Una vita nel segno dell’utopia
Le cose belle esistono. Il loro unico problema, oltre a quello di essere in numero esiguo, è di risultare celate, per volontà o per cause di forza maggiore. La rivista Poesia, di Nicola Crocetti (nella fotografia di Fabrizio Annibali), rientra a pieno titolo nel novero. Purtroppo però, come si diceva, vive nascosta, con tutte le difficoltà di un foglio clandestino. Se non nelle grandi città, la si trova a stento. Ha la sua nicchia riparata e oscura giusto in qualche edicola. Solitamente, è anche dispersa in mezzo ad altri periodici specializzati per cultori delle materie più stravaganti. Bisogna scovarla, snidarla, sopportare il sorriso malcelato – soprattutto se non si è dei vecchietti – rivolto dall’edicolante, quando ne si domanda una copia. I più, tra loro, si limitano comunque a un secco “Non so di cosa parli, Signore”. Come se non bastasse, quando proprio vi è abbondanza, si tratta di un massimo di due esemplari. Malgrado ciò, o forse proprio per via di questa riservata presenza, Poesia è riuscita ad arrivare al suo terzo decennio di vita. Deve sembrare un’eternità a Crocetti e a tutta la pazza ciurma e in effetti lo è. Una vita nel segno di un’utopia per cui si può giusto venir presi per disadattati dalle masse, nonché dalle istituzioni e dalla politica. La poesia, come ricorda anche il Direttore della rivista, con altero e aristocratico distacco, è sempre “argomento di riso e di trastullo” (se non avete colto il riferimento, probabilmente, lo è anche per voi). Eppure, eppure… la macchina è riuscita a muoversi con spinte e olio di gomito per giungere fino a qui. Forte di un comitato di redazione che è una sorta di olimpo della poesia nazionale (da Silvio Ramat a Milo De Angelis, passando per Silvio Raffo e Aldo Nove), ha portato all’attenzione di chi ha voluto avere orecchie per una nuova musica tutto il meglio della produzione lirica nazionale e degli altri paesi. Davvero un’operazione mastodontica, ma soprattutto encomiabile. Ci sono poeti che non si sarebbero mai né visti né sentiti se non fosse per questa pubblicazione. Non è indegnamente, quindi, né tantomeno per boria, che il suo autore può riconoscersi il merito di dominare incontrastato in Europa ed essere tra le prime posizioni nel mondo. La speranza è una sola, ovviamente: che l’avventura possa continuare. Purtroppo, non è scontato. Se in principio Poesia poteva essere l’unica fonte di approvvigionamento per gli appassionati (le foto dei poeti, allora, le trovavate solo tra le sue pagine), adesso c’è internet, i giornali online (ci prendiamo la nostra quota di responsabilità), i blog, e via peggiorando. Naturalmente, al netto delle differenti e maggiori possibilità di diffusione, resta uno scarto di competenza e professionalità incolmabile, oltre che schiacciante. Ma la fiducia resiste, per quanto ombreggiata dal timore. Perdere Poesia e tutto ciò che vi ruota intorno, come la casa editrice specializzata, la Crocetti Editore, sarebbe un danno irreparabile… Per il momento, però, festeggiamo e ci complimentiamo con loro per il traguardo; oltre che per il bellissimo numero di Gennaio, in cui è raccolta una vasta ed esauriente selezione con il meglio delle liriche presentate da quel lontano 1988. Chiunque si renda conto di cosa è in ballo dietro un caposaldo della cultura italiana come Poesia, non potrà che correre a comprarlo.
