07 Marzo 2025

“Dove nessuno potrà trovarmi”. Bruno Pizzul, Feltrinelli e “Il Gattopardo” dei “sudisti”

La morte di Bruno Pizzul, The Voice, la voce del calcio italiano, mi ha fatto venire in mente un articolo di Gianni Brera – il più bello, a dire di Indro Montanelli. S’intitola Peppìn Meazza era il fòlber, racconta la morte di Giuseppe Meazza, una specie di Achille del calcio dei primordi, uscì su “il Giornale” il 24 agosto del 1979. Pizzul avrebbe iniziato a narrare le gesta della Nazionale l’anno dopo. 

Nell’articolo, Brera rovescia i canoni del ‘coccodrillo’: racconta Meazza, antico eroe condannato alla trita vecchiaia, a partire dal disastro del corpo, dal collasso medico. La morte del mito rispecchia, con incredibile crudeltà, la morte di tutti noi: “vederlo sfiorire a quel modo era come dover riflettere sui nostri anni perduti, sulla fine più o meno vicina di tutti”. La considerazione finale, in calce al leggendario pezzo, pare quasi ovvia: 

“mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte”. 

Triste fine di un campione, marchiato da sorte solerte, condannato a rivivere la propria giovinezza per ciò che gli resta ingloriosamente da vivere. 

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Null’altro tiene insieme la filigrana di questo articolo se non che nel giorno in cui muore Pizzul esce in tivù la serie dedicata al Gattopardo. Il collante del tutto, semmai, è felino. Brera scrive che Meazza apparteneva alla “specie sorniona” dei gatti; qualcosa di ‘gattesco’ aveva pure Pizzul: i telecronisti di oggi, genericamente, abbaiano. Il resto è l’eccesso di z che lega Pizzul a Meazza e una serie televisiva che non ringhia né dà in unghiate. 

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Della serie, naturalmente, poco m’importa. Piuttosto, è l’anniversario a sorprendermi. I settant’anni della Feltrinelli Editore, di cui Il Gattopardo, edito nel 1958, è una delle più sgargianti gemme. Sulla “Storia di un editore irregolare… che seppe sfidare il conformismo di sinistra”, ha scritto un articolo più che efficace Pierluigi Battista, Feltrinelli 70: è uscito sul “Foglio” qualche giorno fa. Dal 1970, come si sa, Giangiacomo Feltrinelli si dà alla macchia, rischiando tutto ciò che ha – ricchezze, sicurezze, prestigio – per l’idea, l’avventatezza, la rivoluzione. Sulla latitanza e sull’attività politica di Feltrinelli ha scritto un bel libro il figlio, Carlo, s’intitola Senior Service. Da tempo dialogo con Enzo Fontana, arruolato, diciottenne, nei Gruppi d’Azione Partigiana ideati da Feltrinelli. Arrestato nel 1977, vent’anni di carcere a Milano, una nuova vita da romanziere; parla con reticenza, recinto dal pudore, dei suoi anni con Feltrinelli. Ma non è questo il punto. 

In qualche modo, pur nelle vesti di rivoluzionario e di fuggiasco, Feltrinelli era braccato dai suoi libri. Il 31 maggio del 1970, sul “Sunday Times”, scrive un lungo articolo in cui racconta l’intricatissima vicenda della pubblicazione del Dottor Zivago – e la sua, in una sorta di austero gemellaggio. L’articolo – riprodotto in Senior Service – termina con parole che sanno di profezia, imparagonabili a un oggi di teste vuote e pance piene:

“Ma io mi trovo dove nessuno potrà trovarmi. Si pensa che io mi trovi in una vecchia fattoria, riadattata e ammobiliata in fretta la scorsa estate, in una valle dell’Austria sudorientale. Ma io non sono lì e nessuno sa dove mi trovo”. 

A dirla tutta, pare che Feltrinelli sia in un nessundove dell’anima, riferisca di una topografia dello spirito – è nella sua notte oscura. 

