In verità, il volto di Friedrich Hölderlin è bianco, è vuoto – è un volto in fiamme. Non ha più nulla a che fare con l’aitante ragazzo – prodigioso nel cammino, dalle caviglie canaglie e dionisiache – ritratto da Franz Carl Hiemer, né con la silhouette con cui a volte sigillano i suoi libri, icona d’un uomo che ha scelto la luce e agli altri parve sempre in ombra. La pace a cui ci porta H. – sperare in Espero – è quella vera, che fa boccheggiare: non si rimane inerti, ma pronti per l’erta, scassati nel cuore, dopo la rivelazione. Apollo semina enigmi; il Nazareno è tempestato da ferite-occhi. La luce, quando arriva, è un dardo in faccia.
Ignifugo a ogni esegesi – ne ha subite a frotte, a maree di sciacalli – H. resta intoccato: inascoltato, diremmo. Ostile, il suo dire, alle chiese dei letterati; profana il tempio, costui: svela, della candela, la natura di giaguaro, nell’orante l’idioma del lupo, la razza della preghiera come razzia. H. pretende lettori nottambuli – dunque, fedeli alla luce –; lettori che del verbo sappiamo l’inganno e l’accesso alla predazione, volo e voliera.
Di recente – al centesimo ritorno in H., per farla finita con la poesia ed entrare, artigli in cranio, nell’altro – ho letto l’Hölderlin secondo Susanna Mati. Colpevole il ritardo – l’edizione delle Poesie scelte esce per Feltrinelli, in prima battuta, nel 2010 – ma il tempo, in H. – H. il vagabondo; H. l’amante; H. incestuoso grecista; H. pensatore selvaggio; H. il pazzo; H. il divino – è sbilenco, non ha inverno, reca folli fioriture in gola. Dopo i canonici – letti quasi tutti: da Gianfranco Contini a Mandruzzato, da Traverso a Vigolo, da Sergio Lupi a Luca Crescenzi e, ovvio, Luigi Reitani – mi ha sorpreso questo mai consueto, infinitamente nuovo H.
I versi di H. trafiggono, sempre, per gnomica pregnanza, gnostica possanza:
“Ma senza paura, come deve, l’uomo sta
solo di fronte a Dio, lo protegge la semplicità.
e non ha bisogno di nessun’arma e di nessuna
astuzia, fin quando aiuti il mancare di Dio”.
L’ingresso di Patmos – stesura prima – è lì, ad ambone d’abisso:
“Vicino
e difficile da afferrare il dio.
Ma dov’è il pericolo, cresce
anche ciò che salva.
Nella tenebra hanno dimora
le aquile e senza tema scavalcano
l’abisso i figli delle Alpi
su leggerissimi ponti.
Perciò, poiché intorno si ammassano
i culmini dei tempi, e chi più si ama
vive vicino, esausto su
monti separatissimi,
allora da’, acqua innocente,
dacci ali per partire e ritornare
più fedeli al senso”.
Tutto sembra sul punto di esplodere, di fiorire dal sembiante al sopito senso: H., il folgorato, il radioso, ci porta sulla soglia di tale trasfigurazione. Perfino ovvio vedere nelle sue mani il cielo – poesia, qui, incapace, per gestazione d’evo, a salvare, addestra al salto. Empedocle è un modo per dire mondo nei recessi taciuti della parola amore.
Secondo Susanna Mati, il suo è un lavoro che permette a ogni lettore di penetrare in H. – è, si direbbe, opera di servizio. In realtà, è libro per adepti e perduti, da incorporare a sé, nel latteo dell’essere: parola di cui discorrere coi fiumi, con le bestie che la primavera avvicina, avvampa.
“Essere uno con il tutto”: come è possibile? Che valore ha la poesia in questa incessante rincorsa verso “la beata unitezza”?
