed elettrizzeranno l’anima complessa d’una folla che non possiamo ancora concepire”.
(Umberto Boccioni, note per la conferenza tenuta a Roma, 1911)
Roberto Floreani