Quel genio futurista di Filippo Tommaso Marinetti voleva metterci un ascensore, sui faraglioni. E poi un bar lì, in cima. Il 14 luglio del 1914, su «Lacerba», aveva pubblicato il Manifesto dell’architettura futurista: “gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro”. Forse non sarebbe stata una cattiva idea, mi suggerisce Luca, un mio amico architetto, in fuga anche lui, come me, sull’isola di Capri. Arrivare qui è già un miracolo, visto che persino il Frecciarossa fa ritardo, e l’ultimo aliscafo in partenza per l’isola è alle 20. Ma se c’è vento forte e il mare grosso, l’isola torna ad essere irraggiungibile. Un miraggio. Con i suoi faraglioni, privi di ascensore. Arrivarci resta un’avventura, come un tempo. E come racconta Jamie James nel libro, appena uscito in America, Pagan Light. Dreams of Freedom and Beauty in Capri (Farrar, Straus and Giroux, ancora inedito in Italia) che un amico mi suggerisce di leggere. Goethe tentò di visitarla nel 1787. “La promessa della libertà ha portato con sé la fantasia del piacere senza limiti” si legge. Ma certo, l’isola è ancora un simbolo di libertà, di amori sregolati (pure il marchese de Sade è passato di qui), ma anche di turismo di massa e lusso sfrenato. Basta allontanarsi dalla pazza folla e si aprono squarci di bellezza da togliere il fiato. Anzi, da uccidere.
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Nel libro di Jamie James, si parla di Norman Douglas e ancora prima, soprattutto, degli imperatori romani, da Giulio Cesare a Tiberio, passando per Ottaviano Augusto (l’ombra della sua morte che si allunga sui suoi ultimi giorni di villeggiatura sull’isola). Dalla residenza di Tiberio (che costruì diverse ville imperiali), Villa Jovis, costruita intorno al I secolo, si può gettare un ultimo sguardo al “salto di Tiberio”. Una bellezza che corteggia istinti da cupio dissolvi. Un salto di oltre duecentonovanta metri, a strapiombo sul mare: l’imperatore romano, secondo la leggenda, da qui gettava ospiti indesiderati e, forse, amanti non più graditi. Il vento sferza potente su questo punto roccioso che scorge il mare da tutte le parti, sembra difficile resistere al fascino dell’altezza. Guardare giù è già precipitare. Mentre osservi, da sopra, incerto, il volo dei gabbiani, il loro grido. Questa bellezza, così rischiosa da essere temeraria. Ma, primo in ordine cronologico, Omero parlò di Capri, quando scrisse delle sirene di Odisseo. Il canto di queste magnifiche assassine, donne-uccello dal verso che affascina, forse vivevano qui, sugli scogli di Marina Piccola, da dove puoi guardare quegli scogli da cartolina: Stella, Saetta e Scopolo. I nomi dei faraglioni. Quanti sguardi si saranno posati su di loro? “Vi sbarcai in inverno. La veste di zaffiro l’isola custodiva ai suoi piedi, e nuda sorgeva nel suo vapore di cattedrale marina”, scrive Pablo Neruda nella Chioma di Capri: era sbarcato anche lui qui, nell’inverno del 1952. Col basco in testa e in bocca la pipa, accanto a Matilde, la sua amante dai capelli rossi, sorridente e silenziosa (lui era sposato da sedici anni con Delia del Carril, la seconda moglie) e, insieme a loro, il cagnolino Nyon (Teresa Cirillo Sirri li descrive in Neruda a Capri. Sogno di un’isola, La Conchiglia). Mano nella mano, si vedevano i due amanti passeggiare per il mare o camminare verso il monte Solaro. Ospiti dell’ingegnere e naturalista Edwin Cerio, vivevano nella “Casa di Arturo”. Lei era cantante, Matilde Urrutia e lui, dal 1949, in esilio dal Cile, si vedevano bere il caffè in Piazzetta. Pare che un’anziana sarta dell’isola avesse cucito, con fili dorati, appositamente per Matilde, un abito a righe verdi e nere. Lei, la musa di Neruda, cucinava piatti cileni di pesce, con cipolle e olive e l’anatra all’arancia. Per lei, il poeta cileno scrisse Los versos del Capitán e Las uvas y el viento. Sembra che scrivesse con inchiostri diversi, a tutte le ore del giorno e della notte, su foglietti diversi che Matilde collezionava. La casa decorata con fiori di campo e rami di ginestre. Lui, nonostante fosse già impegnato, voleva sposarla. Aveva fatto incidere un anello con questa scritta: “Capri, 3 maggio 1952. El tuo Capitán”.
