Ho appena dato una sbirciata alla disputa virtuale tra Gianluca Barbera e Davide Brullo. Tema: l’impegno che lo scrittore dedica alla vendita dei suoi libri.
Sono d’accordo con entrambi. Il primo esprime concetti di buon senso, il secondo, come al solito, va alla radice estrema. Come insegnante e come lettore, sto tutto dalla parte di Barbera; come scrittore sto invece completamente con Brullo. E mi tocca oscillare da un estremo all’altro piuttosto spesso.
Fatto sta che l’argomento risveglia in me un antico prurito, e dunque vorrei grattare un po’ la questione anch’io.
Premessa: io vengo anzitutto dalla scrittura poetica, e in questa specifica nicchia parlare di vendite è già di per sé ridicolo. Però si può parlare di promozione della propria opera, comunque.
Ora, negli anni avrei raccolto infiniti aneddoti.
C’è il poeta di una certa presenza nelle antologie dell’epoca che vende decine di migliaia di copie (come un romanziere di buon successo!), ma tutte entro una limitata area geografia, ovviamente la propria, all’interno della quale non si vergogna a organizzare eventi di presentazione perfino nei supermercati.
C’è lo scrittore riverito come un maestro, che dedica una mattina alla settimana, con meticolosa applicazione, per rispondere alle decine di aspiranti poeti con la medesima lettera: “Ho trovato testi di vera sapienza poetica, come quello a pagina…, che, se mi permette, trovo del tutto affine a quanto ho scritto anch’io nel libro… Spero lo abbia letto: sarebbe il suggello di una ideale fratellanza poetica”.
Ci sono quelli che dedicano l’intera vita alla costruzione di un castello di rapporti: collaborazioni qui e là, partecipazioni a convegni, frequenza di corsi, giuria in qualche premio, organizzazione di eventi e via dicendo, giusto per tessere un’infinita, sottile tela di corrispondenze, affinché il proprio nome continui a girare dove serve e, per inerzia intellettuale, alla fine si imponga come si impone il ritornello di un tormentone estivo.
C’è chi sfrutta la propria autorevolezza accademica.
C’è chi sale sul palco insieme ai cantanti.
C’è chi si può appoggiare a qualche Compagnia delle opere o a qualche Partito.
C’è chi può far acquistare centinaia di copie del proprio libro da Associazioni, Biblioteche, Centri culturali.
C’è chi la/lo dà via come il pane, per aprirsi le porte giuste.
E così via. Per tutte queste categorie avrei nomi e cognomi – per quel che vale.
Ricordo la discussione su questo tema con un amico di Atelier. I suoi argomenti erano gli stessi di Barbera. Ma io all’epoca sognavo ancora l’agone letterario, pensavo al mio libro come a un’ascia per colpire gli avversari, lieto di poter morire (e quindi rinascere) sotto i colpi di un’opera più potente della mia e di farmi assoggettare da una voce più degna. Così, quando arrivai a pubblicare per Einaudi, non feci un bel niente per vendere il mio libro e lo abbandonai nelle prestigiose mani di un editore che non aveva tempo né risorse per gli ultimi arrivati.
Ma eccoci al punto. Ciò che duole sotto la crosta è il dettaglio.
Che cosa dovrebbe fare di concreto un autore per promuovere la propria opera? Finché si tratta di stilare un elenco di decine, o centinaia, di nomi buoni per l’ufficio stampa, a cui inviare, magari con dedica, il libro, siamo all’interno degli atti dovuti. Ma poi? Spulciare l’agenda o scorrere i contatti per chiamare qualcuno che non si frequenta più da tempo, o con cui si è avuto qualche rapporto sporadico, per annunciare l’uscita della propria opera e, ovviamente, ottenere in cambio un appoggio, in qualche modo?
Chiamare associazioni, librerie, biblioteche, per proporsi all’interno della prossima stagione di eventi?
Tentare il colpaccio con qualche ipotetico aggancio che possa offrire una comparsata in tivvù?
Partecipare a tutti i dibattiti sul web, per darsi una visibilità mediatica?