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Ma non è questo il punto. M’importa, a questo punto, andare dietro all’articolo di Battista. M’interessa comprendere la grana di un editore. Lo faccio attraverso due libri – naturalmente mai più pubblicati, ormai nell’acquasantiera dei libri estromessi dal catalogo. Il primo è “Il più bel libro di Enrico Emanuelli, di gran lunga il più bello, e molto bello in assoluto” (così Guido Piovene, in quarta): s’intitola Curriculum mortis, viene pubblicato nella collana “I Narratori di Feltrinelli” nel febbraio del 1968. Enrico Emanuelli, novarese, poderoso inviato della “Stampa”, autore di romanzi sagaci, ogni tanto ripescati dall’oblio – ma non questo, troppo torbido, questo, troppo audace e in controluce –, era morto l’anno prima. Uscì nella stessa collana in cui sono stati pubblicati Boris Pasternak e Malcolm Lowry, Saul Bellow e Karen Blixen, Giovanni Testori e Alberto Arbasino. 

È bello vedere, a distanza di anni, la lista degli autori impilati nelle più note collane degli editori italiani: si misura la futilità della fama, ma ancor più il criterio dell’incuria. A rari autori intramontabili – chessò: Henry Miller, Yukio Mishima, Günter Grass, Mario Vargas Llosa – fanno da contralto diversi altri, perduti – James Baldwin, ad esempio, ora edito da Fandango, oppure Giorgio Manganelli, ora nel paddock Adelphi, come Goffredo Parise – quando non dimenticati – tra i moltissimi: l’ungherese Tibor Déry, un tempo stampato con le fanfare; il russo Boris Pilnjak, azzerato dalla furia stalinista; lo svizzero francese Robert Pinget, antico alfiere del ‘Nouveau Roman’, allora di moda. 

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Curriculum mortis è un libro a dittico: le prime trenta pagine sono una specie di enigmatico poemetto in prosa, l’epos di un vagabondo. Le successive centoventi sono delle “Note di vario genere” al poemetto. La struttura ricorda Fuoco pallido, il più folle dei romanzi di Nabokov, uscito in lingua inglese, da Putnam, nel 1962. Stando alla pagina introduttiva, però, Emanuelli avrebbe cominciato a scrivere Curriculum mortis “nel 1958, a New York, sulla carta da lettere dell’hotel Lexington”: elaborò nascostamente quel libro – “fu un libro molto privato, rimasto ignoto a tutti” – per anni. Al principio, avrebbe dovuto intitolarsi Ad un mescolatore di Martini dry. È un libro notturno, questo, una notte oscura – ancora. Soprattutto, è un libro che non ha eguali nel panorama del romanzo italiano, stretto tra evanescenze ottocentesche e vieti sperimentalismi. Pur nella struttura anarcoide, ciò che preme all’autore, ciò che urge, è la pura vita, una violenta vitalità. 

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Le Note sono la parte più bella di questo romanzo impossibile: Emanuelli ci trascina da Buenos Aires – “nello studio di Perón” – a Rio de Janeiro, dalla “chiesa di Hedar Sion, la più bella e famosa di tutta l’Etiopia” al fiume Lemen, in Finlandia, valicato insieme a un cercatore d’oro di nome Erkki Kokko, “che poi chiamammo Cinque Kappa perché tante ce ne sono nel suo nome”. C’è l’India, certo, c’è Suez e c’è anche “il cuore di Dalí”, messo in mostra a Milano nel 1954, “alto circa quattro centimetri, racchiuso in una specie di nicchia d’oro… il tutto risultava irritante, sgradevole e persino schifoso”. Il libro è pieno di bagliori:

“Gli intermediari fra il giorno e la notte, coloro che concludono il tempo della luce e conducono i loro concittadini verso il tempo delle tenebre, spadroneggiano con antichi espedienti. Chi sono?”