Matteo Fais
Tutto bello. Ma 30 anni dopo spopola, senza gusto né buon gusto, l’egolatria lirica
Vogliamo i fatti, fattuali, fattivi, papali e taumaturgici. Eccoli. Poesia è il totem della poesia italiana. Nome semplice ma viziosamente canonico (Poesia è la rivista fondata da Filippo Tommaso Marinetti a Milano, nel 1905, con una truppa che contava, tra gli altri, Sem Benelli, Paolo Buzzi, Luciano Folgore, Corrago Govoni, Aldo Palazzeschi, solo che è durata, in quei decenni in cui le riviste nascevano, esplodevano e scoppiavano come pop corn, quattro anni…), diffusione pazzesca (nel periodo aureo, 30mila copie…), comitato redazionale con nomi vertiginosi (dai Premi Nobel per la letteratura Derek Walcott, Tomas Tranströmer e Seamus Heaney, ai titanici Yves Bonnefoy, Charles Wright, Tony Harrison, Adam Zagajewski…). Poi, secondo fatto papale, c’è lui, Nicola Crocetti. L’editore dei poeti – tolto Scheiwiller e il samizdat dei piccoli, tenaci editori ‘clandestini’. Libri elegantissimi, le cui collane si chiamano come i nomi dei vasi greci (‘Lèkythos’, ‘Aryballos’, ‘Kylix’…), una araldica che riguarda la biografia di Crocetti – nato a Patrasso, traduttore dei più grandi tra i greci moderni. In sostanza, Crocetti ci ha dato alcuni tra i libri più belli, immortali, del secolo, tra Ghiannis Ritsos, Bonnefoy, Jaime Saenz, Yehuda Amichai, Cees Nooteboom. Fossimo in un Paese decente, Crocetti sarebbe Ministro della Poesia per l’Italia, quanto meno non farebbe fatica a trovare finanziamenti e finanziatori. Pudico, silenzioso, severo, di Crocetti ricordo una cosa indimenticabile che mi serve per dire un’altra cosa. Eravamo, un tot di anni fa, a Bastia Umbra. Facciamo il viaggio insieme verso Cesena. Deve prendere il treno per Milano. Guido io. Lesino sui dettagli. Crocetti è accogliente e ruvido allo stesso tempo. Mi faccio raccontare del suo rapporto con Ritsos, perché per me – per ogni lettore degno di lettura – Quarta dimensione è uno dei libri epocali del Novecento. Poi parliamo di poesia italiana. Crocetti è durissimo, drastico. Mi piace perché gli fa schifo quasi tutto. A lui, che ha dato esordio pressoché a tutti i poeti italiani di oggi. La sua ferocia contro i poeti piacioni, aureolati di chiacchiere, in carriera, della domenica e dei buoni sentimenti – in cui, ovviamente, nessuno dei quattro lettori di questo articolo si riconoscerà, ma ci siamo dentro tutti, io, tu, noi, tutti – è un marchio di lode indelebile. Per questo, mi domando. Ora, 30 anni di Poesia dopo, 30 anni di versi pubblicati al vento dell’epoca, cosa resta? Lo schianto del tempo presente. Le lamentazioni in forma lirica di poeti furbetti via blog e il magistero pacchiano di poeti volponi, più vecchiotti. A cosa sono serviti questi 30 anni? A educare al ‘gusto’, o perlomeno al buon gusto lirico (cioè, il buon gusto di lasciare i propri quattro versi ad ammuffire nel cassetto del comodino)? A educare a una lettura informata e diseducata, avventata e avventuriera? A cambiare un sistema editoriale asservito al mercato, al soldo dei vampiri? Macché. Gli egotismi lirici – algoritmi dell’ego che provocano conati di schifo – prolificano, chi ha i soldi si compra il libro di versi laccato dal prefatore doc, e tanto alla poesia chi ci crede, frega un cazzo a nessuno. La rete produce tonnellate di merda lirica che hanno inquinato l’etere, come una petroliera che si spacca in quattro in mezzo all’oceano. A morire non sono mai i responsabili del disastro, ma le magnifiche sule, i memorabili cormorani, le capriole dei delfini e i balzi delle balene, impediti dal liquame gommoso. A morire, nel puzzo lirico attuale, sono i poeti, che fanno circolare i loro capolavori nei sottoscala, in fotocopia o in pdf, senza soldi e senza potere, come sempre. Questa è la poesia, a 30 anni di Poesia.
Davide Brullo