Investire di tasca propria nella costruzione di uno show itinerante?
Insomma, che cosa vuol dire “darsi da fare perché il proprio libro venda il più possibile”? Dietro ai minimi esempi di pratiche che ho annotato, si impone una visione piuttosto triste e angosciante: occorre accettare logiche subdole, che alla fine sono in contrasto con l’identità di uno scrittore (o meglio, dello scrittore per come lo percepisco io). Occorre lasciarsi impaniare.
Il tale ti invita nel suo salotto? Nel giro di pochi mesi, come ti comporterai tu, nei suoi confronti, quando avrai tra le mani la sua mediocre, anzi decisamente pietosa, antologia? Con quale faccia tosta o coscienza chiederai sostegno a uno scrittore che non stimi? Che posa assumerai quando, tra l’offerta del 3×2 di maionese e gli ultimi, rutilanti biscotti senza olio di palma e senza zuccheri aggiunti, dovrai spiegare come hai ereditato e ricondotto alla carne l’angelismo di Rilke?
Replica prevista: “Ma non sarai così vanesio e schifiltoso da vedere intorno a te solo ipocrisia e relazioni insulse?”. Risposta: sì e no. Rispetto tutti gli scrittori, ma ne ammiro ben pochi. E “darsi da fare” per promuovere la propria opera richiede energia, tempo, dedizione. Ecco: io questa energia e questo tempo vorrei dedicarli alla scrittura, alla lettura, all’esplorazione di nuove fantasie. Piuttosto: all’attesa.
Altra critica: fin qui avrei identificato surrettiziamente i lettori con gli altri scrittori, mentre promuovere la propria opera significherebbe avvicinarsi a un pubblico, trovarlo, inventarselo semmai. Un pubblico di lettori veri e propri. Ebbene, ritorno alla premessa: vengo dalla poesia (e anche la prosa, per me, è una diramazione del pensiero poetico). E in poesia il pubblico, in definitiva, coincide con la massa di persone che, a prescindere dal livello, comunque pratica la scrittura poetica (questo, sia chiaro, non è di per sé un male, dal mio punto di vista: anzi).
Ma poniamo pure come assunto l’esistenza di un pubblico potenziale per un’opera che non ha motivi per imporsi da sé (investimento dell’editore, prestigio acquisito dell’autore, ecc.), e ripetiamo la domanda: che cosa dovrebbe fare uno scrittore per promuovere sé stesso? Gratto la questione fino in fondo: che cosa sarei disposto a fare io? Fino a poco tempo fa, la risposta sarebbe stata semplice: non mi sarei rifiutato a nessun invito. Ci avrei, come sempre, messo volentieri la faccia. Avrei anzi vissuto l’esperienza con curiosità, pronto persino al gesto osceno di spiegarmi, fin dove possibile. Purché, appunto, si trattasse di un invito spontaneo, possibilmente da parte di sconosciuti, o non scrittori.
Ora come ora, invece, la risposta potrebbe essere diversa. Costruirsi un habitat sano, entro la repubblica delle lettere del nostro paese, richiede troppo impegno ed è impresa forse impossibile. Quel che ho potuto, l’ho tentato a suo tempo. Ora aderisco serenamente alla solitudine e, se trovo le forze, le dedico alla scrittura.
C’è consolazione, o autocommiserazione, in questo? No. Perché è ovvio che scrivo con il desiderio di essere letto. E non ambisco a diventare lettura di mero intrattenimento (per ricalcare le categorie suggerite da Barbera): scrivo per dare voce a una sovversione dell’esistente.
In conclusione, Gianluca Barbera dunque è davvero ragionevole, ragionevolissimo. Ma gratta gratta, lo schemino finale è ovvio: lo scrittore scrive, l’editore promuove l’opera, il lettore la incontra e, se lo spirito del tempo decide di incarnarsi, se ne innamora e ne canta le lodi.
Andrea Temporelli
*Per gentile e amicale concessione pubblichiamo qui ciò che è pubblico anche qui.
**In copertina: Thomas Mann; come si impegnava a promuovere la propria opera?