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Esattamente quattro anni prima, nel febbraio del 1964, Feltrinelli pubblica l’unico romanzo di Allen Tate, I nostri padri. Il libro è tradotto da Marcella Bonsanti, adornato da fascetta blu: “Il mito di una preziosa e arcaica civiltà del Sud, nel capolavoro di Allen Tate, un classico della letteratura americana”. Il romanzo – 344 pagine per 2.500 lire di allora – reca un segnalibro, che è poi un repertorio critico; secondo Janet Adam-Smith I nostri padri “è un capolavoro di bellezza formale… una delle opere di maggior rilievo del nostro tempo”. Uscito in origine nel 1938, il romanzo tratteggia l’epopea ‘sudista’ con maggior potenza dei pur più potenti libri di Faulkner. Ne sentii dire, la prima volta, molti anni fa, con armamento di aggettivi barocchi, da Marco Respinti, giornalista, fanatico di Tolkien, esperto del pensiero conservatore americano, in specie di Russell Kirk. Voglio dire: Allen Tate, poeta di genio – vinse un Bollingen, fu laureate nel biennio 1943-44 –, saggista sagace, non era certo uno di sinistra, qualunque cosa voglia dire tale etichetta. Figura di spicco – insieme a Robert Penn Warren e a John Crowe Ransom – dei “Fugitives” e dei “Southern Agrarians”, fu, per un pezzo di vita, fautore del ritorno al ‘vecchio Sud’: criticava il progresso fine a se stesso, la spregiudicata industrializzazione, la fine delle tradizioni. 

Prima che se ne accorgesse Feltrinelli, Allen Tate era conosciuto in Italia soltanto per i suoi Saggi, editi nel 1957 dalle Edizioni di storia e letteratura. Nel 1970, per Mondadori, Alfredo Rizzardi tradurrà Ode ai caduti confederati e altre poesie. Tutti libri non conformi, altri rispetto alla vulgata americanoide presa per buona, presto cinti dall’oblio. 

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I nostri padri racconta la caduta di un casato della Virginia, una famiglia dell’aristocrazia del Sud che fa capo al maggiore Buchan, uomo-totem che “vive secondo i canoni dell’onore, ignaro d’ogni manifestazione di volgarità o bassezza, in un tenor di vita che scorre liscio e comodo, perché ispirato all’osservanza di un cerimoniale” (così l’esplicativo segnalibro). Sembra un po’ la cornice del Gattopardo. La prima pagina del libro ha del miracolo, costruita con aristocratico passo:

“Oggi soltanto mentre andavo al fiume lungo Fayette Street mi è giunto un odore di pesce secco su una folata di vento, e ho ricordato il giorno in cui stavo sotto il grande corniolo a Colle Ameno. Nella fine d’aprile i suoi fiori si lanciavano nell’aria come spuma. Era morta mia madre. La sera avanti il parentado era arrivato a frotte; e dopo la prima colazione usciva sul piazzale il ragazzo quindicenne ch’ero allora. Sotto il corniolo mi restava in bocca il sapore salato delle aringhe di latte che mia zia Myra Parrish aveva offerto ripetutamente ai parenti e agli amici di Washington e di Alexandria. C’era il vecchio zio Armistead, fratello di mio padre e più anziano di lui di vent’anni, nato alla fine della Rivoluzione, e ancor più vecchio delle sue ottanta primavere; che sordo e mezzo cieco rispondeva unicamente “eeh?” quando gli si parlava, e non poneva mai una domanda. Ora quell’eeh mi echeggia nella mente ridestato dall’odore d’aringa e rivedo la bara nera di mia madre che posa nelle quiete del salotto anteriore, una stanza bianca, assai lunga. Mi chiamo Lacy Gore Buchan e sono il terzo maschio e l’ultimo di quattro fratelli. Mio padre il fu maggiore Lewis Buchan, era nato nella Contea di Spotsylvania in Virginia…”

Una stanza bianca, odore penetrante di aringhe, la bara nera, la morte della madre e i fiori del corniolo; il ragazzo quindicenne, l’abbaiare di un sordo, una sfilza di nomi, un lignaggio. Così si crea la vita in un romanzo. Che libro magnifico: essenziale per sognare e prendere a morsi le stelle, è vero, ma anche per capire il cuore profondo degli Stati Uniti e finanche gli attuali suoi governanti, dacché tutto si svolge secondo le norme di un immaginario, di una mitografia, se non di un rito. Naturalmente, da allora, nessuno si premura di ripubblicarlo. 

*In copertina: fotogramma da “La morte corre sul fiume”, il film di Charles Laughton del 1955

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