“Essere uno con tutto ciò che vive”, scrive altrove lo stesso Hölderlin; un suggerimento davvero attuale, che sembra presentire la necessità futura, urgente nella nostra epoca, di immedesimarsi in un grande destino collettivo, che oltrepassa l’individuo, la specie, perfino il vivente e il terrestre. Naturalmente dietro a questa formula stavano anche le elaborazioni concettuali dell’idealismo, per un poeta che ha avuto una formazione filosofica di altissimo livello; basti ricordare che i suoi compagni allo Stift – il collegio teologico – di Tübingen erano Hegel e Schelling. La visione di Hölderlin è però anche realistica, poiché i poeti, gli spirituali, devono anche essere del mondo (come scrive in una lirica); ovvero la poesia di fatto non può far altro, nell’epoca di buio e di scissione che attraversiamo, che accennare, che postulare l’unione, la comunione, con il Tutto; può indicarla, può segnare la via grazie alla potenza immaginativa della parola. Tutte le energie spirituali umane devono essere mobilitate a questo fine – dove per ‘spirituali’ intendo del Geist, dello spirito in senso tedesco: intellettuali, morali, culturali. Uscire dalla scissione, che segna ogni in-dividuum, rimediare alla feroce unilateralità di tutto ciò che vive, per far ritorno alla comunione e alla quiete finale, estatica: questo è il significato profondo del dionisiaco, che si affaccia sia nella poesia degli inni hölderliniani, sia ancora nella Nascita della tragedia di Nietzsche.
Come possiamo designare il ‘cristianesimo’ di H.? Cioè: in quale modo il poeta coniuga Dioniso e Cristo?
Giustissimo aver usato le virgolette; è un cristianesimo molto particolare, quello di Hölderlin, così come lo è quello del suo contemporaneo e affine Novalis, il più grande rappresentante tedesco della romantische Schule. (Anche Hölderlin, naturalmente, presenta aspetti romantici, ma la sua formazione, lo ribadisco, avviene nell’alveo dell’idealismo e del classicismo). Cristo è l’ultimo dio, nella visione di Hölderlin, è colui che conclude e compie il convito celeste. Dopo non verranno più altri dèi, in Occidente, sia perché abbiamo perduto la capacità teogonica (cioè di creazione divina: noi non creiamo più dèi; “duemila anni e non un solo nuovo dio!”, esclamerà Nietzsche), sia perché è intrinsecamente logico che Gesù Cristo, l’uomo-dio, il dio incarnato che muore, ma anche il genio dell’amore e della pace, rappresenti la conclusione, un non plus ultra del divino. Però rimane la loro eredità, nella sua visione; questa eredità sarà sincretica, riunirà l’antichità greca con l’epoca moderna cristiana, realizzando una sintesi, ovvero superando entrambe: sarà la ventura, la possibile e auspicabile, ma per ora irrealizzata “festa di pace” (Friedensfeier). Non senza ragioni Hölderlin individua in Dioniso il rappresentante più emblematico della religione greca e in Cristo l’ultimo dio dell’Europa, con le loro reciproche somiglianze (gli dèi del pane e del vino), che nella mitologia romantica giungono quasi a una sovrapposizione tra le due figure; c’è inoltre in lui, curiosamente, anche un terzo elemento, Eracle, l’eroe civilizzatore, l’uccisore dei mostri, che in alcuni inni tardi crea con loro una specie di strana trinità.
Lei scrive che “la parola più alta” di H. è quella della “notte”, “fondata sull’abisso, infondata e lungimirante”, è quella che “nasce in questa straordinaria tensione tra pazzia e profezia”. Pare che sia necessario ‘uscire da sé’ perché la poesia abbia spazio… è così? Come intendere quella “pazzia” dal nitore di glossolalia?
Sembra così, sembra che il poeta debba stare sull’orlo del precipizio, per poter cogliere parole tanto fatali. Pare che solo da questa soglia, tanto inabitabile quanto inoltrepassabile (almeno rimanendo nel linguaggio), si possano pronunciare versi, o frammenti di versi, che partecipano in eguale misura sia della poesia che della profezia – da questo ciglio del baratro. Sono casi unici nella storia, rarissimi, e Hölderlin è sicuramente uno di questi. Ma il recipiente umano, colpito da Apollo (come il poeta si descriverà in una celebre lettera), non può che andare in frantumi, sotto la presenza incombente del divino: e dunque potrà pronunciare solo balbettii, lallazioni, lacerti impazziti di luce. Al di là di questa soglia, invece, non ci sono più parole, non si dice più niente.
Mi dica come ha proceduto, rispetto a tanti, altri esperimenti di traduzione, nel tradurre H. Qual è, insomma, il suo “Hold”? Estrapoli un distico a suo avviso significativo del processo.
