
La vita contro il sistema. Charles Péguy, il poeta che ci mette in crisi
Dialoghi
Daniele Gigli
L’ultima volta che ci sentiamo sono sul mare. Bassa marea – i vecchi raccolgono le poveracce, al purazi, le vongole che emergono a bocconi dalla mota sabbiosa. Vagano, limitrofi all’Adriatico – glabro, agnellino, retrattile, nei giorni in cui la luna lo trascina in amore – con il secchio e l’arnese. Rabdomanti di un mondo subacqueo. Dall’altra parte del globo italiano, Marcovinicio, Domodossola, mi dice che ha dipinto una cassa da morto. Dovrei fare gli scongiuri, ma Marco, artista sciamanico, sa voltare la debolezza in forza, la morte in vita.
Mandami una foto, gli faccio. Si fa fare una foto. Me la manda. La cassa è di quelle spoglie, semplici – “come quella del papa”, fa lui, conferendo nitore di Graal a un cristianesimo romanico più che romano, di agri portali, di nudi antri, di scelte estreme. Marco, secondo lo stile dei suoi micidiali gialli&neri, ha dipinto una vacca e un rifugio, un sentiero di montagna, una patera. I suoi simboli. Marco rifugge dalla modernità, è un artista all’avanguardia perché è a guardia dei passi montani; è un artista sempre in veglia, uso alla candela e al pugnale. Oltre al ventre, ha dipinto l’accesso alla bara, la chiusa, con gli stessi simboli – l’animale, la casa, il lago, la via che sfila tra i monti.
La morte – che l’oggi dileggia, silenzia, ricama tra smorfie e osceni desideri di vita centenaria, eterna al niente – torna ciò che è: vita, altra vita, tensione di luci, viatico, viaggio.
Segno la parola viaggio sul dorso della mano.
Marco ha fatto di Domodossola la new wave dell’arte italiana – che nessuno lo sappia, che nessuno s’avventi a questo artista di monti, è segno della sua irosa nobiltà.
Dieci anni fa, nel 2014, a settantacinque anni, muore Franco Busca, eccentrico artista di Domodossola, scalciato da un destino non facile. Per Marcovincio è stato un maestro di stile – cioè, un maestro nello stare al mondo, in drittura d’arte, vigile al compito, in ostilità al presente. A testimoniare l’anniversario, abbiamo raccolto un mannello di poesie di Busca. Ne parlammo su questo foglio. Sono poesie che s’intrecciamo all’opera pittorica di Busca: fieramente lunari, preadamitiche, con un’innocenza alle labbra e un falco sulla spalla destra. C’è la veemenza e lo stupore di quando cuocevamo il pane e davamo di coltello, di quando si volgeva la sedia alle stelle per auscultarne il sussurro, capire se nostro era il destino del dardo o quello della codardia, della corda o della fuga.
Ricalco alcune poesie di Busca, per entrare in quel dire, all’arma bianca:
Ho visto masticare spugne di cervello
come sacchetti di memoria
e il pasto crocefisso della vena
nel corridoio gelato
ho visto la sua bocca chiedere gli occhi
e la vertigine che rotea nelle stanze
non più tue
*
Come un giardino
raccolto la notte
piano muove il carro
senza doni
gli uccelli
ancora viventi disegnano
una parte
nascondono le mani
dove brucia il destino
ospitando la morte
*
Cielo cielo
dove batte il sangue
nel vestito luminoso
che ho inventato
o nella terra acida
piena di racconti?
*
Che senso ha se non continuiamo a inseguire quell’ingenuità, via dal lezzo degli intellettuali?, mi fa, pressappoco, Marco. Non so se questa ingenuità – che a noi viene presunta, come la biscia e lo strigide – abbia nome Abele o Isacco – oggi vorrei un’ingenuità Tamerlano, un’ingenuità chiamata Orda d’Oro.
