10 Agosto 2022

“Non si erano adattati all’esistenza comune, al medio destino…”. Elogio della Fortezza Bastiani

Il confino è come la Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Inizialmente spaventa, respinge, predispone l’animo a un rapido e risolutivo allontanamento per fare ritorno a quella – così definita dal senso comune – “vita civile” e colorata che solo la città saprebbe offrire. In un secondo fatale momento il confino comincia a legare a sé i suoi frequentatori, li affascina, insidia il loro passo cittadino con nostalgie semplici, con richiami mai espliciti o invadenti, facendo leva su elementi naturali, primordiali, che parlano alla parte ancestrale del visitatore.

Ogni confinato ha la sua Fortezza Bastiani (luogo geografico indefinito) che droga la volontà lentamente, nel corso degli anni del bisogno più urgente, a piccole dosi, fino a renderlo dipendente; dolcemente, inesorabilmente, in alcuni momenti ossessivamente dipendente dalle sue forme, dai suoi colori e odori, dalle visioni notturne, dai suoni che non avverte in altri luoghi, un misto tra rumori casalinghi, familiari e musiche naturali ricche di silenzio, lì dove la natura ancora abbraccia le costruzioni umane, sul valico di un delicato compromesso.

Il passaggio è graduale, avvertito dal profondo delle ossa; il trascorrere del tempo è lieve ma senza inganni, senza disillusioni; i gesti ordinari, impossibili da coltivare in altri contesti caotici, diventano azioni sacre, confortanti, geometriche, rituali, senza mai risultare insensate. L’ordine che regna al confino è di tipo monastico-militaresco ma è necessario per giungere a un’origine pura e cristallina del pensiero, per salvarlo dalla confusione annebbiante dei restanti giorni, quelli lontani vissuti in città. Anche per il confinato in tempo di pace, come per il Giovanni Drogo della Fortezza Bastiani di Buzzati, l’orizzonte è gravido di avvenimenti, di novità mai definite ma auspicate, che la pace campestre – così come il deserto – ignora perché già realizzate in se stessa; di guerre culturali nell’altrove, ma che vengono a prendere forza e a procurarsi armamenti interiori nella quiete bucolica di un paesaggio elementare, esempio particellare di più ampi, complessi e rumorosi schemi metropolitani. Il dubbio se il tempo speso al confino sia un tempo sprecato, e che fugga in quanto è un tempo dolce, appagante un ordine interiore, resta fino alla fine dei giorni; ma è tormento addomesticato dalla benevolenza dei traguardi raggiunti dall’anima, da ciò che si riporta in città sotto forma di nuova energia. Ci si innamora del confino come della Fortezza Bastiani che tutto sorveglia e in teoria protegge nella semplice e rassicurante ripetizione di una regola non scritta, ma naturale, spontanea, primitiva, non riproducibile altrove. Quando si ritorna in città, niente è come prima della partenza perché il confino Bastiani ha già modificato il DNA del confinato, ha alterato nel profondo la classifica delle priorità, quelle “false”, che non sapevamo essere false prima di abbandonarci fiduciosi alle dolcezze dell’autoesilio.

Perché è dai deserti – ma questo lo si apprende in seguito, dopo anni di esercitazioni – che arrivano le migliori speranze, le glorie attese, i finali che fanno storia (“Avete tutti la smania della città, e non capite che è proprio nei presidi lontani che si impara a fare i soldati”). Dalle città luminose e ricche di vetrine che mostrano occasioni sentimentali a buon prezzo, non giungono che saldi per l’anima, effimeri sconti esistenziali. All’inizio l’assuefazione culturale è potente e la città richiama all’ordine i suoi figli dispersi su confini anonimi, in cerca di verità trasversali che inizialmente essi stessi ignorano e perché estranei a una solitudine non ancora richiesta o cercata. Scrive Buzzati:

“… una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch’egli se ne accorgesse”.

Abituarsi alla propria personale Fortezza Bastiani, dimenticarsi del mondo (“Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino…”), non avvertire la fuga del tempo, divenire immemori del sogno iniziale dettato dalla società, dell’obiettivo pratico che come una spada di Damocle sospesa sul capo è lì a ricordare che i luoghi vincenti e produttivi sono ben altri. Diluirsi inesorabilmente nella surreale magia di un luogo che per altri non ha senso, non possiede finalità, ma ha una sua poetica: questi i “rischi” legati alla possibile fascinazione del confino. È l’attesa di qualcosa che sveli il mistero al di là delle nebbie a rendere speciale il tempo sacrificato sull’altare periferico e improduttivo del quasi anonimato. Mentre gli altri vivono vite luminose in città, nell’ordinarietà di glorie borghesi, il confinato superbamente, dall’alto della sua Fortezza, si gode l’unicità del suo stare ai margini, sulla linea del confine, aspettando l’acme che giustificherà la sua scelta volontaria ma pur sempre estrema.

Si resta stregati al confino; più tempo si trascorre lì, più è difficile ritornare alla vita cittadina (“Della città che ora sembrava a Drogo relegata in un mondo lontanissimo”), e ogni volta è uno strappo, una violenza su se stessi quel patetico tentativo di ridare centralità a una normalità che non ha più spazio tra la ricerca attraverso le nebbie sul confino. L’ignoto è la calamita del confinato: un esplorare che partendo da motivazioni attecchite nel passato, tende i propri rami verso un futuro misterioso. Sentirsi speciali esploratori di se stessi sul limite: è una bella e dannata ossessione che scompone ogni sicurezza di partenza; ecco perché il confino non è solo un luogo esterno, una “località” geograficamente identificabile, ma è prima di tutto una condizione interiore che se ne va in giro per il mondo in compagnia del confinato, rifugiandosi in lui a mo’ di parassita che viaggia a spese dell’ospite. Si resta sospesi (in “Una frontiera che non dà pensiero”) – senza fare un passo in avanti nel miglioramento della propria esistenza e affogando in una salvifica solitudine – mentre l’umanità apparentemente progredisce, evolve in base a parametri discutibili stabiliti da altri.

Solo nella contemplazione delle nebbie – un contemplare che richiede strumenti non facili da reperire – sul confine estremo del deserto dei Tartari o mentre osserva l’infinità di un cielo stellato, l’autoesiliato nella sua fortezza trova la ragione, la volontà e la gioia per continuare a non seguire la moda del mondo e il canto delle sue sirene. Il bisogno di presidiare il confino, in attesa che l’oscurità riveli i suoi segreti: il deserto lontano dal centro del divertimento diventa luogo amato pur nella sua iniziale inospitalità. Da esso ci si attende ciò che la vita lasciata alle spalle finalmente non può più darci.

*Il testo è tratto da “Elegia del confino” di Michele Nigro, inedito, di prossima pubblicazione

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