Io non sono un(a) poeta, quindi le mie traduzioni mirano spesso a una chiarezza esplicativa e a essere quasi di servizio rispetto al testo tedesco. Mi concedo pochissime libertà rispetto a una traduzione letterale, in cui risuoni l’originale, che ci tengo sia sempre presente a fronte. Questa piccola antologia è stata concepita come un’introduzione che facilitasse l’accesso a un poeta ostico e complesso, anche dal punto di vista estetico-filosofico; diciamo che può essere un primo passo, un avvicinamento a Hölderlin, per passare poi alla lettura (non certo agevole per chiunque) del Meridiano sull’Opera poetica a lui dedicato da Luigi Reitani, germanista di valore precocemente scomparso, che mi piace ricordare qui. Tra l’altro, la mia stessa formazione filosofica può aver frainteso, o perlomeno interpretato e filtrato, la percezione di questo grandissimo poeta-filosofo. Faccio quindi due esempi semplicissimi: “Ich verstand die Stille des Aethers / Der Menschen Worte verstand ich nie”, un distico tratto da Da ich ein Knabe war…: “Io compresi il silenzio dell’Etere,/ la parola degli uomini non la compresi mai”. Oppure la breve quartina Lebenslauf, Corso della vita (prima stesura): “Hoch auf strebte mein Geist, aber die Liebe zog / Schön ihn nieder; das Laid beugt ihn gewaltiger; / So durchlauf ich des Lebens / Bogen und kehre, woher ich kam”:
“All’alto anelò il mio spirito, ma l’amore
lo riportò indietro; più potente lo curva il dolore;
così percorro l’arco
della vita e torno di dove venni”.
Dice di H.: è “il poeta assoluto dell’età moderna occidentale”. Cosa significa?
Significa che, a mio parere, nessuno come lui ha messo in chiaro la situazione spirituale dell’umanità occidentale dopo la “fuga degli dèi”, dopo la fine del giorno greco e della sua possibilità di una poesia strettamente connessa alla luminosa presenza, e dunque alla lode, del divino. Il poeta moderno, esperio (come lo definisce Hölderlin), sconta un’assenza, ed è drammaticamente più vicino ai tragici che a Pindaro, l’inarrivabile modello hölderliniano, colui che poteva ancora concepire e praticare la poesia interamente come “tessuto di lode” (la formula è di Rilke), cioè come inno. Si tratta di quella situazione epocale della modernità che Nietzsche, una generazione dopo, battezzerà con i nomi di ‘nichilismo’ o ‘morte di Dio’. I due, ovviamente, sono apparentati, oltre che da un effetto storicamente comprovato del primo sul secondo – Hölderlin era il poeta preferito del Nietzsche adolescente, dal quale indubbiamente il filosofo ha attinto alcune idee e suggestioni –, anche dal destino di follia, rispetto al quale non è inopportuno ricordare la mania platonica e degli antichi. Tuttavia, in Hölderlin, a differenza che in Nietzsche, lo sfondo degli dèi, il divino, il theos rimane sempre vicino: “prossimo, ma difficile da afferrare…”, e la follia e l’erranza dionisiaca, in quel buio che costituisce l’essenza dell’Esperia (cioè della Notte/Occidente), lasciano sempre squarci possibili per il manifestarsi di barlumi di assoluto – e quindi di momenti di festa, di riconciliazione e di poesia di lode, innica. La difficoltà del poeta sarà dunque quella, per usare una sua espressione, di cogliere ogni volta la misura (“das Maas”, Der Einzige).
Cosa diventa H. quando si tramuta in Scardanelli?