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In questo quadro idillico che ispirò Troisi per Il postino, c’era anche una domestica, da Neruda chiamata Olivito (perché assomigliava ad una piccola oliva) che si lamentava dei due ospiti disordinati e selvaggi. Imboccando la via Tragara, restano i suoi versi incisi sulla roccia: “Capri – reina de roca/en tu vestido/ de color amaranto y azucena/ vivi desarrollando/ la dicha y el dolor . la vin allena/ de radiantes racimos/ que conquisté en la tierra” (“Capri, regina di roccia/ nella tua veste/color giglio e amaranto/ vissi sviluppando/ la fortuna e il dolore, la vigna piena/ di grappoli radiosi/ che conquistai sulla terra”). Innamorato. Ma non solo Neruda. Gli scrittori sull’isola di Capri non si contano. E non solo scrittori. Alle spalle della Piazzetta, lungo il percorso che porta alla Villa Jovis, c’è una casa rossa, di un rosso pompeiano con un’epigrafe che ricorda: qui visse e lavorò dal marzo 1909 al febbraio 1911 lo scrittore russo Maksim Gor’kij e, nel 1910, “dimorò Vladimir Lenin fondatore dello Stato Sovietico”. Sull’isola del dolce far niente, “Apragopoli” come veniva chiamata, qualcuno riesce a lavorare. La figlia del duce, Edda Ciano, e suo marito erano venuti a Capri in luna di miele, nell’albergo più esclusivo dell’isola. Italo Balbo atterrava con l’idrovolante e passava di qui anche Bruno Bottai. Oltre a Moravia e alla moglie Elsa Morante (che a Procida, l’isola sorella di Capri, aveva ambientato appunto L’isola di Arturo), viveva appartato nella sua villa Alberto Albertini, il cofondatore del «Corriere della Sera». Giovanni Amendola e molti ebrei tedeschi e austriaci in fuga dalle leggi razziali trovarono riparo qui, gli scrittori Franz Werfel e Stefan Zweig. Ma l’isola piaceva anche ai gerarchi nazisti, come Goering e Rudolf Hess appassionato di un famoso cantante caprese, Scarola. Proseguendo per la via Tragara si arriva al Belvedere e all’hotel omonimo, secondo quanto riporta l’iscrizione incisa sulla facciata, progettato dall’architetto Le Corbusier, secondo le mie fonti capresi, progettato e costruito dall’imprenditore Vismara originario di Induno Olona, in provincia di Varese. In questo edificio color ruggine, sede del Comando Americano, durante la Seconda Guerra Mondiale soggiornò il generale Eisenhower, futuro presidente USA e Winston Churchill. Ma più poeticamente ne scrisse la grande poetessa Ada Negri, nel 1923: “Viandante, se vai fino a Punta Tragara,/ argentea d’ulivi,/ prendi a sinistra un viottolo a scaglioni nel sasso./ Aspro; ma verso il mare tutto oro di folli/ranuncoli./ Verso il monte tutto ombre di mirti, e pensoso amaranto di cardi./ Ti condurrà alla casa che risponde, marmoreo/ silenzio ai silenzi dell’aria”.
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Proseguendo lungo questo sentiero, la visione dei faraglioni è potente, immediata, sono così vicini da togliere il fiato. Il sentiero conduce quindi alla casa più affascinante dell’isola, Villa Malaparte, concepita e costruita da Curzio Malaparte, su Punta Massullo. Lo stesso Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert) che aveva dato di Napoli, un potente affresco ai limiti della putrefazione, nel viaggio allucinato e infernale di La pelle, il romanzo scandalo, pubblicato nel 1949, aveva scelto l’isola più bella del golfo di Napoli. E la casa, progettata interamente da lui, non aperta ai visitatori, è un sogno di bellezza, costruita sul promontorio roccioso, come un enorme mattone, che ride delle tempeste e resiste negli occhi con quel suo sguardo che saluta i marinai. Il camino ha per fondo un vetro: quando era in casa, lo scrittore accendeva le fiamme, che si vedevano dal mare. Quando il mare è in tempesta, le onde lambiscono la casa, “La casa come me”. Quando parto dall’isola, l’isola torna ad essere un’isola: hanno cancellato gli aliscafi. Il mare è grosso. Non resta che prendere l’ultima corsa per Sorrento, costeggiando la terraferma. Villa Malaparte diventa un puntino rosso scuro in mezzo al mare, negli occhi lo sguardo dell’isola si allontana, come un miraggio, “una meringa”, qualcosa che non esiste più, se solo esce dagli occhi. Senti soltanto le onde. I faraglioni sono scomparsi. Ti chiedi se non sia solo un sogno. E ti torna alla mente l’ultima pagina dell’isola di Arturo, anche se l’isola che scompare è Capri: “Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio che non guardi là. Tu avvisami, a quel momento. (…) Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più”.
Linda Terziroli
*In copertina: Pablo Neruda, tra gli illustri ospiti di Capri