Nel suo libro – miliare – sui Primitivi contemporanei, Oto Bihalji-Merin lega l’arte ‘ingenua’ a quella degli artisti-stregoni delle origini, a quella dei bimbi, che sproporzionano il mondo secondo la ferocia del proprio amore:
“I pittori dell’arte ingenua non rappresentano nessuna ‘tendenza’ in seno all’arte moderna. Le loro immagini di bizzarra primitività sono al di fuori delle polemiche spirituali dei pittori professionisti. Indisturbati e spontanei, i veri pittori ingenui creano seguendo l’impulso del loro cuore. La loro spontaneità cruda e la loro poetica immediatezza rallegrano con la sincerità dell’ispirazione e l’inconscia fantasia dei loro sogni”.
…poi c’è chi si finge ingenuo, perché la terra di falsi profeti è pregna, ma questo è discorso altro. Ci importi la spina, la spinta, questo vagare da sciacalli Rimbaud.
Si diceva, viaggio. Nel 1973 Franco Busca fece un viaggio a dir poco epico. Andò a Oriente, per disorientarsi, secondo le antiche piste di Alessandro Magno e di Gengis Khan – fu il suo viaggio verso l’Oxiana, come direbbe il grande viaggiatore – e critico d’arte – Robert Byron. Sulla via del ritorno, la macchina – una Citroen Ami 8 – mollò Franco e il suo compare, Amedeo, in Afghanistan, nel momento cruciale: l’ultimo re afgano, Mohammed Zahir Shah, era stato deposto da un colpo di Stato. Franco fu arrestato, la macchina bruciata, in mezzo al deserto. Fu necessario l’intervento della Croce Rossa Internazionale e di alcune amicizie per far rimpatriare i due.
Ora: i viaggi si ereditano e un destino turbolento va smerciato in discepoli. Il caso – diciamo così – fa incrociare Marcovinicio con Tiziana Scaciga: lei sta per compiere il suo viaggio in India, lui le mette in mano le poesie di Franco Busca. Devono tornare in India, devi fare a ritroso, cinquant’anni dopo, il viaggio di Franco. Un viaggio, in effetti – se è davvero tale, cioè se riguarda uno sconvolgimento interiore – si realizza soltanto se un altro, dopo di noi, lo rifà, lo fila. È come il filo rosso di Arianna: bisogna recuperare il corpo del Minotauro, bisogna interrare la spada di Teseo e le trecce della sorella. Bisogna slacciare una parentela per instaurarne altre mille.
Tiziana ci sta. In calce a questo articolo leggete il suo diario indiano, che segue – se vi va – una lunga tradizioni di illustri diari indiani (ne dico tre, al di là della “cuna del mondo” di Gozzano: L’odore dell’India di Pasolini, Esperimento con l’Indiadi Giorgio Manganelli, Giornale indiano di Enrico Emanuelli). Il fascicolo con le poesie di Busca viene donato a un artista di laggiù, Biswa Rout, artista indiano che ha studiato negli Stati Uniti e si è perfezionato in Giappone. Miglior incunabolo a questo canzoniere acrostico non c’è.
Ora il viaggio di Franco Busca, artista, poeta, è compiuto – dieci anni dopo la sua morte. La morte – se è tale, senza censure o pasticcini – impone una via, un compito da sigillare.
Dunque, dovunque, il viaggio. L’India, la bara di Marcovinicio – che è poi, come ogni autentica bara, una zattera –, il mare Adriatico. I remi non servono più: ci fa vela la luna, quella peluria di onde.
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Indian journal. Diario
C’è nell’India una idea di viaggio.
Un sentire che accompagna la partenza e, nell’inaspettato, emergono delle tracce.
Dico, il venerdì prima del nostro volo in direzione Chennai, parlando con un’amica, ‘Mi sembra che Franco sia andato in India negli anni Settanta’. Il giorno dopo incontro Marco, casualmente, dopo anni, al mercato. Quasi freddo. Chiedo a Marco: ‘Franco è stato in India?’.
‘Eh, certo. Un viaggio epocale. Recentemente abbiamo curato e pubblicato una raccolta di sue poesie, scritte tra India e Afghanistan con le foto del viaggio. Una edizione per ricordare il suo anniversario, a dieci anni dalla morte’.