Direi che questa è la domanda più ardua di tutte… Nelle poesie di Scardanelli, e in generale nelle poesie scritte nella “torre”, che furono parte degli ultimi quarant’anni di follia di Hölderlin (la follia ricopre cioè oltre metà della sua vita), si avverte un senso di pacificazione molto chiaro; la serenità, l’osservazione placata della natura, il succedersi regolare delle stagioni nei paesaggi e nelle vedute, la sensazione che tutto il tumulto stia oramai alle spalle… – tuttavia, si tratta, al contempo, di una Umnachtung, di un abbuiamento individuale parallelo a quello epocale, connessi entrambi alla Gottlosigkeit, all’assenza o sparizione del divino, che significava gioia, amore, luce, comunione. Ma chi sia Scardanelli, se sia un folle o un sapiente o un contemplatore o un povero malato, o tutte queste cose insieme, e soprattutto se sia ancora una personalità, oppure un individuo dai molti nomi (poiché Scardanelli non era l’unico che osava adesso affiorare e manifestarsi), se sia appartenente alla sua stessa contemporaneità, oppure a un secolo o due prima, oppure all’avvenire (come si sa, le “poesie della torre” recano datazioni passate, presenti e future: il tempo si annulla, diviene indifferente), se non sia insomma “tutti i nomi della storia” (come scriverà Nietzsche nella lettera della follia a Burckhardt) è un mistero che forse è meglio non analizzare: limitiamoci a nominarlo, Scardanelli, come un nome misterioso e sacro.
Che ruolo ha la ‘politica’ – la visione politica – nella ‘poetica’ di “Hold”?
La politica è strettamente legata alla necessità di cambiamento, anzi di palingenesi, che si avvertiva all’epoca. C’era appena stata – anzi, era ancora in corso – la Rivoluzione Francese, che aveva portato, specialmente presso i giovani artisti e intellettuali di tutta l’Europa, una disseminazione di idee e di fermenti innovativi e ribelli. Si dice che Hölderlin, Schelling e Hegel abbiano ballato intorno all’“albero della libertà”, allo Stift. Il saluto che si scambiavano in fondo ad alcune lettere era il motto Reich Gottes, il “regno di Dio”, a indicare un rivolgimento totale della realtà ‘positiva’ della loro epoca – un rivolgimento anche politico, la fine del regno dei preti e dei tiranni e l’inizio di un’era autentica dello spirito. Questo regno di Dio di là da venire non è affatto distante da quell’“essere uno con il Tutto” di cui dicevamo all’inizio, che non significa affatto l’annullamento delle differenze in un’unità indifferenziata, bensì piuttosto quello’“Uno in sé diviso”, in sé armonicamente contrapposto, che Hölderlin leggeva in Eraclito, ad esempio nell’Iperione e in alcuni testi teorici.
Hölderlin nella Torre, Rimbaud in Africa, le poesie della Dickinson, impubblicate, in un baule: nei più grandi poeti dell’Ottocento – o meglio: del Novecento – si assiste a una frattura, a un crollo, a una agnizione oscura. Quasi che questo scisma tra sé e l’opera sia una necessità perché la poesia accada. Ritiene che sia così?
E, sempre nel Novecento, pure Pessoa sta in un baule… Chissà; certo è che, dal punto di vista sociale, il misconoscimento del vero poeta sembra essere stata la regola, e ci si può chiedere come questa regolarità si applichi oggi, in un periodo in cui, in prevalenza, si cercano visibilità ed effimeri riconoscimenti da parte (sostanzialmente) del mercato. Forse è destino degli autentici poeti rimanere nascosti, obliati, scissi, fin quando la storia non faccia giustizia, reintegrandoli. Ma capisco che la sua domanda alludeva non tanto alla sfera del riconoscimento sociale, quanto a una scissione più profonda tra il sé individuale e l’accadere autonomo dell’opera poetica… – una cosa è certa: la poesia, appunto, accade. E, per usare la metafora hölderliniana, il poeta è colui che sta sotto le tempeste del dio a capo scoperto, per porgere ai comuni mortali, avvolto nel canto, il fulmine che lui stesso fatica a padroneggiare (Wie wenn am Feiertage…) e che assai spesso, in qualità di individuo anch’egli mortale, in qualche modo lo scinde, o lo aliena, o lo uccide. Eppure sappiamo anche, d’altronde, che il linguaggio è il più pericoloso di tutti i beni e che “là dove cresce il pericolo / cresce anche ciò che salva” (Patmos). In conclusione, rimane sempre aperta quella radicale domanda, che cela il destino paradossale e tragico dell’autentico poeta, il suo dysmoron (il suo destino distorto, potremmo tradurlo), formulata da Hölderlin in Brod und Wein: “Wozu Dichter…?”: a che scopo i poeti?
*In copertina: Manticora tratta dal libro di Ulisse Aldrovandi, Monstrorum historia, 1642