Il lunedì sento Marco e mi propone di trovare un luogo adatto, durante il mio percorso, per lasciare traccia anche in India dei pensieri scritti da Franco nel 1973.
Dico: ‘Certo’. Mi sembra bellissimo. E dentro di me, penso all’ideogramma ‘Kokorozashi’ – usato spesso nel buddismo giapponese per indicare la direzione del cuore.
*
Partendo so che in India non cerchi, ma trovi o puoi trovare se sai accogliere senza compromessi. E, se stai nel fluire temporale di quell’infinito presente che l’India ti offre – ti nutre di apprendimenti diretti.
*
In viaggio ascolto, mentre vivo orizzonti di pellegrini e di linee verticali dravidiche. La profondità degli occhi delle persone che incontro è delicata come i petali che profumano di gelsomino.
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“Ma l’India non è neanche più il paese dei fiori, è il paese dei petali, sparsi dalla gente, portati dal vento, portati dall’acqua, dalle mucche, dalle capre, sparsi ovunque…”. E. Sottsass
*
Dopo Mahabalipuram, Kanchipuram, Tiruvannamalai raggiungiamo Auroville.
Muovendomi in tuktuk a Kuilapalayam, linea esterna della città sperimentale, fondata da Sri Aurobindo e Mirra Alfassa, in un battito di ciglia, un frame. Una scritta: Art Brut.
E rimane lì sospesa, ma presente.
Il giorno dopo andiamo ad esplorare.
Entriamo in un atelier. Uno spazio rettangolare in cui vivono forme familiari – superfici satinate si alternano alla materia spontanea, non addomesticata, irregolare. Sulla destra scaffali di libri accolgono narrativa e saggistica internazionale, dalla letteratura di Céline a poemi Sufi, a cataloghi di architettura, arte e design – principalmente indiani e giapponesi.
Lui, seduto, mentre tratteggia linee calme e costanti con marker nero punta fine. Alza lo sguardo e le densità delle luci rarefatte risuonano dentro.
E inizio ad immaginare punti di una costellazione in divenire.
‘Benvenuti’ – dice.
Parliamo, ci presentiamo, ci raccontiamo. Mi mostra l’atelier, il suo lavoro. Mi spiega, gli racconto. Ci raccontiamo.
L’atelier-shop è intimo. Racchiude, come trama e ordito, la storia di Biswa Rout – designer e artista – nato ad Orissa, terra sacra, luogo di incontro di fedi e di tradizioni differenti. ‘Amo studiare le culture del mondo, così affascinanti: esprimo la mia ricerca sia nei lavori d’arredamento sia nei miei quadri d’arte astratta’.
Biswa Rout inizia il suo percorso artistico negli Stati Uniti, e poi, prima di trasferirsi nel Tamil Nadu, viaggia in Giappone creando collezioni, principalmente in legno, che meditano sull’essenza del design ed esplorano la qualità del silenzio, del vuoto eloquente. Una ricerca formale che parla di essenzialità, di sintesi.
Dentro a questo vento leggero, quasi onirico, ricordo Franco. Le parole scambiate nei nostri incontri, al mattino. Quando il tempo di un caffè si espandeva di racconti, di vita viva, di spazi riflessivi e di silenzi nitidi.
Dico, tra me e me ‘Bene, è qui’.
‘Dice bene Biswa’. Lui, felice di ricevere un dono che arriva nell’inaspettato, dopo aver attraversato geografie e spazi di tempo e di storie sottili.
Ora, è nuovo tempo di partire per me.
“La notte è sulla porta come un sacerdote con mani stellate”. Franco Busca.
28 dicembre 2024
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‘The book is wonderful, time traveled, the world has changed for better or worse, but we are still alive to witness the journey with poetry, photography and music’. Biswa Rout
‘Il libro è meraviglioso, il tempo è trascorso, il mondo è cambiato in meglio o in peggio, ma noi siamo ancora vivi per testimoniare il viaggio con la poesia, la fotografia e la musica’. Biswa Rout
28 gennaio 2025
Tiziana Scaciga
*Le fotografie pubblicate nel servizio sono di Tiziana Scaciga; in copertina: Franco Busca e Marcovincio